Possiamo fare a meno di Twitter e Facebook?
Forse dovremmo uscire dai social network. Rappresentano una minaccia politica: attraggono gioia e cooperazione sociale e le trasformano in depressione e individualismo narcisista
La visione fantasiosa dei social media come strumento magico di connessione sociale è in netto contrasto con la sua realtà di pozzo senza fondo per viscidi attacchi personali e sbotti di indignazione paranoica.
Attribuire questo ampio divario al capitalismo sfrenato è una tentazione allettante: Facebook e Twitter non hanno concorrenti virtuali e sono perfettamente a loro agio nel fare qualsiasi cosa, dal manipolare i dati degli utenti al fornire un palcoscenico agli hater fintanto che gonfiano i loro bilanci. Forse strappare i social media dalle mani delle società private potrebbe finalmente permetterci di realizzare la visione che li ha generati.
È questo il pensiero stimolante dietro l’ultimo pezzo di Evan Malmgren, Socialized Media, che tratta di cosa potrebbe voler dire una cosa del genere per il dominio dei giganti delle piattaforme digitali. Invece che introdurre una competizione artificiale in una campagna antitrust, o regolamentarli come servizi pubblici – o addirittura nazionalizzarli, Malmgren sostiene che dovremmo piuttosto vedere «i social media come beni comuni» e dare «il potere collettivo sulle piattaforme digitali alle persone che mettono in connessione». Dal suo punto di vista, lo stato non dovrebbe agire come un «tutore legale» di scorte collettive di dati ma al contrario, data la natura transnazionale di queste società, come un intermediario tra cooperative di utenti.
Sebbene sia interessante riflettere sui molti modi che avremmo per socializzare il monopolio delle piattaforme, Malmgren lascia senza risposta una domanda centrale: vale la pena salvare i social media?
In una società socialista, dovremmo trarre vantaggio dai progressi scientifici e dalla conoscenza tecnologica raggiunta dal capitalismo, al fine di avere livelli produttivi più o meno uguali ma senza il meccanismo di spoliazione privata o la distruzione del pianeta. In alcuni casi, questo potrebbe voler dire socializzare e riorientare imprese già esistenti – le banche, ad esempio – ma per altri settori probabilmente significherebbe un’eliminazione drastica o al limite un drastico ridimensionamento.
È inimmaginabile che, per dire, sotto il socialismo l’industria automobilistica possa essere anche solo una frazione di quanto è ora. Senza dubbio dovremmo sfruttare la capacità del capitalismo contemporaneo di spostare le persone, ma questo includerebbe azioni come espandere e implementare il sistema ferroviario, non fornire «un’automobile a tutti».
Nel caso delle macchine, c’è stata un’evidente operazione di natura pratica e ideologica di manipolazione dell’opinione pubblica: l’industria automobilistica non solo ha convinto le persone che le macchine rappresentassero la libertà di movimento, ma ha anche fatto tanto per distruggere il trasporto pubblico esistente, o comunque prevenirne lo sviluppo. Mentre possiamo effettivamente avere bisogno di macchine in una società capitalista, sicuramente non ne avremmo così bisogno in un mondo che ha al centro il benessere delle persone e del pianeta anziché il profitto.
Forse un discorso simile può essere fatto per i social media. Sotto il capitalismo, in un contesto in cui le persone passano la maggior parte del loro tempo a fare lavori che odiano e non hanno quasi più occasione di sperimentare una socialità che non sia predeterminata, ha perfettamente senso che passino la maggior parte del loro “tempo libero” abbuffandosi con brevi e intensi picchi di interazioni “sociali”. Malmgren ha senz’altro ragione quando sostiene che mettere le piattaforme digitali sotto controllo democratico le indurrebbe ad essere meno dopanti e manipolatorie. Ma se tutte e tutti lavorassimo di meno, e di conseguenza avessimo più tempo a disposizione per perseguire i nostri obiettivi e interessi personali, spenderemmo davvero tutto questo tempo a guardare uno schermo?
Conversazioni difficili
La domanda centrale è se gli effetti negativi del capitalismo delle piattaforme sulle nostre vite siano specifici del capitalismo – nel qual caso le piattaforme sarebbero legittimi beni comuni da liberare dall’avidità del mercato – o se invece non siano proprio le piattaforme stesse, un po’ come per le automobili, ad essere connesse in maniera inestricabile alle leggi distruttive della società capitalista – nel qual caso dovrebbero scomparire o essere profondamente ridimensionate sotto il socialismo.
Per rispondere a questa domanda, cominciamo con un dato scioccante: su internet ci si imbatte in comportamenti scorretti. Succede anche nella realtà, certo. Ma il livello di depravazione esibito sui social media è di una qualità tutta particolare, specifica di quell’ambito.
Da un lato, il comportamento degli utenti è sfrontato, e nel caso di Twitter questa caratteristica fa il paio con il limite di caratteri. Ma dimostra anche una tendenza di marca psicopatica: l’ossessione per l’opinione altrui combinata con una disturbante assenza di empatia verso quelle stesse persone da cui cerchiamo, in maniera implicita o esplicita, un riconoscimento.
Per molti ricercatori, un comportamento simile non è semplicemente espresso ma letteralmente plasmato dai social media. Incrociando le analisi di settantadue studi diversi, la psicologa Sara Konrath e il suo team di ricerca hanno rilevato che i livelli di empatia fra gli studenti del college sono del 40% più bassi oggi di quanto non fossero vent’anni fa – uno sviluppo che loro attribuiscono a, tra le altre cose, «l’importanza crescente dei social media nella vita quotidiana»: «Con così tanto tempo speso a interagire con gli altri online invece che nella realtà, le dinamiche interpersonali come l’empatia potrebbero sicuramente risentirne».
Questa spiegazione è corroborata da uno studio di Cyberpsychology che ha rilevato come ci sia pochissimo contatto umano nelle interazioni online e nella messaggistica, malgrado tutti i tentativi di “scaldare” conversazioni con i maiuscoli, le finte risate, le emoticon e i like. Clifford Nass, psicologo cognitivo dell’università di Stanford, ha ugualmente scoperto che un «basso livello di benessere sociale» si accompagna ad alti livelli di utilizzo dei social.
Ancor più terrificante, l’essere più abituati a connessioni digitali che a conversazioni umane scatena un loop di feedback negativi: più ci si abitua a interazioni umani distanti e controllabili, più una conversazione umana vera e propria comincia ad apparire persecutoria e goffamente spontanea, e dunque qualcosa da evitare. Secondo la sociologa Sherry Turkle, «può essere difficile relazionarsi con le persone reali e i loro modi di fare imprevedibili, quando ci si è abituati a una loro pallida simulazione».
La maggior parte delle ricerche ha confermato che i social media fanno da rinforzo positivo e aumentano un senso di isolamento sociale. Già nel 1998, un gruppo al Carnegie Mellon ha elaborato il «paradosso di internet», secondo cui più connessioni online producono come risultato un maggior senso di solitudine. Questo problema è diventato più acuto nell’epoca di Facebook e Twitter, anche se i ricercatori e gli opinionisti sono riluttanti nel dire che queste piattaforme causano la solitudine: diciamo che Facebook non sta tanto generando l’atomizzazione, quanto fa da perfetto complemento e rinforzo ad una solitudine crescente.
Sentendosi soli, gli utenti di Facebook sono naturalmente portati a cercare qualsiasi forma di riconoscimento abbiano a disposizione. C’è uno studio australiano che è molto chiaro a questo proposito: «Gli utenti di Facebook presentano livelli più alti di narcisismo totale, esibizionismo, e tendenza al comando dei non utenti. In realtà, si potrebbe sostenere che Facebook gratifichi soprattutto il bisogno tipico dei narcisisti di auto-promozione e comportamento superficiale».
Paradossalmente, un atteggiamento solitario rinforzato dai social media non si accompagna semplicemente a più tempo passato da soli: i social media si assicurano di non farci mai avere abbastanza tempo per starcene seduti a riflettere sui nostri pensieri. Questo significa che siamo indotti a non sopportare la noia, a non affrontarla, elemento ampiamente riconosciuto come una conquista fondamentale. Ancora una volta, Turkle inquadra eloquentemente il problema: «Senza la solitudine, in giorni e notti perennemente connessi, potremmo facilmente sperimentare quel ‘momento in più’ ma vivere con meno».
Considerando tutto ciò, l’appello di Malmgren affinché siano «gli stessi utenti delle piattaforme a rappresentare il modello ideale per un sistema democratico di governo» suona strano. Com’è possibile che persone abituate da quelle stesse piattaforme alla mancanza di empatia, introspezione e genuina conversazione rappresentino «il modello ideale per un sistema democratico di governo»? La democrazia ha bisogno di istituzioni che abituino le persone alle decisioni democratiche e al processo decisionale in sé, un processo che necessita proprio di quel genere di «conversazioni difficili» che Jane McAlevey incoraggia. Davvero Twitter rispecchia questa descrizione?
Sia il male che la cura
Recentemente per definire l’eccessivo uso di internet si è diffusa una locuzione che i giganti digitali hanno a lungo usato per descrivere ciò che desideravano accadesse: dipendenza comportamentale.
Una dipendenza comportamentale è molto simile a una dipendenza da sostanze: secondo Adam Alter, «attivano le stesse regioni celebrali, e si nutrono in parte degli stessi bisogni basilari: interazioni e supporto di natura sociale, stimolazione mentale, e un senso di efficacia». Ma le dipendenze comportamentali non portano lo stesso stigma delle dipendenze da sostanze. È qui che si nasconde il pericolo: consideriamo emarginati sociali categorie gli eroinomani, e sarebbe impensabile per noi voler partecipare in qualsiasi forma alla loro stessa supposta marginalità.
I giganti della tecnologia non si fanno simili scrupoli. Concepiscono i loro prodotti affinché siano oggetto di ossessione e generino dipendenza. Siamo incoraggiati, nel discorso tipico neoliberista, a sentirci responsabili per il nostro comportamento. Ma come dice “l’esperto di etica” e disertore della Silicon Valley Tristan Harris «non riconosciamo che ci sono oltre un migliaio di persone dall’altra parte dello schermo il cui lavoro è distruggere qualsiasi tipo di responsabilità l’individuo riesca a garantire».
Né è un segnale incoraggiante nei confronti dell’utilizzo di queste piattaforme il fatto che i ricchi non lascino che i loro figli ne facciano uso. I guru della tecnologica, da Steve Jobs a Chris Anderson, hanno severamente limitato il tempo che i loro figli passavano online, e mentre le scuole pubbliche vengono inondate di iPad per creare ambienti di “apprendimento ibrido” – la soluzione tecnologica alla carenza di insegnanti – gli ingegneri della Silicon Valley sono impazienti di mandare i loro figli nelle scuole private device-free.
Come ci spiega Alter, «le persone che producono tecnologia» seguono «la regola d’oro di ogni spacciatore: non farti della tua stessa roba». La mancanza di empatia, introspezione e genuina socialità – caratteristiche di un uso eccessivo dei social media – diventano allora inquadrabili come sintomi di una specie di dipendenza, una malattia dalla quale i ricchi sono abbastanza consapevoli e benestanti da preservare i loro figli, ma non abbastanza premurosi da impedire a tutti gli altri di infettarsi.
Tutto ciò, in ogni caso, dev’essere letto in parallelo alla prospettiva sociale che crea. Oltre a produrre e rinforzare l’assenza di connessione fra individui e umanità, le piattaforme social, come tutte le droghe, promettono di rimediare all’assenza di connessione fra individui e umanità che è endemica della società capitalista.
Come ci spiega Wolfgang Streeck:
«Nell’assenza di istituzioni collettive, le strutture sociali devono essere elaborate dal basso verso l’alto individualmente… La vita sociale consiste in individui che costruiscono reti di connessioni private attorno a loro, facendo del loro meglio con quello che hanno a disposizione. L’intrecciare relazioni centrate sui singoli crea delle strutture sociali laterali, volontarie e contrattualistiche, il che le rende flessibili ma deperibili, bisognose di un continuo lavoro di ‘networking’ per tenerle insieme e aggiustarle alle circostanze mutevoli. Strumento ideale sono allora i ‘new social media’, che producono strutture sociali per gli individui sostituendo con forme volontarie le forme obbligatorie di relazioni sociali, e reti di utenti a comunità di cittadini».
Le malattie dei social media non sono però l’unico problema; sono anche delle “soluzioni” a problemi sociali molto più ampi e storicamente determinati. Nell’assenza di progetti sociali universali e legami comunitari tradizionali, «la vita sociale nell’epoca dell’entropia è di necessità individualistica», e i social media sono la struttura perfetta per ospitare questa tendenza in un’ultima analisi anti-sociale. Alleviano l’isolamento e la disumanità del vivere in una società capitalista mentre contribuiscono a quello stesso isolamento e disumanizzazione. Come nel gesto di grattarsi un prurito, sono un sollievo di breve durata che non fa altro che aumentare il problema.
Una minaccia imminente
Non ci vuole molto a convincere qualcuno dei vari lati negativi derivanti dall’uso dei social, lati che però vengono velocemente scartati come effetto collaterale di una tendenza che è, tutto sommato, positiva. «Certo, le persone fanno cose stupide su Twitter e certo, forse spendiamo troppo tempo parlando fra di noi attraverso uno schermo invece che di persona. Ma i social media ci tengono informati e connessi in modi storicamente nuovi». Anche i critici più severi dei social attualmente esistenti sono cauti nel condannarli in toto: «Ci sono anche cose buone nei social, certamente».
Se però prendiamo sul serio quanto emerso dagli studi sopra citati, dire che i social media hanno dei “lati negativi” non è abbastanza. Il quadro generale qui dipinto è quello di una crisi di salute mentale – una crisi che è, se non causata, perlomeno alimentata dalle piattaforme social.
Secondo Malmgren, «depressione, ansia, odio diffuso, paura, e falsità complottiste sono tutte conseguenze accettabili [per i monopolisti delle piattaforme] fin quando sono poste, coscientemente o meno, al servizio della crescita». Anche se questo è sicuramente vero, Malmgren ritiene che sottrarre le piattaforme a una logica di profitto e metterle sotto controllo democratico risolva automaticamente i problemi che ha elencato.
Al contrario, la conclusione che se ne trae è duplice: prima di tutto, il solo fatto di essere incollati agli schermi per avere interazioni “sociali” indotte è in sé stesso un fenomeno preoccupante, che sia votato al profitto oppure no; secondo poi, questo fenomeno è una manifestazione diretta dell’alienazione che sperimentiamo nel capitalismo. L’estrazione di profitto, in altre parole, non è l’unico modo in cui i social servono il capitalismo.
Per la sinistra, allora, i social media rappresentano una minaccia immediata: attraggono le persone che sono naturalmente portate per le politiche socialiste e le catturano in un narcisismo automatico fatto di dichiarazioni pseudo-politiche, dove dare sfogo a quel loop negativo che li allontana dalla realtà di rapporti umani quotidiani.
Twitter non è un semplice mezzo di espressione per le “patologie psichiche” che Mark Fisher ha descritto bene in Vampire Castle. È proprio il Castello dei Vampiri, che fa il lavoro del capitalismo per atomizzare ulteriormente la società e allontanare le persone dal genere di conversazioni che sarebbe necessario avere in un reale percorso politico. Prima ce ne renderemo conto, prima potremo liberarcene.
*Benjamin Y. Fong insegna all’Arizona State University. Questo testo è comparso su www.jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
L’illustrazione della foto è di Mister Thoms. I suoi lavori potete trovarli qui.
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