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A che punto è la consegna? I rider dopo la legge

Nicola Quondamatteo 23 Dicembre 2019

A più di un anno dal cosiddetto «decreto dignità» la vertenza della gig economy e dei lavoratori delle piattaforme continua a essere piena di contraddizioni e conflitti

«La morte nel 2018 di un corriere che lavorava nell’Inghilterra meridionale per una ditta di logistica, la tedesca Dpd, proiettò un’imprevista attenzione sul lato oscuro di quella che è ormai nota come gig economy. Il corriere non era un dipendente dell’azienda, ma da diciannove anni lavorava per essa come contraente autonomo. La sua morte fu causata dal peggioramento del diabete di cui soffriva e che trascurava, saltando spesso le visite e i controlli ospedalieri. Quando il fatto accadde, la Dpd lo aveva appena multato il giorno prima di 150 sterline perché, essendosi recato a una visita medica, non era riuscito a effettuare le consegne previste in giornata». 

Si apre così il saggio che il celebre sociologo britannico Colin Crouch ha dedicato alla gig economy, uscito in traduzione italiana per le edizioni del Mulino. Una denuncia delle condizioni estreme di lavoro nelle periferie del ciclo produttivo, che in Italia (e non solo) sono state poste all’attenzione dell’opinione pubblica e del legislatore dalle lotte portate avante dai riders del food delivery.

Come è noto, appena insediatosi ministro del lavoro Luigi di Maio  decise di incontrare – nel giorno del suo insediamento – le rappresentanze autorganizzate dei fattorini che avevano condotto scioperi e manifestazioni contro le piattaforme digitali del cibo a domicilio. Identificandosi con quello che definì il simbolo di una «generazione abbandonata» e costretta alla precarietà, il capo politico del Movimento 5 Stelle si impegnava a risolvere per via legislativa le problematiche che i lavoratori gli avevano sottoposto. Dopo oltre un anno, di acqua sotto i ponti ne è passata: il governo è cambiato, un provvedimento legislativo è stato alla fine licenziato con la nuova maggioranza, e il settore rimane attraversato da conflitti che puntualmente sottolineano la mancanza di diritti e il permanere di alti livelli di sfruttamento. 

I riders sono divenuti col tempo i protagonisti più visibili della gig economy, di quella economia dei lavoretti descritta con lucidità dal giornalista di Repubblica Riccardo Staglianò in un prezioso libro. Gig in inglese sta per «concerto», «prestazione»: l’idea, appunto, è quella di un lavoro estremamente frammentato e parcellizzato in una serie di micro-compiti (di singole consegne, nel caso dei riders). In questo modo si alimenta la competizione tra i gigger per aggiudicarsi la chiamata per l’esecuzione del task e si evita di riconoscere stabilità e unitarietà dell’attività lavorativa. Protagoniste assolute dell’economia digitale sono le piattaforme, gli shadow employer della nostra epoca: esse infatti si presentano solamente come intermediari del servizio e non come datori di lavoro – sottovalutando così il proprio ruolo, come discusso da Vincenzo Comito in un suo recente saggio. Vale per Uber come per Deliveroo: non riconoscendo i propri collaboratori come dei dipendenti salariati, le app esercitano una vera e propria fuga dalle regole del diritto del lavoro. Questo avviene sebbene i cosiddetti «auto-imprenditori» – nella realtà materiale del capitalismo delle piattaforme – subiscano in realtà vettori supplementari di subordinazione (alcuni studiosi parlano, infatti, di sovra-subordinazione). Come ha scritto in proposito Jean-Philippe Martin su Le Monde Diplomatique, «il posto di lavoro diventa una merce altamente deperibile, che viene valutata in base a prestazioni misurate in tempo reale, a commenti lasciati dai clienti e a criteri di affidabilità stabiliti da algoritmi molto opachi: in caso di risultati mediocri, i lavoratori vengono semplicemente fatti fuori». La gig economy sembra realizzare l’utopia concreta dei segmenti più estremi del padronato: Denis Pennel, direttore generale della World Employment Confederation (potente lobby di aziende interinali), ha parlato in proposito di una società post-salariale «libertaria», fondata sulla scomparsa del lavoro dipendente in favore di auto-imprenditori pagati a cottimo dai committenti. 

Questa distopia, però, ha presto dovuto fare i conti con i lavoratori in carne e ossa, stanchi di accettare l’assurda situazione per cui sono soggetti al potere aziendale senza avere i diritti propri dei salariati. Nel caso dei riders, questo ha portato a interessanti processi di organizzazione – spesso iniziativa di associazioni informali dal basso sorte per rivendicare maggiori tutele. Nel caso bolognese, nell’autunno 2017 è nata Riders Union – subito protagonista di iniziative di sciopero (come il 13 novembre, quando i riders si rifiutarono di prestare servizio sotto una fortissima nevicata sfidando le pressioni delle app) e di mobilitazione (come il 24 novembre, con un flash mob sotto le due torri, luogo simbolo della città). Dopo diverse iniziative di lotta, i fattorini felsinei hanno costretto la politica locale a occuparsi del caso: nasce da qui la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano, sottoscritta a fine maggio 2018 dal Comune di Bologna, da Riders Union e dai sindacati confederali. Tra le imprese firmano soltanto Sgnam e My Menù (successivamente si unirà Domino’s, azienda con modello organizzativo differente ma comunque non scevro da problemi, che riconosce i propri fattorini come subordinati) – due startup italiane che si fonderanno per meglio reggere la competizione con le multinazionali. Queste ultime si rifiutano di far parte dell’accordo territoriale: il motivo addotto è la volontà di affrontare il tema a livello nazionale. Di reale c’è che la Carta impegna a riconoscere un set di tutele di base al di là della qualifica contrattuale:  assicurazione; paga oraria agganciata ai contratti nazionali (Ccnl) più affini sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative; maggiorazioni per lavoro festivo e notturno; sospensione del servizio in caso di condizioni meteorologiche estreme, e così via. Per chi volesse approfondire la genesi e i primi sviluppi del processo organizzativo dei riders bolognesi, è da poco uscito il mio lavoro di ricerca in materia; per una ricostruzione giuridica delle relazioni industriali nel food delivery, invece, si può consultare il recente lavoro di Gemma Pacella.

Dopo l’accordo territoriale di Bologna, la palla passa – come detto – il ministero di Di Maio, che si interessa subito alla vicenda. Dopo l’incontro con i riders, la prima idea è quella di allegare un articolato al cosiddetto «decreto dignità»; questo – ampiamente circolato – si proponeva di intervenire sull’articolo 2094 del codice civile per estendere la definizione di lavoro subordinato, in modo da arrestare la fuga da esso (e dai suoi diritti) esercitata dalle piattaforme digitali. Si sarebbe trattato di una rivoluzione copernicana, che avrebbe riguardato non solo i riders ma molti settori esposti alla drammatica riduzione delle tutele. 

Le piattaforme hanno fatto subito sentire la propria voce contraria, evocando il ricatto occupazionale e minacciando di lasciare l’Italia. Con ogni probabilità, anche Confindustria e la Lega (allora parte della maggioranza) si sono messe, dietro le quinte, di traverso a un provvedimento capace di fermare anni e anni di deregulation selvaggia. A questo punto Di Maio decide di frenare aprendo un tavolo di contrattazione al Mise tra le parti: presenti i sindacati, le associazioni dei riders, le associazioni di categoria datoriali (cui però le piattaforme non afferiscono) e i signori del cibo a domicilio. Risultati non arrivano, a causa dell’estremismo padronale delle app. Durante questo periodo le principali multinazionali (Deliveroo, Just Eat, Uber Eats, Glovo – quest’ultima ha rilevato anche le attività italiane di Foodora) hanno costituito una nuova associazione imprenditoriale, Assodelivery. È curioso notare come, di solito, le aziende si associno per negoziare da posizione di forza un contratto (tanto che quando la Fiat decise di sfilarsi dal Ccnl dei metalmeccanici uscì infatti da Confindustria). In questo caso, invece, le piattaforme del food delivery si sono unite proprio per impedire qualsiasi contrattazione. In mesi di incontri al tavolo convocato da Di Maio, sono riuscite infatti a presentare un contributo di appena tre pagine in cui: a) si richiede che il lavoro del rider debba essere riconosciuto per legge come autonomo (una richiesta palesemente incostituzionale, perché la natura della prestazione può essere definita sempre ex post, per come effettivamente si svolge); b) non si prende nessun impegno sul riconoscimento dei diritti e, sul fronte salariale, non si fa riferimento ad alcuna cifra; c) si richiedono delle defiscalizzazioni ad hoc da parte del governo, nel caso in cui i riders volessero acquistare sul mercato assicurativo privato delle tutele (da quelle previdenziali a quelle contro gli infortuni) – in sostanza, l’azienda scarica tutti i costi sul collaboratore; sarà eventualmente la collettività – i lavoratori dipendenti e i pensionati – a farsi carico delle conseguenze. 

Con queste premesse, il tavolo di negoziazione non poteva decollare. Il governo ne ha preso atto e, in un incontro con i riders nel dicembre 2018, si è assunto nuovamente la responsabilità di un intervento legislativo, data la mancata volontà delle piattaforme di riconoscere i diritti per via contrattuale. Il provvedimento preparato, meno ambizioso dell’articolato che doveva entrare nel decreto dignità, prevedeva di puntare sul rafforzamento delle collaborazioni etero-organizzate, cui l’art. 2 del Jobs Act riconosce quoad effectum le stesse tutele del lavoro subordinato. Questo intervento avrebbe dovuto tradursi in un emendamento al pacchetto Reddito-Quota 100 ma verrà in seguito dichiarato inammissibile per estraneità di materia, anche se tanto le associazioni dei riders quanto l’assessore al Lavoro del Comune di Bologna (protagonista della sottoscrizione della Carta) hanno lamentato l’assenza di volontà politica.

I riders sono tornati dunque – nel maggio e nel giugno 2019 – a scioperare con forza, visto che l’inconcludenza di Di Maio ha fornito un assist alle piattaforme per cottimizzare ulteriormente il processo produttivo. A Bologna, in particolare, i protagonisti di questo nuovo ciclo di conflitto sono lavoratori stranieri, in prevalenza pakistani e bengalesi, impiegati presso Glovo: si sta infatti affermando, in numerose città, una ristrutturazione delle aziende che, specie dove le condizioni sono peggiori, utilizzano riders immigrati, spesso con poca conoscenza della lingua italiana. A Milano, un’indagine della procura ha addirittura messo in luce veri e propri fenomeni di caporalato nel settore. 

Alla fine, nel decreto imprese dell’agosto 2019, è arrivato l’ultimo atto del ministro Di Maio, prima della crisi estiva causata da Matteo Salvini e del conseguente cambio di competenze. La parte del testo legislativo che riguarda i riders non ha, tuttavia, niente a che fare con i testi precedenti. Pur estendendo a tutti i rider, e al di là del contratto loro applicato, l’assicurazione Inail, questo emendamento opera infatti un dietrofront su tutta la linea: nessun avanzamento sulla qualifica del rapporto di lavoro, e addirittura mantenimento del cottimo (sia pur in misura non prevalente). Un anno di attenzione governativa sul tema, insomma, è servito solo a cristallizzare lo status quo: l’esperienza ministeriale giallo-verde del capo politico del Movimento 5 Stelle si è conclusa così nel segno dell’inconsistenza più assoluta.

In seguito a nuove lamentele da parte delle associazioni dei riders, il nuovo governo – con la ministra Catalfo – ha messo mano al testo con un emendamento, accogliendo parte delle richieste dei lavoratori. Il nuovo testo, da un lato rappresenta un avanzamento e un miglioramento rispetto al nulla prodotto da Di Maio e dal governo gialloverde, dall’altro contiene una serie di rischi non da poco: Rider Union Bologna ha parlato infatti di «luci e ombre». La parte più problematica riguarda la dualità del sistema di tutela previsto, che entrerà in vigore tra un anno: da una parte i riders «continuativi» – anche qualora non fossero riconosciuti come subordinati – possono accedere alle tutele dei lavoratori dipendenti via collaborazioni etero-organizzate; dall’altra i riders «occasionali», che avranno un set di tutele minime (come il divieto di cottimo e l’agganciamento della paga ai livelli dei Ccnl). Ora, al di là del vizio di partenza che costruisce questa dualità (assurdo pensare che il lavoro subordinato sussista o meno a partire dal numero delle ore lavorate o giù di lì), è facile prevedere che in presenza di standard differenti di protezione del lavoro, le aziende finiscano inevitabilmente per orientarsi su quello più debole (è questa la storia, del resto, degli ultimi trent’anni di relazioni industriali e mondo del lavoro).

Sarà in effetti proprio l’occasionalità il terreno di fuga che le piattaforme utilizzeranno per eludere il sistema di regole, proprio come avveniva in precedenza con i voucher. Le app, infatti, applicano prevalentemente contratti di prestazione occasionale: chi prima utilizzava i Co.co.co (che con la nuova normativa potrebbero rendere molto più semplice far causa all’azienda per vedersi riconosciuto il carattere etero-organizzato della collaborazione, accedendo così alle tutele del lavoro subordinato) ha fiutato i cambiamenti legislativi e ha operato una ristrutturazione verso le prestazioni autonome occasionali, con un corollario di licenziamenti. Questo è il caso di Just Eat, che a Bologna si è liberata dei suoi fattorini chiedendo loro di presentarsi a nuove e più svantaggiose condizioni: tra loro molti stranieri, che coi nuovi contratti che adotterà l’azienda non potranno più maturare i requisiti per rinnovare il permesso di soggiorno. I rider coinvolti hanno provato a opporsi, scendendo in piazza con l’aiuto del collettivo Social Log. Riders Union ha sollecitato Comune e Regione a contattare l’azienda per aprire un tavolo di crisi, ma quest’ultima ha risposto picche.

Il settore, quindi, appare attraversato dalle stesse contraddizioni di sempre. L’utilizzo politico dell’occasionalità da parte delle aziende rappresenta oggi uno dei terreni più importanti di sfida: se è vero che le piattaforme hanno comunque dichiarato inammissibile il set di tutele minime che accompagnerà i riders occasionali fra un anno, la dualità del sistema di protezione del lavoro rappresenta il punto debole di un processo legislativo che non è riuscito (o più probabilmente, non ha voluto) imporsi con nettezza sull’organizzazione del lavoro promossa dal capitalismo digitale. Alcuni strumenti possono aiutare a correggere la rotta; l’Inps, ad esempio, ha proposto di abbassare da 5000 a 2000 euro lordi annui la soglia massima entro cui utilizzare la prestazione autonoma occasionale. Si tratterebbe sicuramente di un provvedimento meritevole di attenzione, anche se da solo non sarebbe certo risolutivo.

Serve un mix tra protagonismo dal basso dei lavoratori e un’iniziativa legislativa capace di incidere davvero. Colin Crouch, al termine del libro citato in apertura, ricorda l’esempio storico dei portuali britannici: per buona parte del Novecento, i loro diritti erano minati da saltuarietà dei contratti e precarietà. Dopo il 1945, però, il nuovo governo laburista si adoperò in un’importante operazione di de-occasionalizzazione – l’occasionalità venne infatti associata allora a un’idea di lavoro povero, e pertanto andava contrastata – garantendo così ai portuali contratti stabili e dignitosi. Avremmo bisogno di una politica di tale respiro anche per fornire una risposta, stavolta definitiva e giusta, alle richieste che le lotte dei riders hanno portato sul tavolo. 

Nel frattempo, notizia recente, la Cgil ha portato in tribunale l’algoritmo di Deliveroo, e a Torino è esplosa la rabbia dei lavoratori in seguito all’incidente che ha coinvolto un loro collega. Le cose in basso si continuano a muovere; in alto bisognerebbe tenerne adeguato conto.

Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019).

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