A chi serve l’università
Dopo anni di riforme neoliberiste l'università italiana si trova al centro di una tempesta perfetta, fatta di ulteriori tagli, della guerra materiale e di quella culturale
L’università italiana si trova al centro di una tempesta perfetta. Da una parte, per cause locali: il governo Meloni ha annunciato l’ennesimo piano di tagli e una riforma della ricerca che precarizza ulteriormente il lavoro nelle fabbriche del sapere. Dall’altra, per dinamiche globali: gli atenei italiani, come quelli di tutto il mondo, si trovano al centro delle mobilitazioni per il cessate il fuoco a Gaza e nel mirino della guerra culturale scatenata dalle destre planetarie contro ogni forma di pensiero critico e rivendicazione di autonomia e indipendenza dalle logiche del profitto.
Come spiega Lorenzo Zamponi, aprendo questo numero di Jacobin Italia, tutto ciò si verifica dopo anni di riforme neoliberiste all’insegna della cosiddetta «società della conoscenza», contro ogni evidenza circa gli esiti fallimentari di quelle scelte di trasformazione dell’università e la fine del ciclo che le aveva partorite. Gli atenei, argomenta Antonio Montefusco, non sono mai stati oasi di libertà. Ma adesso questa condizione è ulteriormente peggiorata a causa dell’insistenza sulle materie tecniche (considerate più gradite al mercato) e sulla creazione di modelli di concorrenza individuale e tra università. Ulteriore paradosso delle guerre culturali, afferma Mimmo Cangiano, è che trasportate dentro gli atenei alcune questioni importanti per la necessaria innovazione del pensiero critico si sono trasformate in brand da valorizzare sul mercato della conoscenza. Maddalena Cannito e Barbara Poggio, del resto, spiegano che anche la maggiore consapevolezza sulle questioni di genere spesso si traduce in misure contraddittorie e del tutto parziali. E Luca Casarotti illumina il mondo dell’estrema competizione accademica dalla prospettiva di un ricercatore non vedente.
Una delle conseguenze di questa tendenza all’aziendalizzazione dell’università è l’estremo sfruttamento del lavoro universitario: Giacomo Gabbuti e Andrea Simone spiegano che le figure del precariato cresciute negli ultimi trent’anni, dall’uso scriteriato dei contratti a progetto alle esternalizzazioni selvagge, sono il cuore nevralgico e produttivo degli atenei di oggi. Bisogna ricostruire la genealogia di questi processi, come fa Andrea Mariuzzo, per capire come dietro il significante vuoto di «autonomia universitaria» si siano nascoste le logiche della governance neoliberale, il cui andamento è fotografato nelle infografiche che trovate nell’inserto apribile di questo numero. La tradizione estrema di questa logica, intesa come privatizzazione spinta e formazione svenduta un tanto al chilo, viene ben rappresentata dalla crescita del fenomeno inquietante delle università telematiche descritto da Luca Scacchi. Prova a tirare le fila di questi processi, e di quel che resta delle potenzialità di dissenso dentro le università, Tomaso Montanari intervistato da Giorgio de Girolamo ed Enrico Sorrentino.
Ma, appunto, tutto ciò si capisce meglio e si intensifica dal convergere di logica del mercato e guerra: ecco perché il contributo di Paola Rivetti prende le mosse dalla condizione di studenti e ricercatori palestinesi nel Leviatano dell’accademia israeliana per spiegare il rapporto più generale tra università e società. Ed ecco perché diventa decisiva l’analisi di Maya Wind (che dialoga con Martina Napolitano e Andrea Rizzi) sul ruolo strategico dell’università israeliana nell’occupazione della Palestina. Questo nesso è stato ben individuato dagli studenti e le studentesse che nei mesi scorsi si sono mobilitate contro il massacro a Gaza: Emily Zendri ha discusso con alcuni di loro. Gli accampamenti studenteschi, peraltro, erano comparsi già in precedenza di fronte all’acuirsi dell’emergenza abitativa: Fabio D’Alfonso racconta a questo proposito l’intreccio tra i movimenti per il diritto alla casa e quello per il diritto allo studio. Le agitazioni studentesche, dal Sessantotto all’Onda, sono del resto da sempre gli indicatori più sensibili delle crisi e dei conflitti a venire, come emerge dalla storia dei movimenti italiani tracciata da Giulio Calella. Una delle linee di conflitto da percorrere viene individuata in chiusura da Francesca Gabbriellini, Paola Imperatore e Martina Lo Cascio: la diffusione di forme di sapere non solo autonome dal mercato ma radicate nelle comunità in lotta, come nel caso della Gkn, delle battaglie dei braccianti agricoli o dei movimenti per la giustizia ambientale.
La sezione dedicata al numero dell’edizione statunitense di Jacobin che esce in contemporanea a noi, si occupa di un tema centrale per capire le prossime elezioni presidenziali di novembre: l’America rurale. E allora Bhaskar Sunkara intervista Thomas Frank per tracciare la geografia delle terre di mezzo e la storia del disprezzo delle élite urbane per i bifolchi dei campi. Ryan Zickgraf descrive le retoriche e la bibliografia essenziale sulla cosiddetta «minaccia redneck», mentre Tony Manning decostruisce il mito della musica country come colonna sonora reazionaria dell’America bianca. C’è stato anche un tempo, scrive Robin D. G. Kelley, in cui i comunisti organizzavano le lotte nella black belt. Questo rovesciamento del sogno rivoluzionario nell’incubo reazionario emerge anche dal bellissimo reportage di Megan Day dalla comunità di Utopia, Texas. E per orientarci, a questo punto, avremo bisogno di leggere la disamina di Daniel Finn sul rapporto tra marxismo e questione agraria.
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