A cosa serve la scuola?
La pandemia è un tragico svelamento dello stato della scuola: tagli e precariato l’hanno resa inefficiente, ma nel mezzo del lockdown le sue forze vive hanno sperimentato forme di didattica che pongono domande radicali
Le crisi svelano, fanno emergere ciò che era sotto traccia, radicalizzano tendenze, contraddizioni e conflitti. La diffusione del Covid-19 e la contestuale crisi economica non hanno certamente fatto eccezione, così come il loro impatto specifico sul mondo dell’istruzione. Mentre scrivo infuria il dibattito su come gestire «la coperta corta» in uno scenario che muta rapidamente. A noi interessa più della «coperta» che della sua gestione, non solo nella sua dimensione materiale, ma anche sul piano delle percezioni, dei racconti che in questi mesi hanno fatto intravedere i giudizi di fondo sul sistema scolastico e sul ruolo che gli viene assegnato. Sia chiaro, non pretendiamo di dare giudizi frettolosi e complessivi sull’insieme delle misure per il contenimento della pandemia. Puntiamo a leggere in controluce alcuni fatti per ragionare sulla scuola.
Il Covid-19 ha innanzitutto evidenziato la gerarchia valoriale che decenni di capitalismo liberista hanno imposto alle attività umane. Ciò che è stato considerato essenziale ha sovente seguito la curvatura dell’impatto diretto sul Prodotto interno lordo (Pil): a marzo è stato più semplice mandare a casa milioni di studenti e studentesse, anche in regioni a bassissimo indice di contagio, che non dichiarare la zona rossa nell’area industriale bergamasca e nel bresciano o, anche successivamente, fermare la produzione di armi. La scuola è stata immediatamente l’avanguardia del lockdown nazionale. Chiudere i cancelli degli istituti è stato percepito dal governo, dall’opposizione, ma anche da una fetta importante dell’opinione pubblica, come una misura a costo zero. L’istruzione è improduttiva: questo il tacito non detto. Solo con il passare del tempo le cose si sono complicate e la funzione riproduttiva della scuola è emersa con forza anche in una fase di parziale blocco economico.
La coperta è corta
La primavera e l’estate sono state caratterizzate dai numerosi «piani strategici» per riaprire la scuola. Alla fine le misure centrali che si sono imposte hanno riguardato la dotazione dei banchi monoposto, con o senza rotelle, per garantire un distanziamento minimo necessario che, giorno dopo giorno, scendeva di centimetro in centimetro. Due metri, un metro e mezzo, un metro. «Sì ma tra i banchi è troppo, facciamo dalle rime buccali».
Il 14 settembre la scuola è stata riaperta tra mille contraddizioni. La pandemia ha mostrato quanto fosse fragile la struttura scolastica, al pari di quella del Sistema sanitario nazionale o del trasporto pubblico. Decenni di liberismo hanno costantemente eroso risorse all’intero stato sociale. Il contenimento della spesa in nome dell’austerity e dell’efficienza ha creato una scuola, una sanità e un trasporto pubblico inefficienti. Si è data grande enfasi al miliardo e seicento milioni destinati al comparto istruzione dal cosiddetto «Decreto rilancio» (300 milioni alle scuole paritarie) per far fronte all’emergenza, ma in pochi hanno sottolineato che la scuola «dell’emergenza» ancora riceve meno fondi di quella ordinaria del 2007.
Dopo lo scoppio della crisi economica del 2007-2008 tutti i paesi hanno tagliato sull’istruzione. L’Italia è passata dal 4,6% del Pil del 2007 al 3,8 del 2017 (dati Eurostat). L’assenza di risorse ha significato in questi anni alzare il rapporto alunni/classi; avere locali inadeguati; tecnologie e connessioni inefficienti; non investire nella formazione, in entrata e permanente, dei docenti; moltiplicare i precari; avere istituti giganteschi frutto dell’accorpamento dimensionale: tutti ingredienti che hanno peggiorato l’impatto della pandemia. Il conflitto tra diritto alla salute e diritto allo studio ha una sua dimensione oggettiva nel contesto dato, ma ciò non deve impedirci di vedere il ruolo determinante di decenni di politiche liberiste nell’amplificarlo esponenzialmente. Il liberismo dell’efficienza e della flessibilità infatti ha prodotto una scuola rigida e inefficiente, incapace di rispondere alla crisi pandemica.
Difficile in pochi mesi cambiare tutto questo, trovare spazi e personale per decongestionare significativamente le classi. Era però anche complicato riuscire nell’impresa di non cambiare quasi niente. Il mondo scolastico avrebbe apprezzato anche un piano a tappe, con una progressione temporale realistica, capace di trasformare l’emergenza in progressivo rilancio della scuola.
Insopportabile, invece, è la sensazione quasi unanime nella comunità scolastica di aver combattuto da soli la battaglia per garantire diritto allo studio e alla salute. Gli appelli contrapposti, a difesa dell’uno o dell’altro, sono il risultato di scelte politiche che non sono riuscite neanche a prevedere un piano serio e scientifico di monitoraggio e screening di massa degli istituti. All’inizio il Ministero dell’istruzione, prima di correre ai ripari, non faceva neanche la conta dei positivi e delle classi in quarantena, dati in ogni caso non sufficienti, che venivano forniti da due dottorandi. Mentre scriviamo non sappiamo se la scuola sia, quanto sia, o non sia fattore di accelerazione della pandemia: ci sono studi contrastanti a livello internazionale basati soprattutto sulle correlazioni, mentre in Italia non è stata avviata nessuna ricerca ufficiale specifica.
Le linee guida del governo hanno sostanzialmente scaricato sui singoli istituti tutte le difficoltà. Le risorse aggiuntive sono servite per gel e mascherine, per «l’arredo scolastico», e per assunzioni annegate, in larga parte, nell’oceano delle farraginose nomine dei supplenti. Gli istituti, per rispettare il distanziamento, in alcuni casi hanno dovuto approvare piani alternando periodi di didattica in presenza e a distanza. Le connessioni e le attrezzature informatiche scadenti hanno spesso posto i docenti delle scuole superiori di fronte all’alternativa tra usare gratuitamente la propria strumentazione o continuare a perdere ore di didattica. Quasi sempre si è scartata l’ipotesi dei turni pomeridiani resi impossibili dalla penuria del personale Ata; in altri istituti si è deciso di rinunciare alla distanza minima rendendo obbligatorie le mascherine o semplicemente chiudendo un occhio, pochi i plessi fortunati con una cubatura capace di rendere credibili altre possibilità organizzative. In molte scuole medie è stata ridotta l’ora a «unità oraria» di 45, 50 o 55 minuti, utilizzando il recupero per avere un «pacchetto di supplenze» necessario a coprire il prevedibile incremento delle assenze per malattia e, soprattutto, per le quarantene.
La coperta è corta, appunto, perché un conto è distanziare una classe di trenta alunni, un conto una di quindici. La scuola riaperta a settembre aveva le armi spuntate per garantire il diritto allo studio e contemporaneamente proteggere la salute dei docenti e del personale scolastico, ma anche degli studenti, delle studentesse e delle loro famiglie. La scuola riaperta a settembre era la scuola di marzo, una scuola disastrata da decenni di liberismo, svelata nelle sue contraddizioni dallo stress test pandemico.
Docenti: un precario capro espiatorio
«Esame in forse»; «È caccia al commissario»; i docenti vogliono evitare «la rottura di dover tornare al lavoro dopo quattro mesi di semi vacanza». Sono solo alcuni degli attacchi virulenti della destra e del mondo confindustriale, avallati anche da esponenti del Partito democratico, subiti dagli insegnanti nei giorni precedenti gli esami di stato. La stessa retorica si è presentata a inizio anno scolastico. La tesi è chiara: la scuola pubblica non è efficiente perché gli insegnanti, dipendenti pubblici, sono privilegiati e fannulloni. Un modo per scaricare sui docenti la rabbia sociale per la chiusura delle scuole e la difficoltà nel riaprirle. Per coprire il disastro del liberismo innescando l’ennesima guerra tra poveri. Nella realtà non c’è stata nessuna ondata di certificati medici dei docenti, naturalmente, neanche in Lombardia dove la paura era stata più forte. Per gli esami di maturità c’è stata l’effettiva difficoltà di trovare i presidenti delle commissioni, determinata dalla formula che ha obbligato molti docenti a rinunciare alla funzione di presidente perché già impiegati nella funzione di commissario interno. Non solo: come ha dichiarato Augusta Celada, direttrice dell’Ufficio scolastico regionale lombardo, il problema principale è stato il «numero molto elevato di docenti a tempo determinato, docenti che non hanno i requisiti per fare il presidente».
Ecco un altro svelamento: la scuola è piena di precari nelle aule, ma anche nelle segreterie e nei corridoi. Quest’anno saranno in tutto 210 mila i docenti con contratto a termine, molti dei quali insegnano da anni nella scuola italiana. Un abuso di lunga data che nel 2014 ha visto anche la condanna della corte europea, che affermava la necessità di stabilizzare chi avesse lavorato a termine per oltre tre anni e su cui il concorso straordinario metterà solo una parziale toppa. Ancora a ottobre mancavano oltre 60 mila nomine. L’anno scolastico in molte città ha faticato ad avviarsi. La scuola ha difficoltà ad aprire perché il precariato è «inefficiente», oltre a essere ingiusto. Precariato significa anche un enorme impiego di lavoro pubblico per le nomine, per gli errori inevitabili che provocano ricorsi, revisioni, file, stress, sprechi e ulteriore inefficienza didattica, che si concretizza in ore di lezione perse e mancanza di continuità dell’insegnamento.
Di questi tempi, ogni capro espiatorio per esser tale deve anche svolgere un po’ il ruolo di untore. In questo il mondo scolastico si è ritrovato unito. Da una parte gli studenti, i «giovani», utilizzati come principali clienti del mercato del divertimentificio (che il governo ha tenuto aperto e raramente controllato), per poi essere additati, dal 16 agosto, quale principale fonte del contagio estivo. Dall’altra parte i docenti, accusati di essere restii a svolgere un test sierologico organizzato in pieno agosto, tra mille disguidi organizzativi, che la maggior parte dei docenti ha poi effettivamente svolto anche privatamente. Un test che non aveva di certo il valore di rendere meno probabile il contagio scolastico, ma che così è stato presentato. Del resto il contagio come pura colpa individuale è il contagio che non ha mai colpe politiche.
La Dad tra esclusione sociale e paradossi didattici
La didattica a distanza (Dad) ha svelato innanzitutto il peso delle differenze di classe nel percorso di formazione di uno studente. Le differenze economiche e sociali che nelle aule possono sfuggire a chi non vuol vedere, si sono evidenziate con forza quando la scuola si è trasferita a casa. La Dad è apparsa ingiusta e ineguale. I problemi di iperconnessione si sono accentuati, ma abbiamo riscoperto un digital divide che molti ormai consideravano marginale. La differenza di connessione e strumentazione informatica si è spesso sommata alle differenti quantità di metri quadri e di libri disponibili, ma anche alla possibilità dei genitori di seguire i propri figli. La Dad ha chiarito che se «non tutti i banchi sono uguali», le case lo sono ancora meno, in particolare per gli studenti e le studentesse più fragili, con bisogni educativi speciali o disabili. È venuto a galla ciò che spesso rimane sotto traccia: l’impotenza della scuola del liberismo nel rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale» che minano alla base il diritto allo studio. Piuttosto, come sottolinea ne La scuola di classe Roberto Contessi (Laterza, 2016), le disuguaglianze la scuola tende a «certificarle». Le eccezioni ci sono, ma i dati segnalano che in larga parte l’eccezione non è la regola. Il titolo di studio e la condizione di classe delle famiglie di provenienza sono fattori determinanti quando si analizza la dispersione scolastica e il raggiungimento «dei gradi più alti degli studi».
La Dad è stata socialmente ingiusta, ma didatticamente portatrice di paradossi. Fino al decreto legge numero 22 dell’8 aprile, la Dad non era obbligatoria né per i docenti né per gli studenti. Eppure si è provato a farla. Questa storia è stata raccontata poco e rivendicata ancora meno. Studenti e docenti hanno un destino comune all’interno della narrazione della destra che si è fatta in parte senso comune: l’accusa di essere fannulloni. Ma la Dad è nata su base volontaria, per un bisogno di scuola che ha superato decreti e norme contrattuali. E si sa, quando si va oltre il contratto ci si assume un rischio, perché i tentativi di rendere ordinario lo straordinario non mancano e non mancheranno. Il diritto alla disconnessione e alla privacy, così come il delicato tema di quando si può far ricorso alla Dad, sono già terreni di contesa. Ma c’è un eppure. Ovviamente quando si parla di milioni di persone e di scuole di ordine e grado differenti bisogna stare attenti a generalizzare. La Dad è stata molte cose. I diversi vissuti e l’eterogeneità del mondo scolastico, delle attitudini umane e didattiche si è riversata anche nel modo di affrontare l’emergenza.
Eppure un sentimento di attivismo, di spontanea voglia di non arrendersi alla chiusura dei cancelli, si è fatto largo rompendo la routine scolastica e dando vita a un embrionale rovesciamento. La scuola dell’utile, delle certificazioni, della professionalizzazione spinta e dell’alternanza scuola-lavoro, sembrava perdere di significato… e utilità. La pandemia, l’emergenza, l’isolamento e la tragedia generavano nuove domande in un contesto emotivo inedito. I programmi si piegavano ai bisogni urgenti di risposte e di significato che correvano in aule virtuali improvvisate. Le materie umanistiche sono miniere d’oro, certo, ma anche le discipline linguistiche e scientifiche sono uscite dall’orizzonte tecnico in cui spesso le si vorrebbe confinare, per tornare a essere strumenti di ricerca e di critica. Il bisogno di scuola, di una scuola diversa, si è fatto largo a tentoni e a macchie di leopardo. Poi pian piano la vecchia scuola è tornata a prevalere, facendo leva sulla pur comprensibile esigenza di regolamentare ciò che stava accadendo. La Dad è divenuta obbligo, le norme e le circolari, ma anche l’assenza di formazione pregressa, hanno spinto l’attività on-line verso l’impossibile simulazione della scuola in presenza. Interminabili lezioni frontali di dubbia efficacia, quintalate di compiti per i più piccoli e interrogazioni tradizionali poco credibili per i più grandi, hanno spesso, ma non ovunque, preso il sopravvento. Le contraddizioni didattiche e sociali che attraversano la scuola tendevano a vedersi meglio aumentando la distanza. Lo spirito cooperativo e lo slancio volontaristico dei primi giorni sono stati travolti dalle necessità ordinarie e dalla dispersione digitale, dalla stanchezza e dalle valutazioni.
La scuola tra ossessione della valutazione…
Una forte critica ha investito la ministra Lucia Azzolina per aver fatto comprendere in anticipo, con dietrofront finale d’ordinanza, che nelle condizioni date sarebbe stato impossibile bocciare. La critica è stata avanzata da una parte da chi riteneva che, anche in condizioni così straordinarie, non si dovesse rinunciare a farlo, dall’altra da chi pur riconoscendone l’impossibilità ha rimproverato il ministero perché «se lo dici chi studia più?».
Ancora uno svelamento. La valutazione dovrebbe essere uno strumento di un percorso di crescita didattica ed educativa, per verificarne progressi e difficoltà. Anche se nessuno dirà mai che si deve studiare per il voto, o per il giudizio che troppo spesso ne è un surrogato, la valutazione è diventata il centro gravitazionale dell’intero sforzo didattico, un rito sacralizzato, il bastone e la carota, senza il quale la scuola è sembrata afona. Il voto si è rivelato come principale strumento di legittimazione della scuola, del suo ruolo a salvaguardia della presunta meritocrazia, quando premia il «bravo» e quando condanna il «non bravo».
Molti studenti e le relative famiglie, si dirà, hanno interiorizzato questo meccanismo, studiano effettivamente per il voto, ma è stata mai prospettata una reale alternativa? Il voto è stato assimilato a tal punto da divenire un’identità, gli studenti «si sentono il voto» rimanendone imprigionati. Come ha affermato Daniel Pennac, il voto rappresenta la sintesi della paura, il sentimento su cui si fa implicitamente leva.
Una scuola a distanza è evidentemente un ossimoro, ma una scuola senza bocciature e con valutazione sdrammatizzata era paradossalmente un’occasione. Per fare cosa? Per provare a ridare centralità al contenuto, alla relazione educativa, sostituire le dinamiche competitive con alleanze cooperative nel bel mezzo di una crisi globale, mettere il voto in periferia, la curiosità e la motivazione al centro. Se isolati a casa nel mezzo di un evento epocale, di una crisi sanitaria, ambientale, economica che trasforma l’intero globo gli studenti studiassero solo per la valutazione, non sarebbe in fondo la certificazione di un fallimento? In molti casi non è stato così, ma di questo non si è discusso. La scuola deve certificare il merito prima di tutto, meglio se con una bella griglia nuova fiammante approvata di fretta dagli organi collegiali. Poco importa se in queste griglie ci fossero descrittori quali la «partecipazione» e la «costanza nella connessione», che ancora una volta certificavano non il merito ma la disuguaglianza.
…E riproduzione sociale
I paradossi della Dad e lo shock di una chiusura scolastica senza precedenti si sono rivelati un grande esperimento sociale. Al netto delle questioni sollevate dal movimento Priorità alla scuola e da singole organizzazioni o voci del mondo della cultura, lo scontro politico sulla valutazione è stato oscurato solamente da quello relativo alla necessità strettamente materiale della riapertura. La scuola chiusa per prima perché considerata marginale nello «sforzo produttivo del paese», si è rivelata in uno dei sui aspetti chiave quando si è sollevata la domanda: «a chi lasciare i bambini mentre si lavora?».
La scuola è emersa chiaramente nel suo ruolo di strumento fondamentale della riproduzione sociale, funzionale alla tenuta dell’apparato produttivo. Il bonus babysitter è stato un pannicello caldo di fronte a un bisogno materiale crescente, in virtù delle riaperture e della riduzione dello smartworking. Anche per questo, nei «lockdown soft» della seconda ondata, la scuola ha scalato la gerarchia delle attività essenziali. Con la sparizione di qualsiasi ipotesi di blocco della produzione che non fosse la ristorazione e parte del commercio, la tenuta della scuola è tornata a essere importante, anche a costo di correre rischi sanitari maggiori. In quei paesi dove le donne sono maggiormente occupate e i nonni svolgono meno la funzione di babysitter questa necessità ha avuto maggiore consenso e forza. In Italia meno, ma non sorprende.
Gli svelamenti di questi mesi hanno riproposto una domanda semplice e cruciale: A cosa serve realmente la scuola? Quale funzione ha dentro la crisi del capitalismo neoliberista? E soprattutto, a cosa dovrebbe servire?
*Danilo Corradi, dottore di ricerca in storia, insegnante di filosofia e storia e docente a contratto presso l’università di Tor Vergata, è coautore tra l’altro di Capitalismo tossico (Alegre).
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