A lezione di ruspa
Matteo Salvini si è presentato prima davanti a un’innocente scolaresca e poi ad accogliere inconsapevoli rifugiati. Tutto per farci credere che lui «non è razzista ma…». Le ruspe al Baobab raccontano una storia molto diversa
Matteo Salvini ha fatto della comunicazione politica una scienza esatta. Una delle regole è presentarsi un giorno come It e l’altro come Winnie the Pooh. Ad esempio, il vicepremier leghista nei giorni scorsi è stato ospite in una trasmissione televisiva, intervistato da una classe di bambini. Una delle bambine della classe ha posto al ministro dell’interno la domanda che tutti evidentemente stavano aspettando, quella della redenzione e della rigenerazione di un personaggio che ormai è la caricatura di se stesso. «Dicono che tu sei razzista, è vero?», ha chiesto la bimba. Con sommo rammarico di tutti i bookmakers, Salvini si è rivolto all’ingenua creatura e ha detto «No». Lui non è razzista. Del resto nella foto di fine trasmissione è ritratto accanto a un felice gruppo classe. Proprio alla sua destra compare una bambina nera. Il tutto è perfettamente coerente con la didascalica propaganda cui quotidianamente siamo sottoposti.
A confermare il dato, in effetti, ci sono i cinquantuno migranti del Niger accolti nei giorni scorsi in pompa magna in prima persona dal Ministro Salvini. Si tratta di persone giunte in Italia in aereo e non con i barconi. Uomini, donne e bambini che hanno potuto godere del privilegio dei corridoi umanitari. Per questo, dopo l’orrore dei lager libici, devono subire anche la strumentalizzazione politica della propaganda. «Questi bambini diventeranno italiani», ha dichiarato Salvini sorridente, a favore di telecamere. Loro non sono invasori. Vanno accolti perché fuggono dalla guerra, e per questo sono «nostri fratelli, nostri figli». Ebbene sì, «diventeranno italiani» nonostante il colore della pelle.
Pochi giorni prima che Salvini ci facesse sapere di sprizzare umanità da tutti gli artigli, era il 13 novembre scorso, a Roma c’era stato l’ennesimo sgombero dell’accampamento di accoglienza dei volontari di Baobab Experience. L’associazione si è costituita a inizio 2016 dai volontari che dall’anno precedente offrono accoglienza ai migranti transitanti che arrivano a Roma. Fino a quella mattina, i volontari di Baobab gestivano un presidio di accoglienza a Piazzale Maslax, dietro la stazione Tiburtina.
Erano le 7.30 del mattino. Insieme alle ruspe salviniane, sono arrivati i pullman della Polizia di Stato. Hanno caricato 139 persone e le hanno condotte in questura, negli uffici di via Patini, perché fossero identificate. Alcuni sono stati accolti dai centri di accoglienza del Comune di Roma. Gli altri 82, in serata, sono tornati sul posto ma nel piazzale della stazione Tiburtina il Baobab non c’era più. La loro casa temporanea di fortuna era sparita, c’era soltanto uno spazio vuoto e inospitale, come la città in cui sono capitati: hanno dormito per strada, sui marciapiedi, al freddo. Da soli.
Non è stata una sorpresa. Che qualcosa stesse per accadere era chiaro da qualche settimana, quando Ferrovie dello Stato aveva cominciato a recintare il parcheggio. Ma sarebbe bastato aspettare. Nessuno riteneva che quella potesse essere una soluzione definitiva: quando è divenuto chiaro che la situazione stava per precipitare le associazioni attive a offrire supporto legale al campo avevano chiesto alla sindaca di Roma Virginia Raggi, all’assessorato ai servizi sociali e a questura e prefettura di ricollocare le persone ospitate. Erano riuscite a strappare all’assessora Baldassarre l’impegno di offrire supporto e assistenza ad almeno 120 di queste. Fino al giorno dello sgombero, tuttavia, solo 65 degli ospiti aveva trovato una sistemazione. Le ruspe entrano in scena dopo essere state evocate a lungo nel dibattito politico e mediatico. Vederle in azione, però, è la più plastica rappresentazione dello stato di salute della nostra società. I commenti festanti, le incitazioni a fare ancora e di più, sono in secondo piano. Innanzitutto ci sono le immagini fortissime, come quelle che si sono riproposte ogni manciata di mesi da tre anni a questa parte, di beni accatastati e gettati nell’immondizia. L’arroganza di chi prende qualcosa che può migliorare, anche di poco, la vita di qualcun altro, senza che gli sia necessario, senza che gli sia utile, solo per gettarlo via. Per mostrare chi è più forte
Un modello che funziona e per questo non piace
Negli ultimi tre anni i migranti transitanti di Baobab Experience hanno subito ventidue sgomberi. Ne offre una ricostruzione fedele Annalisa Camilli su Internazionale. Per ventidue volte la forza pubblica è intervenuta e ha annullato l’esistenza di un presidio reo di sostituirsi a istituzioni inefficaci e inefficienti, di farsi carico a titolo volontario dell’accoglienza e della cura dei migranti, trattandoli come delle persone, portandogli pasti caldi, offrendogli un materasso, una coperta, la possibilità di parlare ed essere ascoltati.
È un modello di accoglienza che non convince: non fa business, visto che si basa sul lavoro di volontari (studenti, medici e tanti altri) non spersonalizza, non abbandona, non numera e non vuole niente in cambio. È un modello che non giustifica l’odio, la violenza. Ma, soprattutto, è un modello che funziona. Negli ultimi tre anni ha accolto 80mila persone. È sconcertante come non ci sia mai stato e non ci sarà alcun progetto alla base degli sgomberi degli accampamenti di Baobab. Non c’è un’alternativa concreta: c’è una dimostrazione di forza tutta muscolare, ignavia istituzionale e tutta l’arroganza possibile di chi detiene il potere e decide di esercitarlo su chi non ha sufficienti strumenti per reggere l’attacco.
Guerra ai migranti
Quella messa in campo da Baobab è una modalità di accoglienza che mette l’umanità al primo posto, portata avanti da cittadini, a titolo completamente volontario. La sindaca di Roma Virginia Raggi in questi anni si è comportata verso la vicenda del Baobab (e più in generale, riguardo al tema dei migranti) semplicemente come se non esistesse. Gli sgomberi si susseguivano, i migranti restavano per strada con il sole e il gelo, con la neve e la pioggia, e Raggi, semplicemente, taceva. Come se non fosse affar suo. Come se non fosse sua la responsabilità istituzionale delle condizioni di vita di chi in questo posto cerca rifugio.
Se un tardivo lavoro di interlocuzione istituzionale è stato messo in campo, in particolare per la vicenda Baobab, questo ha riguardato esclusivamente degli assessorati specifici. Mai una parola è stata spesa da parte della prima cittadina, mai una presa di posizione politica. Ma declinare la responsabilità, non prendere una posizione, vuol dire prendere una definita posizione, e l’amministrazione capitolina da questo punto di vista ha una linea chiara che si palesa nella sua storia recente. La violenza dello scorso agosto, lo sgombero di Piazza Indipendenza, dove si erano collocati i rifugiati e richiedenti asilo eritrei sgomberati dall’ex sede di Federconsorzi in via Curtatone, le immagini dei migranti inseguiti fino a Termini, degli idranti puntati su persone che dormivano e sulle loro cose raccolte in strada, dei bambini che urlavano dalle finestre e delle donne e degli uomini picchiati, ne sono una tappa fondamentale. Prima e dopo c’è stata una lunga scia di sgomberi grandi e piccoli, violenti e/o passati sotto silenzio, di esperienze culturali o sociali, politiche o semplicemente abitative: nessuno di questi dipendente direttamente dalla prima cittadina, ma tutti accomunati dalla sua scelta di tacere in merito.
Guardata da una prospettiva più ampia, la storia recente di Roma sembra essere quella di una feroce guerra ai poveri: le persone vengono ghettizzate, costrette a vivere in contesti disumanizzanti, che annichiliscono la dignità. Vengono sgomberate senza che siano offerte soluzioni alternative, cercano e trovano altri spazi, si sistemano e provano a ricostruire le proprie vite, ma nuovi sgomberi arrivano e sono costrette a rimettere in discussione quanto avevano costruito. Nessuno si chiede dove vadano a finire le persone che abbandonano loro malgrado gli edifici occupati: svaniscono nel vuoto fino a che non arriva lo sgombero successivo, dello stesso edificio o di un altro, di una strada o di una piazza. È un loop di cui nessuno si preoccupa di trovare la via d’uscita.
Quando il nemico sono i poveri e non la povertà
La scelta del silenzio di Raggi è comprensibile: è imbarazzante per chi amministra una città non essere in grado di trovare una soluzione che consenta di garantire una vita dignitosa a tutti gli uomini e a tutte le donne che ne hanno diritto. Il ministro dell’Interno, dal canto suo, ci tiene a convincerci del fatto che il suo problema non sono i neri, ma lo sforzo non era necessario. Il dato era già sufficientemente chiaro. Non sono un problema Kessie o Bakayoko, star o aspiranti tali del Milan; non è un problema Ahlam El Brinis, bellissima modella nata a Padova da genitori marocchini, che frequenta le discoteche di Milano Marittima. Il problema sono i neri quando sono poveri. Quando sono venuti con i barconi perché non hanno avuto l’opportunità di godere, a causa del proprio contesto di provenienza, di tutta la tutela di cui avevano diritto. Sono i neri (o i gialli, i rossi, i marroncini che dir si voglia) che il Baobab si prende in carico e che decide di aiutare ogni giorno. Sono tutti i protagonisti dell’avversativa posta dopo il “Ma” di tutti i “Non sono razzista». Per questo Baobab, che ha deliberatamente scelto di fare dell’accoglienza agli ultimissimi il centro della propria attività volontaria, non va bene, non può essere regolarizzato, agevolato, sostenuto, o semplicemente lasciato lavorare. E’ una anomalia che va cancellata, sgomberata ripetutamente, ogni volta che rinasce.
Lo stato di salute della nostra società
Come dice il Bogdanov di Proletkult l’ultimo romanzo dei Wu Ming, è possibile misurare lo stato di salute di una catena a partire dal suo anello più debole: il peso che quest’ultimo riuscirà a reggere sarà quello che la catena potrà sostenere. Andare oltre, anche di poco, vorrebbe dire spezzarlo e, con esso, rompere tutta la catena. Così accade anche nelle società: possiamo misurarne lo stato di benessere (o di malessere, che in questo caso è più appropriato) guardando a quello che riescono a sopportare, ogni giorno, i più deboli.
La storia recente, di cui le vicende romane sono solo l’emblema, è la storia dello stato di salute della nostra società. È una storia di forti resistenze ma di enormi sofferenze, di umanità disgregata e di solitudini indotte. In queste vicende, esperienze come Baobab sono disfunzionali perché rompono i meccanismi di isolamento: i più deboli non vengono lasciati soli al centro delle forze che mirano a spezzare la catena; trovano sostegno e supporto. Per questa ragione, nella guerra ai poveri, ai marginali, agli ultimi, il primo obiettivo diventa smobilitare quegli avamposti. Se spariscono gli avamposti e la catena si spezza, a farne le spese non è soltanto il suo anello più debole. Non lasciare che si rompa è una responsabilità molto più grande della tutela di un singolo pezzo fallato, come di quella delle singole vite di tante e tanti sfortunati: si tratta di tenere insieme legami, mirando a mantenere umane le società.
*Rita Cantalino, si occupa di ambiente e tematiche sociali. Ha partecipato ai movimenti attivi in Terra dei Fuochi e nella Rete Stop Biocidio. Dal 2016 gestisce la comunicazione di A Sud Onlus (www.asud.net) e del Centro di Documentazione Conflitti Ambientali (www.cdca.it).
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