
A scuola di lotta di classe
La vicenda Gkn mostra che solo trasformando la maggioranza sociale in maggioranza politica si può scegliere cosa vogliamo produrre, come farlo e in che modo distribuirlo
Tra le (poche) cose buone da salvare del 2021 italiano c’è senza dubbio la lotta dei 500 lavoratori e lavoratrici della Gkn Driveline di Campi Bisenzio. Dopo una vertenza durata 6 mesi, e attualmente ancora in corso, il gruppo multinazionale Gkn attivo nella componentistica auto, a sua volta controllato dal fondo di investimento Melrose, ha dovuto ritirare la procedura di licenziamento aperta il 9 luglio scorso, nonché la messa in liquidazione dello stabilimento di Campi Bisenzio. Gli operai sono riusciti a scongiurare cessazione di attività e conseguenti licenziamenti, obbligando con una lotta durissima le istituzioni e il Partito democratico locale a trovare un nuovo compratore che acquistasse la fabbrica in continuità occupazionale. Il 23 dicembre, in pieno clima natalizio, l’imprenditore Francesco Borgomeo (molto vicino agli ambienti filo-renziani del Pd) ha infatti rilevato in blocco le quote societarie, offrendosi di traghettare l’azienda verso altri possibili nuovi compratori.
L’accordo discusso e votato a larga maggioranza dai lavoratori, sancisce il mantenimento dei posti di lavoro e la continuità di condizioni, accordi interni e diritti pregressi, un alto livello di agibilità sindacale e la garanzia che, se entro agosto i nuovi compratori non dovessero palesarsi, l’attuale proprietà ponte debba procedere alla reindustrializzazione anche con l’ingresso di capitale pubblico. Al fine di vigilare sull’accordo è stata ottenuta dai lavoratori una commissione di proposta e di verifica sul processo di ristrutturazione industriale. La mobilitazione dunque resta attiva, perché ciò che è sancito sulla carta diventi realtà, ma è indubbio che al momento siamo di fronte a una parziale vittoria della lotta. Se infatti Gkn abbandona Firenze e, con essa, se ne va dal nostro territorio un altro pezzo dell’industria automobilistica, d’altronde i posti di lavoro sono per ora intatti. Di fronte alla polverizzazione di intere comunità operaie cui gli ultimi casi di delocalizzazione ci avevano abituati (basti citare, solo nel territorio toscano, il caso della Bekaert di Figline Valdarno), e in generale al clima di restaurazione che il Governo Draghi ha portato nel paese, quello di Gkn è un importante segnale di controtendenza.
«Divisi siamo niente, uniti siamo tutto»
Non era facile ottenere un risultato del genere nell’Italia di oggi. Per questo bisogna capire quali sono stati gli ingredienti di questa vittoria.
In primo luogo l’estrema unità dei lavoratori intorno all’obiettivo del ritiro dei licenziamenti, richiesta sostenuta non solo a parole, ma tenendo lo stabilimento per 7 mesi in assemblea permanente e immobilizzando così milioni di euro di macchinari e commesse inevase. Non era scontato che l’obiettivo del ritiro dei licenziamenti restasse quello principale: la minaccia della disoccupazione immediata – favorita da riforme come il Jobs Act che, in nome della «flessibilità in uscita», hanno accorciato i tempi della procedura di licenziamento e provato a limitare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali – e la sensazione di impotenza di fronte a una dirigenza aziendale lontana e impersonale, fa sì che nella maggior parte dei casi vertenze del genere diano per scontata l’ineluttabilità della chiusura e finiscano con accordi volti a mitigarne l’impatto, magari con l’intervento dello stato tramite la Cassa integrazione per cessazione di attività e con vaghe promesse di re-industrializzazione. Succede spesso che anche nei primi momenti delle vertenze, sindacati e lavoratori si mostrino fin troppo disponibili a soluzioni di questo tipo, addirittura proponendole essi stessi al tavolo di trattativa. L’obiettivo purtroppo diventa spesso quello della mera mitigazione del danno.
Cosa che, invece, non è accaduta alla Gkn: col rifiuto dei licenziamenti, opponendo a essi la sottrazione materiale della fabbrica al padrone, i lavoratori Gkn hanno giocato un all in in una partita di poker: o vinci tutto e allora i licenziamenti vengono ritirati, o perdi tutto e ti ritrovi da un giorno all’altro in disoccupazione e col rischio di pesanti strascichi giudiziari. L’affiatamento per gestire una pressione del genere per così tanti mesi richiede un forte lavoro organizzativo, che in Gkn dura da più di un quindicennio ed eredita il modello di organizzazione sindacale del vecchio stabilimento Fiat di Firenze, fondato su un alto numero di delegati di raccordo e su un’ampia discussione e socializzazione della linea sindacale e politica interna.
Di fronte a narrazioni che, anche quando si tratta di leggere le ragioni di rovesciamenti di regimi politici decennali – pensiamo alle «primavere arabe» o a quanto avviene oggi in Cile e in altri paesi dell’America Latina –, tendono a gonfiare l’elemento della «spontaneità» e, al contrario, a far sparire del tutto quello della «organizzazione», ci pare fondamentale sottolineare quest’ultimo aspetto. Perché è solo grazie al lavoro quotidiano e costante che si arrivano a forgiare relazioni, capacità, strumenti che saranno poi utili nei momenti più alti dello scontro. Altrimenti ci si priva a priori non solo di uno strumento di comprensione delle lotte, ma anche e soprattutto di un’arma necessaria nelle battaglie presenti e future.
Diventare maggioranza sociale
In secondo luogo ha giocato un ruolo fondamentale la volontà dei lavoratori Gkn di non restare chiusi dentro i confini del loro stabilimento, ma di allargarsi al territorio e di produrre una forte pressione verso le istituzioni. In assenza di una importante mobilitazione negli altri siti della multinazionale, infatti, la vertenza si è trasformata immediatamente in una vertenza politica, volta a chiedere un intervento diretto del Governo. Tale richiesta è stata rafforzata dal fatto che fino al 30 giugno era stato attivo il blocco dei licenziamenti, il che ha reso evidente come il Governo, se avesse voluto, avrebbe potuto bloccare d’urgenza la procedura di licenziamento collettivo aperta da Gkn/Melrose.
La memoria del recente epilogo della lotta dei lavoratori Bekaert di Figline Valdarno, terminata con la chiusura dello stabilimento e con il fallimento delle promesse di reindustrializzazione, ha inoltre rafforzato tra gli operai una sana diffidenza nei confronti delle «passerelle» politiche. A fronte delle dichiarazioni di solidarietà dei rappresentanti istituzionali e dei principali partiti, gli operai hanno preteso delle azioni precise. Tale pressione si è esercitata sia attraverso un uso sapiente dello strumento comunicativo – dimostrando come questo sia un elemento centrale nell’attuale fase storica – sia attraverso la mobilitazione effettiva del territorio circostante, costruita grazie al supporto materiale e politico delle organizzazioni politiche e sociali esistenti. Già a partire dallo sciopero generale provinciale del 19 luglio, questa rete di solidali – composta principalmente da lavoratori, lavoratrici, studenti, studentesse e militanti della sinistra radicale della provincia di Firenze – inondando la provincia con decine di migliaia di volantini, manifesti, striscioni, speakeraggi, e attraverso il coinvolgimento di settori sempre più vasti dell’associazionismo locale, ha consentito di mantenere alta la tensione durante tutta l’estate, mettendo in campo tre grandi manifestazioni il 24 luglio, il 10 agosto e soprattutto il 18 settembre, quando 40mila persone hanno sfilato nella città dietro lo slogan dei partigiani fiorentini: «Insorgiamo».
Uno slogan apparso non per caso. Qui più che il legame col passato resistenziale, ci interessa sottolineare come gli operai si siano coscientemente rifiutati di utilizzare gli slogan solitamente scanditi nel corso di vertenze simili: gli operai Gkn avrebbero potuto prendere a prestito un più tipico «Gkn non si tocca», tanto per citare un esempio. Invece, scegliendo «Insorgiamo!» hanno dato un’indicazione comunicativa di non poco conto: le battaglie si vincono andando al contrattacco, cercando alleanze con altri settori di classe e popolari, e non limitandosi a isolarsi in fase difensiva.
Lotta contro le delocalizzazioni e politica industriale pubblica
Cosa chiedevano i lavoratori? Fin dal primo giorno di lotta gli operai Gkn hanno ripetuto che la loro vicenda non era «un caso isolato», bensì «l’ultima di una lunga serie di delocalizzazioni e probabilmente la prima di una nuova serie di chiusure». Se il fenomeno dell’impoverimento produttivo non è un fatto recente – solo tra il 2015 e il 2017 circa 700 imprese medio-grandi hanno «delocalizzato» all’estero per sfruttare i più bassi salari – c’è oggi la consapevolezza che tutto il settore dell’automotive italiano è a rischio chiusura, a causa principalmente della fuga di Fiat/Fca/Stellantis dall’Italia. Gli ultimi segnali provenienti dall’azienda di proprietà della famiglia Agnelli sono eloquenti: la fusione con la francese Psa – ma dovremmo dire piuttosto l’acquisizione da parte della francese Psa – prevede un tacito accordo perché la subfornitura della componentistica venga nei fatti indirizzata dalla francese Faurencia, il che porta all’accelerazione della dismissione dell’indotto italiano, la cui vita è legata alla presenza di un’industria automobilistica di prossimità.
Allo stesso tempo il progettato passaggio da diesel e benzina all’elettrico sta venendo utilizzato dalle grandi multinazionali dell’auto per orientarsi al mercato di lusso e spostare la produzione verso paesi «low cost». Ciò sta facendo da miccia a licenziamenti e chiusure – ultimi in ordine di tempo i casi alla Bosch di Bari e alla Hi-Tex di Chiavari (Genova) – che vengono minacciati o portati a termine senza che il Governo opponga la men che minima resistenza. E, soprattutto, senza che dallo stato venga proposto un serio progetto di transizione che affronti anche il tema della trasformazione di impianti, dello stop di alcune produzioni e del passaggio ad altro tipo di processi.
Gli operai Gkn non si sono perciò limitati a richiedere il blocco del loro licenziamento, ma anche a pretendere il varo di una legge – da essi stessi scritta con l’aiuto di un gruppo di giuristi e giuriste del lavoro – che impedisca il processo in corso di impoverimento occupazionale e produttivo del paese, dando al contempo la possibilità allo stato e alle rappresentanze dei lavoratori di subentrare nella gestione delle imprese in chiusura. Sostenuti da ingegneri e accademici solidali gli operai hanno inoltre scritto un piano per l’inserimento dello stabilimento di Campi all’interno di un Polo pubblico della mobilità sostenibile, volto a riconvertire l’automotive italiano tramite un intervento diretto della mano pubblica. Dimostrando così che l’impoverimento produttivo non è ineluttabile, ma che esiste la fattibilità di una transizione ecologica reale, incentrata sullo produzione diretta e sullo sviluppo del trasporto pubblico, guidata dallo stato e controllata da lavoratori e lavoratrici.
Così facendo hanno vestito oggettivamente i panni di classe dirigente. Partiti da un bisogno particolare, si sono premurati di allargare lo sguardo fino ad abbracciare alcuni dei nodi strutturali che il nostro paese si trova davanti: il futuro del settore dell’automotive tutto, la necessità di delineare una nuova politica industriale, i compiti dello stato e, infine, il ruolo del «politico».
Da maggioranza sociale a maggioranza politica
La capacità dei lavoratori Gkn di legarsi ad altri settori sociali – a partire dagli studenti delle superiori e dagli universitari – e al contempo di mobilitare un intero territorio su rivendicazioni precise, ha portato a un risultato parziale. C’è però il rischio che si tratti di un risultato effimero se calato nel contesto di un paese che va in direzione opposta: dopo Gkn si parla di chiusura per la Caterpillar di Jesi, la Bosch di Bari, l’Ortofrutticola del Mugello, solo per fare qualche esempio. E se a livello locale la politica è riuscita a mettere una toppa su Gkn, d’altronde i partiti di maggioranza e di finta opposizione hanno respinto l’emendamento «Mantero-Gkn», presentato dal Senatore di Potere al popolo in Legge di Bilancio e volto a far passare le norme antidelocalizzazioni scritte dagli operai Gkn. Per un attimo è stato evidente come tutti, dal Pd al M5s alla Lega, passando per Leu, Forza Italia, Italia Viva e Fratelli d’Italia, non rappresentino la maggioranza sociale che si è presentata intorno alla vertenza Gkn, ma siano supini alle richieste di Confindustria. Da tempo infatti le associazioni padronali chiedono maggiore «flessibilità in uscita», cioè la possibilità di attuare rapidamente e a costi certi i licenziamenti collettivi. Una legge contro le delocalizzazioni che non solo salvaguardi il tessuto occupazionale e produttivo, ma attraverso il workers buyout e la previsione dell’intervento pubblico, consenta una parziale socializzazione dei mezzi di produzione e lo sviluppo di una politica industriale pubblica, è evidentemente in contrasto con l’agenda di Confindustria & Co.
Quando si parla di delocalizzazioni in realtà si sta parlando di chi detiene il potere nei paesi a capitalismo avanzato, se un pugno di grandi imprenditori e speculatori finanziari, o la grande massa della popolazione. Di chi cioè ha la possibilità di decidere, cosa, in quanto comunità, vogliamo produrre, del come intendiamo produrlo e distribuirlo e a quale scopo. Proprio la vicenda Gkn mostra dunque come in definitiva solo trasformando la maggioranza sociale in maggioranza politica si possono sciogliere questi nodi. Sulla legge anti-delocalizzazioni – così come su altri temi come quello del salario minimo – è possibile e necessario costruire una forza socialista di tipo «nuovo», che sia in grado di organizzare e mobilitare le persone sui territori, di coinvolgerle in campagne di massa, di comunicare con un linguaggio semplice e accessibile. Ma che al contempo sia in grado di contendere il consenso al centrosinistra e alla destra sul piano della rappresentanza, che si doti cioè di proprie ramificazioni istituzionali che fungano da cassa di risonanza e che possano mettere in crisi le strutture dell’avversario di classe.
E di vincere. È questa la sfida che gli operai Gkn ci pongono davanti, a partire dalla manifestazione che si terrà il 26 marzo. Sta a noi tutti e tutte affrontarla.
*Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo.
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