Aborto, l’ipocrisia dei Democratici
Le reazioni dell'amministrazione Biden alla sentenza della Corte suprema contro i diritti delle donne sono tardive e poco efficaci
«Nessuno parla dei milioni di decisioni da prendere prima di far nascere un bambino in questo mondo così duro, compresa la vita stessa della madre, e nemmeno dei livelli estremamente alti di mortalità infantile e materna che si verificano in questo paese, specialmente tra le donne nere e di colore. Gli uomini prevalentemente bianchi che vogliono portarci via questo diritto basilare sono gli stessi che non vogliono darci un sistema sanitario accessibile, ci tolgono il credito di imposta sui figli e non consentono l’accesso alla sanità prenatale per quei bambini che dicono di voler far nascere. […] Dobbiamo smettere di chiamarli pro-vita, perché sono solo pro-nascita. Una volta nati, a loro non importa nulla di quei bambini». Ho registrato questo intervento di Letitia Daniels Jackson, direttrice di Women Engaged, e molti altri interventi il 25 maggio scorso davanti alla Corte suprema a Washington durante una manifestazione per i diritti di voto e la giustizia riproduttiva organizzata dal movimento nazionale Black Women Leaders and Allies che vedeva la presenza di rappresentanti di organizzazioni femminili di colore di molti stati.
Già scottate il gennaio scorso – per colpa dei voti contrari dei senatori Democratici Joe Manchin e Kyrsten Sinema e l’inerzia di Joe Biden sull’abolizione del filibuster – dall’ennesimo respingimento delle due leggi sui diritti di voto che avrebbero ripristinato quelli abrogati dalla Corte suprema del 2013, ora combattono anche e soprattutto per la Roe v Wade. A dispetto delle ipocrite e sorprese indignazioni rilasciate dai big dell’establishment Democratico sia dopo il leak del documento del justice conservatore Samuel Alito pubblicato da Politico il 2 maggio, sia dopo l’annuncio del sovvertimento della Roe il 24 giugno, da anni quelle donne non avevano illusioni.
«Quando il leak è stato rilasciato – ha detto Deon Haywood, leader di Women with a Vision, Louisiana – non sono rimasta scioccata, come non lo sono state le donne che lottano da sempre per questa causa. […] Chi viene incarcerato in questo paese? Noi [le persone non bianche]. La Louisiana ha il tasso più alto di incarcerazione della sua popolazione, più alto della Cina e della Russia. Eppure si suppone che viviamo nel paese più libero del mondo. Questo è solo un altro modo per incarcerarci, un altro modo per toglierci di mezzo. Ma noi non ce ne andremo da nessuna parte. Saremo qui, combatteremo e lo faremo insieme».
Il caso ha voluto che il giorno stabilito per la manifestazione di Washington fosse quello successivo al massacro di 19 bambini e due insegnanti in Texas. La coincidenza che vedeva legati due temi così contraddittori come la presunta difesa della vita e l’assoluta libertà di negarla per via di indiscriminate leggi sulle armi – peraltro ulteriormente allargate dalla Corte Suprema proprio il giorno prima della Roe vs Wade – ha portato a interventi probabilmente ancor più emotivi del previsto sia nel dolore, sia nella rabbia, sia nella determinazione della lotta contro un potere che si accanisce sempre più contro gli ultimi anelli della catena, in questo caso le donne povere soprattutto di colore. Particolarmente toccanti le parole di un’attivista diciassettenne, figlia della leader della Mississippi Black Women Round Table Cassandra Wilkins, che a un certo punto del suo discorso, con la voce rotta dalla commozione, ha ricordato l’uccisione del suo cuginetto in una delle tante sparatorie statunitensi. Il susseguirsi di interventi tanto coinvolgenti ha reso inevitabile per me tornare col pensiero alla sera del 7 ottobre 2018 in una piazza del centro di Chicago, dove donne «sopravvissute» a violenze e stupri avevano organizzato una riunione dopo la conferma di Brett Kavanaugh a giudice della Corte Suprema.
Le analogie tra i justice Brett Kavanaugh e Clarence Thomas
Secondo delle tre nomine di Donald Trump, che aveva espressamente dichiarato che nel suo mandato avrebbe scelto justice contrari alla Roe vs Wade, Brett Kavanaugh aveva subito contestazioni fin dalla sua nomina, ma fu con la denuncia della dottoressa Christine Blasey Ford per molestie sessuali subite ai tempi dell’università – seguita da quella di altre donne – che le manifestazioni esplosero a livello nazionale. Nell’udienza del 27 settembre 2018 una commissione di soli senatori uomini Repubblicani umiliò Ford, lasciando poi che un Kavanaugh inferocito esprimesse incontestato le sue negazioni e, senza nemmeno la richiesta di ulteriori indagini, il caso si chiuse. Le altre donne ovviamente non osarono procedere come raccontò Vox in un articolo sottotitolato «Se volete sapere perché le donne non si fanno avanti con denunce di assalti sessuali, l’udienza in Senato di oggi ne ha fornito una prova».
Il caso Ford-Kavanaugh fu sostanzialmente una replica di quello Hill-Thomas del 1991, quando l’avvocatessa Anita Hill denunciò per molestie sessuali il suo precedente capo alla Commissione per le Pari Opportunità, Clarence Thomas, oggi il più anziano dei sei giudici conservatori che hanno ribaltato la Roe v Wade – nominato da Bush padre, ha già ventilato l’idea di procedere anche con il riesame di altre sentenze garanti di diritti civili, come ad esempio il matrimonio tra omosessuali. Anche Anita Hill come Christine Blasey Ford si fece avanti, dopo infinite titubanze giustificate dalla consapevolezza del calvario che avrebbe affrontato, spinta dal senso del dovere e della giustizia. Anche lei fu giudicata da una commissione tutta maschile presieduta dall’allora senatore Joe Biden, che non le facilitò le cose, lasciando cadere importanti punti su cui avrebbe dovuto invece andare a fondo. Anita Hill, la cui storia è fedelmente raccontata nel film del 2015 Confirmation, sta da anni aspettando le scuse personali di Biden, non ritenendo sufficienti le dichiarazioni da lui rilasciate di non essersi comportato come avrebbe dovuto.
Assolti da ogni imputazione tanto Thomas quanto Kavanaugh poterono così procedere alle rispettive udienze per la conferma a justice. Se però nel 1991 Biden votò contro Thomas, così non fece il senatore Democrayico Joe Manchin nel 2018 con Kavanaugh, dandogli uno dei due voti decisivi. L’altro fu quello della Repubblicana Susan Collins, che all’udienza disse di essere stata personalmente rassicurata da Kavanaugh sul fatto che Roe v Wade fosse una «settled law». Dal canto suo Kavanaugh rispose alle pressanti domande dicendo sostanzialmente che tanto la Roe v Wade quanto la successiva Planned Parenthood v Casey del 1992, che la rafforzava, sono precedenti troppo consolidati per non tenerne conto. Più o meno analoghe furono le risposte alle rispettive udienze degli altri due justice trumpiani, Neil Gorsuch (2017) e Amy Coney Barrett (2020), entrambi confermati grazie a leggi ad personam imposte al Senato dal dominus Mitch McConnell. Nel 2015, dopo la morte di Antonin Scalia, McConnell bloccò Obama sebbene mancassero ancora undici mesi al termine della sua presidenza, ribaltando poi quella stessa regola nel 2020 quando, dopo la morte di Ruth Bader Ginsburg, ne autorizzò la sostituzione a una sola settimana dalle elezioni presidenziali.
L’ipocrisia dell’establishment Democratico
Le dichiarazioni dei nuovi justice rese durante le udienze potrebbero oggi essere impugnate con l’accusa di falsa testimonianza sotto giuramento per eventuali impeachment. Potrebbe essere una delle mosse per dare scacco alla Corte – tra cui il cosiddetto Packing the Court per aumentare i giudici, che Biden però ha sempre rifiutato, così come ha sempre rifiutato di farsi carico delle imposizioni che avrebbe potuto esercitare sui senatori Manchin e Sinema.
Quel che invece ha fatto Biden dopo la sentenza è stato consegnare alla nazione e al mondo intero un risentito discorso diffuso da tutte le reti mainstream immemori, come lui sia delle contraddizioni delle sue posizioni sull’aborto, sia degli otto anni di inazione nella vicepresidenza di Barack Obama, il quale, ancor più ipocritamente smemorato di Biden, ha commentato a caldo twittando: «Oggi la Corte suprema ha ribaltato i precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che si possa prendere ai capricci di politici e ideologhi – attaccando la libertà essenziale di milioni di americane».
Ma a sopperire alla mancanza di memoria ci sono video che, per quanto troppo poco visti perché non trasmessi dai media tradizionali, testimoniano sia la sua promessa del 2007 che il Freedom of Choice Act sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto da presidente, sia l’affermazione del 2009 alla conferenza stampa dei primi 100 giorni di presidenza: «Il Freedom of Choice Act non è tra le mie priorità». E pensare che in quel momento Obama aveva non solo la maggioranza alla Camera, ma un’insolita supermaggioranza al Senato. Del resto, per dirla con David Sirota, «la presidenza Obama è stata caratterizzata dal favorire i predatori delle assicurazioni sanitarie, proteggere i criminali di Wall Street, e abbandonare le promesse fatte agli elettori Democratici, che hanno creato il contraccolpo e la bassa affluenza alle urne che hanno contribuito all’ascesa di Trump».
Finalmente venerdì 9 luglio Joe Biden ha firmato un executive order per tamponare in qualche modo l’ondata di disastri già provocati dalla sentenza della Corte Suprema sia tra i pazienti sia tra i medici, come ad esempio il caso della bambina di 10 anni che, rimasta incinta dopo uno stupro, è dovuta andare dall’Ohio all’Indiana per abortire. Troppo pressato dalle ondate di proteste e di richieste provenienti dal cosiddetto mondo liberal – sui media ha tenuto banco l’ira dell’attrice Debra Messing, sostenitrice di Biden nel 2020 e distintasi per le polemiche con la super-sandersiana Susan Sarandon – Biden ha promulgato un’ordinanza che permetterà al «Dipartimento della Sanità di espandere l’accesso alle pillole abortive, dare maggiori poteri al mandato di copertura per il controllo delle nascite dell’Obamacare e istituire un esercito di avvocati per aiutare a difendere le persone incriminate di aver cercato o fornito la procedura». Un ordine esecutivo che, ben lungi dal rimediare a quello che si sarebbe potuto ottenere con la codifica in legge della Roe v Wade, è arrivato con un ritardo che testimonia non solo la mancanza di volontà di questa amministrazione ma anche la sua incapacità. Considerando, come hanno sottolineato le donne di Washington, che la decisione della Corte suprema era una certezza da molto tempo, quell’ordine si sarebbe dovuto preparare almeno subito dopo il famoso leak di Politico del 2 maggio, se non addirittura nel momento in cui la Corte suprema degli Stati uniti si prese carico del caso del Mississippi Dobbs v Jackson Women’s Health Organization che nel 2018 diede origine alla serie di dispute legali che hanno portato alla recente sentenza.
Non si può concludere senza citare le due donne più importanti dell’establishment Democratico: Nancy Pelosi e Kamala Harris. Distinguendosi da Biden con la lettura di una poesia, la speaker della Camera Pelosi ha avuto le stesse reazioni indignate del presidente e come lui ha immediatamente utilizzato la sua indignazione per fare campagna elettorale, sia invitando verbalmente i cittadini a votare Democratico nelle elezioni di Mid-term di novembre, sia strumentalizzando la decisione della Corte Suprema per fare incetta di soldi per l’establishment del partito, mandando e-mail e messaggi per chiedere 15 dollari per combattere per la Roe vs Wade. Uno dei paradossi, tanto per usare un eufemismo, è che nelle scottanti primarie del Texas tra l’incumbent Henry Cuellar – anti-choice e talmente rimpinguato dalla National Rifle Association che il potente gruppo delle armi esplicitamente chiede ai suoi componenti di votare per lui – e la giovane sandersiana Jessica Cisneros, Nancy Pelosi ha dato il suo endorserment a Cuellar recandosi personalmente in Texas a fare campagna per lui.
La ciliegina sulla torta sono state le incomprensibili risposte di Kamala Harris ad alcune precise e incalzanti domande di Dana Bash della Cnn, che le chiedeva perché non si prendono subito provvedimenti per porre rimedio ai danni causati dal rovesciamento della Roe v Wade: le argomentazioni della vicepresidente non c’entravano niente con le domande, tranne quelle secondo cui la soluzione sarebbe votare Democratico a novembre. Come se attualmente Presidenza, Camera e Senato fossero nelle mani dei marziani.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders
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