
Aguzzini alla sbarra
Un tribunale italiano ha finalmente condannato quattordici uomini per il loro ruolo nell'Operazione Condor, la campagna di terrore latinoamericana sostenuta dagli Stati uniti. Ma molti altri criminali si godono la pensione
Il 9 luglio 2021 sarà una data che rimarrà impressa nella memoria di molte persone per tanto tempo. Quel giorno si è infatti chiuso un cerchio apertosi oramai venti anni fa, quando il magistrato Giancarlo Capaldo aprì le indagini sulla scomparsa di decine di persone, con cittadinanza italiana (figli di immigrati o nati in Italia), scomparse in America latina tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni 80, riconducendo le sparizioni alla tristemente famosa Operazione Condor. Ci sono voluti circa 15 anni per istruire il processo, che vide alla sbarra degli imputati 21 persone tra ex militari, ex ministri e anche capi di stato. Uno di questi residente proprio in Italia, precisamente a Battipaglia, in provicia di Salerno. Trattasi di Jorge Nestor Troccoli, ex ufficiale del servizio segreto della marina uruguayana, il Fusna. Approfittando della cittadinanza italiana, fuggì dall’Uruguay diversi anni fa proprio per eludere la giustizia, che lo accusava dei medesimi crimini. Sei anni dopo l’inizio del dibattimento, il processo si è concluso in Corte di Cassazione, con la condanna all’ergastolo di 14 persone (alcuni degli imputati, già anziani al momento del rinvio a giudizio, sono nel frattempo deceduti), tra cui lo stesso Troccoli.
Il Sistema
Per comprendere cosa fu davvero l’Operazione Condor, conosciuta anche come Plan o Sistema (quest’ultima definizione utilizzata per lo più in ambito accademico), abbiamo bisogno di fare un passo indietro. Gli anni Sessanta del secolo scorso rappresentarono un periodo piuttosto turbolento nel continente. L’esito vittorioso della Rivoluzione Cubana, unito all’indipendenza ottenuta da molti paesi di Africa e Asia, aveva infatti dato impulso alle lotte sociali e politiche alimentando le speranze, nei movimenti e nei partiti di sinistra, di una concreta emancipazione dal modello imposto dagli Stati Uniti. Di una segunda independencia, come recita il titolo di una famosa canzone degli Inti Illimani. Una speranza che, come ben sappiamo, non durò a lungo. Attraverso la pratica del colpo di stato, i militari si impadronirono del potere rovesciando i governi democraticamente eletti. Il tutto di concerto con le élite economiche, storiche detentrici del potere in America latina, e con gli Stati Uniti, preoccupati che le spinte progressiste e le riforme promosse dai governi di sinistra potessero mettere in pericolo gli investimenti nordamericani nella regione e far scivolare nell’orbita sovietica paesi storicamente a loro vicini. Dal 1964 prese così piede una serie di golpe che portò la gran parte del continente sotto il giogo dei militari. Nel 1971 toccò alla Bolivia, nel 1973 a Cile e Uruguay, nel 1976 all’Argentina. Una volta preso il potere, i regimi avviarono delle feroci campagne repressive contro qualsiasi forma di dissenso. Rastrellamenti, arresti arbitrari, tortura, detenzione in campi di concentramento e sparizioni furono metodi costantemente utilizzati dai militari in maniera cruenta e costante durante gli anni delle dittature. Obiettivi delle campagne repressive erano militanti di sinistra, musicisti, sindacalisti, studenti attivi nei movimenti, cattolici o anche solo chi era sospettato di nutrire delle simpatie marxiste.
Ma ciò non era abbastanza. Come abbiamo appena visto, ci vollero più di 10 anni affinché il ciclo di colpi di stato di chiudesse. Le persone potenzialmente in pericolo in un paese in mano ai militari ebbero quindi la possibilità di rifugiarsi in uno stato limitrofo, in cui non vi era, ancora, una dittatura, nella speranza di sfuggire alla cattura. Una circostanza di cui erano ovviamente coscienti le polizie segrete dei regimi militari. Per ovviare a questo “problema”, nell’autunno nel 1975 il colonnello Manuel Contreras, capo della Direcciόn de Inteligencia Nacional (Dina, la polizia segreta cilena), invitò le controparti dei regimi militari latinoamericani a Santiago del Cile per la Primera reunion Inter-Americana de Inteligencia Nacional, una riunione segreta il cui scopo era gettare le basi per rinforzare i sistemi di sicurezza dei vari paesi partecipanti. Al termine del meeting, svoltosi nel novembre dello stesso anno, i delegati di Cile, Bolivia, Argentina, Uruguay e Paraguay sancirono la nascita di un nuovo sistema repressivo transnazionale (denominato Condor in onore dell’uccello simbolo del paese ospitante), il cui obiettivo era lo scambio multilaterale di informazioni riguardanti i «sovversivi» attraverso la creazione di un ufficio di coordinamento e la costituzione di una banca dati internazionale su modello dell’Interpol. Il Brasile avrebbe siglato l’accordo solo nel 1976, mentre nel 1978 sarebbe stata la volta di Ecuador e Perù. La raccolta e lo scambio di informazioni non esaurivano i termini dell’accordo, ma ne costituivano solo la prima fase. La seconda, di carattere operativo, prevedeva cross-border operations organizzate congiuntamente dai servizi di sicurezza degli stati del Condor, durante le quali squadre di agenti afferenti a un singolo Paese o miste attraversavano i confini nazionali, senza ostacoli di carattere burocratico. Obiettivo delle operazioni oltre confine era quello di prelevare o interrogare un proprio cittadino già posto agli arresti in uno degli stati membri oppure di catturare loro stessi il probabile dissidente, utilizzando le informazioni fornite dalle intellingence locali. Gli interrogatori, caratterizzati dall’uso sistematico della tortura, nella maggior parte dei casi terminavano con l’eliminazione e la desapariciόn dei detenuti. La terza ed ultima fase consisteva invece nella creazione di squadre speciali incaricate di individuare ed eliminare i “nemici” che si fossero rifugiati al di fuori dei confini territoriali del Sistema Condor, potenzialmente capaci di minare la stabilità dei regimi anche al fuori dei confini continentali.
La complicità di Washington
A questo punto della narrazione, è opportuno chiarire due aspetti cruciali. Primo: l’Operazione Condor non coincide con il fenomeno delle dittature militari latinoamericane degli anni Sessanta – Ottanta. Essi sono infatti due elementi strettamente correlati ma ben distinti. La vittima di una dittatura latinoamericana non è necessariamente la vittima del Sistema Condor, pur meritando verità e giustizia nello stesso identico modo.
Appurato questo primo punto, possiamo passare al secondo: l’Operazione Condor non fu un’operazione di politica estera degli Stati Uniti. Da un punto di vista storiografico, infatti, il ruolo svolto dagli Usa nella repressione transnazionale non è al momento dimostrabile, stando ai documenti in nostro possesso. Inoltre, viene spesso ignorato che il Sistema Condor si trovò a cavallo tra due amministrazioni statunitensi, Nixon-Ford prima e Carter poi, le quali ebbero un approccio molto diverso nei confronti dei regimi militari latinoamericani. Se l’amministrazione Nixon-Ford, in nome di quella real politik di kissingeriana memoria, promosse e finanziò molte delle dittature che sorsero in quel periodo, l’amministrazione Carter ebbe un approccio diverso, seppur non incisivo, nei confronti dei diritti umani, al punto di essere «accusato di comunismo» dai regimi militari. Tuttavia, il punto interrogativo che aleggia sul coinvolgimento diretto degli Usa nei sequestri e nelle sparizioni non impedisce di individuare le pesanti responsabilità degli Stati Uniti nella creazione e nell’azione del Sistema Condor. Primo, un elemento che potrebbe apparire scontato ma che è bene ricordare, è la coscienza di cosa stava succedendo e il relativo silenzio, come dimostrano numerosi documenti declassificati dalle amministrazioni statunitensi a partire dal 1999. Secondo, il contributo dato dagli Usa all’instaurazione e al sostegno dei regimi militari che a partire dalla metà degli anni Cinquanta resero il subcontinente latinoamericano politicamente omogeneo, condizione indispensabile per la nascita del Sistema Condor. Terzo, l’addestramento alla contro-insorgenza e alle tecniche di tortura fornito dai militari statunitensi nella Escuela de Las Americas, frequentata da molti degli ufficiali che alcuni anni dopo sarebbero stati i fautori del Sistema Condor. Quarto, l’utilizzo da parte del Sistema Condor delle infrastrutture comunicative statunitensi site nei pressi del Canale di Panama per il coordinamento delle azioni dei regimi militari. La connivenza e il sostegno operato dagli Stati Uniti, soprattutto dal 1975 al 1977 appare dunque evidente. Ma la distanza concettuale che separa un sostegno esterno da un’operazione di politica estera (come il tentativo di invasione della Baia dei Porci o il colpo di stato in Guatemala del 1954), è ampia.
La cooperazione ufficiale legata al Sistema Condor tra tutte le dittature del Cono Sur sarebbe durata circa due anni, terminando tra la fine del 1977 e l’inizio 1978. La rottura del patto si deve a due elementi. Il primo fu l’assassinio di Orlando Letelier, diplomatico cileno vicino ad Allende, avvenuto a Washington, DC il 21 settembre del 1976. Nell’attentato rimase uccisa anche una cittadina statunitense di nome Ronnie Moffit, collaboratrice di Letelier. Il misfatto ebbe delle forti ripercussioni sulle relazioni tra Cile e Stati Uniti, e di riflesso su tutti i membri del Sistema Condor. La neoamministrazione Usa guidata da Jimmy Carter iniziò a fare forti pressioni affinché la politica repressiva del regime cileno, e non solo, venisse ridimensionata, tagliando inoltre gli aiuti militari alle dittature che si rifiutarono di collaborare. Secondo, il riacutizzarsi delle tensioni tra Cile e Argentina per il dominio sul Canale del Beagle nel 1977. Le tensioni tra i due paesi aumentarono progressivamente fino a portarli ad un passo dalla guerra. Il conflitto in questione venne inoltre utilizzato dagli altri stati per rispolverare vecchi rancori nei confronti di uno o dell’altro contendente. Lo scontro diretto fu evitato grazie alla mediazione del Vaticano, ma i rapporti diplomatici tra le dittature militari si incrinarono irrimediabilmente.
La rottura del patto ufficiale, tuttavia, non fermò la collaborazione tra le polizie politiche dei regimi. le quali continuarono a sequestrare, massacrare, torturare e scambiarsi prigionieri fino ai primi anni Ottanta.
Una goccia in un mare di vittime
Nel corso degli anni, la repressione portata avanti dai regimi ha prodotto un numero di vittime difficilmente quantificabile, ma che si attesta tra le 30 e le 60 mila, gran parte delle quali non si sa dove siano. Ci sono stati molti processi legati ai crimini dell’Operazione Condor, molti dei quali tenuti in America Latina. Già nel 1978, negli Stati Uniti, fu avviato un procedimento contro l’agente americano della Dina Michael Townley per aver organizzato l’attentato contro Orlando Letelier insieme a terroristi cubani anticastristi. Finora l’Italia è l’unico Paese al di fuori delle Americhe ad aver svolto un processo espressamente legato a Condor fino alla sua massima corte.
Al tempo stesso, molti dei carnefici sono morti senza mai aver pagato per i loro crimini, anche a causa della debolezza che caratterizzò alcune delle transizioni democratiche iniziate negli anni Ottanta, che lasciò tanti militari al loro posto anche dopo la fine delle dittature. Altri ripararono all’estero per sfuggire alla cattura. Così come, del resto, nessuno ha mai risposto delle accuse di aver promosso e finanziato dall’esterno i colpi di stato, avallando migliaia di morti e complimentandosi con i dittatori per il servizio reso all’Occidente. Un nome tra tutti: Henry Kissinger, insignito del Premio Nobel per la Pace, ironia della sorte, proprio nel 1973, dopo aver meticolosamente organizzato il collasso del Cile di Allende e creato le condizioni per un golpe che costò la vita a migliaia di persone innocenti.
Alla luce di tutto ciò, il processo italiano all’Operazione Condor rappresenta una goccia in un mare di vittime che non vedranno mai arrivare la giustizia che meritano. Tuttavia, in questo drammatico contesto, il processo italiano ha comunque una rilevanza cruciale, soprattutto in relazione alla condanna di Jorge Nestor Troccoli. Questo rappresenta il primo caso di un torturatore processato, condannato e arrestato in Italia. La speranza è che questa condanna rappresenti il punto di partenza per l’apertura di nuovi processi nei confronti di altri torturatori che oggi vivono indisturbati nel nostro paese. È il caso di Carlos Luis Malatto, ex ufficiale argentino accusato di aver torturato e ucciso decine di persone, che oggi si gode una tranquilla pensione in Sicilia; oppure di don Franco Reverberi, ex cappellano militare anch’egli argentino, riconosciuto da molte vittime come il sacerdote che assisteva i militari durante le sessioni di tortura. Il prete vive (e dice messa) in un piccolo paese della provincia di Parma.
Nonostante siano passati quasi quarant’anni, oggi più che mai è necessario proseguire la ricerca di quella giustizia che ogni singola vittima merita. Una giustizia senza frontiere geografiche o politiche, capace di diffondere la Memoria di ciò che è stato oltre i confini dell’America latina e di trasmetterla anche a chi non ha vissuto simili atrocità sulla propria pelle. Il 9 luglio la Corte di Cassazione italiana ha mosso un passo in questa direzione. L’augurio è che sia il primo di tanti, affinché si distrugga quel muro di impunità e omertà che ha circondato questa vicenda per troppi anni.
*Vito Ruggiero è dottorato in storia dell’America latina all’università di Roma Tre. Questo articolo è uscito anche su JacobinMag.
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