Alla corte di Spadafora
Lega e Movimento 5 Stelle, pur facendo parte della stessa maggioranza, mettono in scena il bipolarismo dei diritti civili. E qualcuno ci casca...
All’inizio di giugno 2018, a governo appena insediato, la prima uscita pubblica del ministro della famiglia Lorenzo Fontana aveva già chiarito quali sarebbero state, nel suo campo, le linee generali dell’azione dell’esecutivo: incentivare le nascite, limitare gli aborti, sostenere la cosiddetta “famiglia tradizionale” escludendo l’esistenza delle famiglie omogenitoriali già a partire dal discorso pubblico e facendo leva sui vuoti legislativi della legge 76/2016 sulle unioni civili.
Colpisce che l’espressione usata dal ministro (e dalla sua intervistatrice) sia proprio il nome scelto da Famiglie Arcobaleno, una delle maggiori associazioni LGBTIA+ italiane che si occupa specificamente, per l’appunto, di genitorialità delle coppie formate da persone dello stesso sesso. [Nel corso dell’articolo si è preferito usare l’acronimo completo LGBTQIA+ soltanto quando si parla di comunità e di soggetti a prescindere dall’appartenenza ad associazioni o soggetti politici specifici. Si è deciso invece di sottrarre la “Q” di “queer” quando si parla delle associazioni mainstream]. Come era possibile aspettarsi, lo scorso giugno – “mese dell’orgoglio” e dei pride, perché intorno alla data del 28 si commemora ogni anno l’anniversario dei Moti di Stonewall – è stato caratterizzato da una risposta immediata alle dichiarazioni di Fontana, percepite come un attacco all’intera comunità LGBTQIA+. Segnale che, in qualche modo, mostra come una “comunità” LGBTQIA+ in Italia esiste ancora ed è in grado di rispondere compattamente quando una sua parte viene colpita, riuscendo a coinvolgere anche altri settori della società nel segno dell’opposizione a un dato governo.
Com’è stato possibile, però, passare da questa ipotesi di un’opposizione arcobaleno, che sembrava molto concreta e molto partecipata anche al di fuori delle specifiche istanze LGBTQIA+, alla decisione di sedersi al tavolo con il governo?
La realpolitik populista
Andiamo con ordine. Lorenzo Fontana oltre ad aver rivestito un ruolo-chiave nella Lega in Europa, grazie al suo lavoro di europarlamentare che gli ha permesso di inserire il partito di Matteo Salvini nelle compagini dell’estrema destra “populista”, per esempio attraverso il Mouvement pour l’Europe des Nations et des Libertés (fondato insieme all’ex Front National di Marine Le Pen), è stato uno dei più influenti anelli di congiunzione tra i fondamentalisti catto-identitari della Lega e il rinnovamento dei movimenti anti-femministi e anti-LGBTQIA+ che, dal 2013, hanno importato in Italia la Manif Pour Tous francese e generato l’attivismo “anti-gender”. In sostanza, prima del salto derivante dalla nomina come ministro, Fontana aveva accumulato varie posizioni di potere dentro e fuori la Lega (fino al 14 giugno 2018 è stato anche vice-sindaco di Verona), coltivando rapporti continui con le estreme destre europee, la Russia di Vladimir Putin e le associazioni anti-abortiste e “anti-gender” (inclusa ovviamente l’attuale ProVita Onlus, realtà nata nel 2012 dalla militanza anti-abortista e anti-LGBTQIA+ di Forza Nuova). Dalla prospettiva dei movimenti LGBTQIA+, sembrava dunque impossibile anche solo ipotizzare di sedersi al tavolo di trattativa con una figura del genere. Non tanto per limiti squisitamente etico-politici, quanto perché nella stessa carriera e biografia di Fontana sembra iscritta irrimediabilmente l’impossibilità di dialogare con le persone LGBTQIA+, anche solamente a partire da un ascolto svogliato delle istanze politiche di queste ultime. Le stesse dichiarazioni del ministro dell’interno e vice-presidente del consiglio Matteo Salvini, che sembravano frenare le ipotesi contro la legge 194 e le unioni civili in nome delle riforme previste dal contratto di governo, vanno prese come una minima presa di distanza formale da Fontana, visto che il giorno prima aveva egli stesso disconosciuto l’esistenza di due padri gay e di due madri lesbiche.
Ma la Lega non è stato l’unico partito a favore del quale il parlamento ha concesso la fiducia al fine di amministrare l’Italia. Mentre si metteva a punto il “contratto di governo” per regolare i limiti dell’accordo e delineare la politica dell’esecutivo, la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno giocato anche la partita dei ministeri. Nella competizione per accaparrarsi le porzioni di potere, i 5 Stelle hanno scelto di evitare i temi etici e culturali, lasciandoli di fatto alla mercé della incessante propaganda della Lega. Pochi giorni dopo, quasi a conferma del giano bifronte che è il governo Conte, dalla pagina Facebook “Amici 5 Stelle Diritti civili e LGBT” era stato lanciato un clamoroso outing dell’appena nominato sottosegretario alla pari opportunità Vincenzo Spadafora, spesso indicato come “braccio destro” di Luigi Di Maio. Già presidente di Unicef Italia, il più giovane di sempre, Spadafora è stato il primo nominato garante dell’infanzia dai presidenti delle camere di allora (Renato Schifani e Gianfranco Fini) quando, nel 2011, è stata istituita l’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Resta però molto complicato continuare a credere all’impegno pentastellato sui diritti civili LGBTQIA+ (persino slegandoli dai diritti sociali, qualunque cosa voglia dire separare i diritti civili dai diritti sociali), quando questo è inglobato nel governo più reazionario degli ultimi vent’anni e con la scelta di lasciare di fatto alla Lega campo libero nella costruzione di un comodo nemico politico fuori dalle istituzioni (gruppi di persone in carne e ossa: italiane/i senza cittadinanza, migranti, rom, gay, lesbiche, trans e via dicendo).
Realismo familista
Di fronte alle partite incessanti giocate per l’equilibrio competitivo nel governo Conte, le reazioni alle dichiarazioni di Fontana hanno portato il movimento LGBTQIA+ a esasperare il panico dovuto alla Lega come partito di governo e a intendere il Movimento 5 Stelle – quando non addirittura la stessa Lega – come un interlocutore possibile con cui trattare, più che come nemico da combattere, mantenendo comunque una semplificata retorica della guerra frontale. In un’intervista a Il Tempo degli stessi giorni di inizio giugno, il fondatore di Arcigay e suo presidente onorario Franco Grillini precisava di aver chiesto un incontro istituzionale al neo-ministro Fontana, da cui aveva invece ottenuto un secco rifiuto. Quindi affermava: «[G]li omosessuali sono riproduttivi come tutto il resto della popolazione. Il ministro Fontana ci dia una mano a farli i figli, siamo in grado di educarli come il resto della popolazione». Nella chiusura dell’intervista, Grillini diceva di aspettarsi, dal presidente del consiglio, che la delega alle pari opportunità fosse data «ad un sottosegretario che ci crede». Nonostante il ministro della famiglia proposto da Giuseppe Conte sia apertamente e fieramente anti-abortista? Va ricordato, en passant, che l’ossessione natalista dei governi italiani si abbatte con particolare violenza sulle scelte delle donne (in particolare cisgenere, cioè assegnate al genere femminile alla nascita, ed eterosessuali). E non è un fatto propriamente nuovo: lo avevamo già visto col Fertility Day dell’ex ministra Beatrice Lorenzin nel governo guidato dal Partito Democratico. Fu uno tra i primi obiettivi polemici di Non Una Di Meno quando, nel 2016, il movimento femminista iniziò di nuovo a marciare in Italia raccogliendo l’appello delle donne argentine in mobilitazione.
Per ragioni che si sono cristallizzate politicamente in seguito allo stralcio dell’articolo 5 (cioè della “stepchild adoption”) da quella che è diventata la legge 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze, anche il movimento LGBTIA+ italiano mainstream ragiona quasi esclusivamente in termini di genitorialità e, indirettamente, di contrasto alla (de)natalità, culle vuote e asili da rendere gratuiti. Sulla pagina de Il Tempo, l’intervista di Grillini è affiancata a quella di Massimo Gandolfini, presidente del Comitato Difendiamo i Nostri Figli (leggasi: Family Day). Se Grillini propone al ministro della famiglia di impegnarsi per gli «asili gratis per i figli di tutti», i mutui per la prima casa e i permessi sul lavoro, Gandolfini si aspetta che Fontana prenda in considerazione «aiuti economici alla famiglia naturale, una fiscalità a misura di famiglia, asili nidi gratuiti», eccetera. Oltre alla palese volontà discriminatoria di Gandolfini, sembrerebbe non esserci una profondissima differenza di prospettive politiche: la definizione identitaria del movimento LGBTIA+ mainstream si è spostata, a livello politico e culturale, sulla negoziazione del concetto di “famiglia”, intesa sempre più come coppia riproduttiva in senso biologico.
Va precisato: la posizione di Grillini ha il suo senso rispetto sia agli attacchi dei cattolici e dei numerosi reazionari sia all’evoluzione di certe politiche mainstream LGBTIA+. Come sottolinea il fondatore di Arcigay nell’intervista a Il Tempo, infatti, i soggetti LGBTQIA+ sono stati ritenuti tradizionalmente esclusi dalla riproduzione e, anzi, considerati di per sé “non riproduttivi”. È indubbio che la filiazione per le coppie formate da persone dello stesso sesso e il controllo affettivo-educativo dei bambini e degli adolescenti (dal reato di plagio con cui si condannò Aldo Braibanti alla cosiddetta ideologia gender) abbiano sempre rappresentato uno dei cavalli di battaglia di chi avversa le persone non-eteronormate. Per di più, solo con estenuanti mediazioni al ribasso il Partito Democratico è riuscito a far approvare una legge sulle unioni civili, per lo più perché la Corte di Cassazione, la Consulta e la Corte Europea dei Diritti Umani avevano imposto al legislatore di trovare una strada per evitare quella che – piaccia o meno – era una fattuale discriminazione. Queste ragioni che abbiamo rapidamente riassunto spiegano perché dentro al movimento LGBTIA+ si è rimasti perlopiù incagliate/i in un discorso sulla genitorialità e sui (sacrosanti) diritti di figlie e figli. Come se, prese singolarmente e fuori da un riconoscimento come “coppia” o come “famiglia” (anzi, “formazione sociale specifica”), le persone LGBTQIA+ fossero sostanzialmente tutelate e non avessero da chiedere di più e di meglio, per loro e per altre soggettività, senza passare necessariamente da una funzione e un onere riproduttivo rispetto alla società che le circonda.
Produzione, disciplina sociale, riproduzione
Il momento fondativo in cui il lessico dei diritti è entrato nelle politiche LGBTIA+, definendone pian piano obiettivo e caratteri identitari, è collocabile tra la fine degli anni Settanta e (soprattutto) gli Ottanta, con la fase calante – ancorché frizzante – del Fuori, la breve storia fruttuosa dei collettivi autonomi, la sintesi operata dalla nascita di ArciGay e l’impegno vincente del primo movimento transessuale per la legge 164 del 1982 sulla “rettificazione del sesso”. Le vicende del passaggio dal movimento di liberazione omosessuale al movimento gay prima e LGBTIQA+ poi sono approfonditamente e criticamente studiate da Massimo Prearo nel libro La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT (Ets, 2016). Inoltre, una fondamentale accelerazione sulle “coppie di fatto” si è avuta in risposta alla crisi causata dall’Aids, quando l’assenza di tutele giuridiche comportava difficoltà fattuali e, allo stesso tempo, si avvertiva l’esigenza di ripensare pratiche e azioni del movimento gay. A partire dagli anni Novanta – dopo la prima legge in assoluto sulle unioni civili, approvata in Danimarca nel 1989, e la prima risoluzione del parlamento europeo sui diritti delle persone omosessuali – e soprattutto Duemila – dopo la spinta internazionale del World Pride di Roma – in Italia si è discusso delle forme giuridiche da dare alle coppie formate da persone dello stesso sesso (Pacs come in Francia? Di.Co.? Di.Do.Re?), ma escludendo sempre una proposta di legge sul matrimonio egualitario. Sulla base di questo progetto di riconoscimento giuridico che, per quanto soft, sembrava a portata di mano anche in Italia, un ruolo centrale nell’elaborazione teorica e pratica del movimento LGBTIA+ è stato attribuito ai legami con le forze politiche istituzionali e di partito, soprattutto di sinistra e centro-sinistra: forze che non sono mai riuscite ad andare oltre il facile piano della rappresentanza e delle scadenze elettorali, sistematicamente interpretando la questione dei diritti legati a genere e orientamento sessuale attraverso candidature isolate e una drammatica mancanza di programma politico. Ad affiancare questa lacuna è poi intervenuta la creazione originale o, più spesso, importata e derivata di un immaginario di massa comodo, incentrato esclusivamente sulla coppia, l’amore, la famiglia, la normalità quotidiana delle persone LGBTQIA+; un immaginario piatto, narrativamente e politicamente povero, per nulla ristrutturante, destinato per lo più a rasserenare le persone eterosessuali, e per di più senza la determinazione di chiedere esplicitamente una legge sul matrimonio egualitario che avrebbe garantito l’acquisizione in blocco almeno della base dei diritti riproduttivi e civili incentrati su quell’istituto; né, d’altronde, si è provato a formulare ipotesi diverse da quelle di un istituto separato per le “coppie dello stesso sesso”.
Di questo percorso complesso si trova traccia anche nella legge 76/2016, per cui il legislatore ha scelto tre diversi istituti: l’inscalfibile matrimonio per persone eterosessuali, le monche unioni civili per omosessuali e le convivenze di fatto (sulle quali poco si è detto ma che trovano le loro origini anche nelle rivendicazioni post-liberazione omosessuale, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta). Nell’approvazione di questa legge, le associazioni mainstream hanno giocato, come sempre, ora in difesa ora in attacco, nel tentativo obliquo di rimediare all’insofferenza di un legislatore incapace. In seguito al passaggio in Senato, giorno su cui il governo pose la fiducia sul testo riscritto all’ultimo minuto insieme ad Angelino Alfano, fu sancito il definitivo abbandono della stepchild adoption (a sua volta già un compromesso a ribasso rispetto all’orizzonte voluto dalle associazioni). A quel punto, tradito, l’intero movimento LGBTQIA+ decise di ritrovarsi a Roma per manifestare in Piazza del Popolo il 5 marzo 2016. La convocazione aveva inizialmente un carattere di forte ribellione: si chiamava “Ora Basta!” e invitava l’Italia “laica” ad alzare la voce. Dopo pochi giorni, il nome della manifestazione si trasformò in “Ora diritti alla meta”, con l’obiettivo di smorzare i toni e mostrarsi concilianti con un partito – il PD – e un governo – guidato da Matteo Renzi – le cui mosse neoliberiste hanno conosciuto soltanto la realpolitik parlamentare. Le logiche degli uni erano diventate le logiche degli altri. E il cortocircuito non si limitava al solo cambio di titolo e di grafiche, che rispecchiava piuttosto una mancanza di ascolto, di dialogo, di sintesi e di chiarezza d’intenti. Le questioni divisive, infatti, oltre alle appartenenze partitiche più o meno velate, riguardavano le prospettive politiche e di movimento. In ballo c’erano l’urgenza di portare a casa un risultato tremendamente fuori tempo rispetto alla tendenza europea; la ricerca ostinata di sintesi intorno a quello che veniva presentato acriticamente come un passaggio storico; la tradizionale avversione al matrimonio delle ale antagoniste in favore di altre soluzioni non necessariamente giuridiche; il bisogno di organizzare un fronte comune per interrompere l’avanzata delle destre, la cui incessante propaganda contro la cosiddetta ideologia gender aveva iniziato a consolidare l’ammucchiata di neofascisti, leghisti, populisti, cattolici.
Aver deciso di ammazzare, in quel momento, le legittime proteste e la sana rivolta contro le istituzioni, fosse anche solo contro la scelta di accettare ribassi su ribassi, ha confermato il totale sbandamento di un associazionismo dipendente dal potere partitico. In questo quadro, l’elaborazione massima del movimento LGBTIA+ mainstream è stata denunciare il «buco al cuore» (come lo definisce Monica Cirinnà) della legge sulle unioni civili, cioè la stepchild adoption. Sulla base di questo, la lotta politica perseguita è stata definita solo intorno alla genitorialità biologica, tornando ossessivamente sul luogo del misfatto della legge 76/2016, senza realmente volersi disfare di una legge che comporta tre diversi istituti nel tentativo di contro-narrare le offese del Family Day. Sarebbe stato il caso di rivedere gli orizzonti politici stessi del movimento. Si sarebbe potuto rialzare la posta in gioco con il matrimonio egualitario e le adozioni per tutte e tutti, per esempio, e partire da questo per rivendicazioni più complesse in tema di diritto di famiglia; allargare il discorso sulle identità di genere e chiedere nuove norme sulla riattribuzione del sesso; tutelare i corpi e l’autoderminazione delle persone intersex; riuscire, finalmente, a mettere in campo discorsi seriamente intersezionali; collaborare con realtà femministe, antifasciste, antirazziste. L’elenco potrebbe continuare, tenendo conto anche che, al di là delle richieste da avanzare alle istituzioni, esistono anche altri discorsi culturali e politici in grado di compromettere l’ordine del discorso delle destre (e non solo) partendo proprio dalle soggettività LGBTQIA+.
A colpi di vuoto spacciato per realismo, invece, l’orizzonte politico LGBTIA+ sta invece rischiando di diventare progressivamente speculare (non identico, attenzione) a quello delle destre, non sotto la loro egida ma sotto la protezione e la spinta delle forze liberali e progressiste. Su questo punto esatto si gioca lo scandaloso legame delle destre e sinistre liberali con le destre estreme e neofasciste, che sistematicamente nel corso della storia degli ultimi due secoli sono state più tamponate che ostacolate, al limite lasciate andare avanti nel loro programma di governo. Lo dimostrano bene, in questa fase, il caso di Bolsonaro e quello di Trump: entrambi sono in parte attaccati su un piano blandamente etico e contemporaneamente sostenuti o ambiguamente accarezzati dalla stampa finanziaria internazionale. C’è una ragione per cui questa apparente contraddizione avviene. Il motivo per cui la difesa dell’ordine sociale – compreso il suo aspetto riproduttivo – è agevolato e protetto dalle forze liberali è che è perfettamente compatibile con le aspirazioni del capitale internazionale. Se la classe capitalista non riesce ad aumentare la produttività che consentirebbe il ritorno agli standard di vita occidentali precedenti la crisi senza intaccare i propri profitti, preferisce intervenire sulla disciplina sociale in parte per scoraggiare proteste e insorgenze (con l’intervento massiccio delle forze di polizia), in parte per individuare capri espiatori della crisi che saranno sempre più de-umanizzati per essere messi al lavoro nelle condizioni più estreme (è il caso delle persone razzializzate, specialmente se si tratta di donne), in parte per stimolare la crescita demografica per poter avere maggiore forza-lavoro disponibile. Insomma, forse inseguire il governo attuale sul terreno della riproduttività dei soggetti LGBTIA+, a monte, non è proprio una grande idea.
Invito a cena con delitto
C’erano tutti gli elementi, insomma, perché questa impasse evolvesse in una direzione di trattativa permanente, e dunque nella possibilità di aprire un tavolo persino con una delle peggiori controparti degli ultimi decenni. Il rischio, più che esplicito, era quello di continuare a fornire a un governo a maggioranza populista, ma a trazione reazionaria, la possibilità di adattare e rilanciare la propria ossessione riproduttiva. A maggior ragione se allo stesso tavolo siedono associazioni che la pensano molto diversamente fra loro anche su questi temi. Proprio su una questione riproduttiva – la celebre “gestazione per altri” – si è giocato infatti uno dei maggiori conflitti interni al movimento LGBTIA+ degli ultimi anni, determinando un cortocircuito in particolare nelle politiche di Arcilesbica, la maggiore associazione lesbica italiana. La nomina, lo scorso anno, del nuovo direttivo su posizioni rigidissime sulla gestazione per altri, sulla somministrazione di bloccanti ormonali a persone trans in età adolescenziale e sull’assistenza sessuale ai disabili ha determinato non solo l’uscita di buona parte dei circoli dall’associazione nazionale, ma anche la prosecuzione e l’inasprimento di un conflitto che da anni separa Arcilesbica dal resto del movimento (e che invece fa sponda con una componente minoritaria del movimento femminista).
L’effetto della presenza di Arcilesbica è di rafforzare una tenaglia nella quale nemmeno la battaglia sul riconoscimento delle coppie omogenitoriali sembrava destinata ad andare in porto. L’elenco delle associazioni che hanno aderito al tavolo, ciò nonostante, parla molto chiaro: si tratta della quasi totalità dei grandi nomi dell’associazionismo LGBTIA+ italiano. Probabilmente non tutti con lo stesso posizionamento o con le stesse intenzioni ed è assolutamente probabile che molte associazioni si trovino al tavolo anche per controllare l’andamento delle altre. Fatto sta che il “mese dei Pride” aveva visto non solo un allargamento della partecipazione dal basso, ma anche il possibile ritorno in piazza di tutta una serie di temi che sembravano, fino all’anno prima, nascosti sotto al tappeto, cui le dichiarazioni di Fontana di inizio mandato avevano dato la stura. Ancora una volta, tuttavia, la chiamata in piazza e l’ondata di partecipazione è stata ricondotta a una dinamica di contrattazione con la politica di rappresentanza che sembra non solo in teoria, ma anche alla prova dei fatti, ampiamente incapace persino di ottenere i minimi risultati di interlocuzione prefissati. Sembra la naturale conseguenza, dunque, che si sia data un’inversione di rotta sulla questione del “tavolo Spadafora”, con un comunicato dai toni fermi scritto dalle associazioni in questo momento più trainanti.
L’istituzione di questo tavolo di trattativa, d’altronde, potrebbe configurarsi come uno dei capolavori politici del Movimento 5 Stelle. Sul versante della Lega, il caso di Alice Weidel o di personaggi come Milo Yiannopoulos dovrebbero far comprendere che le destre reazionarie non hanno alcuna remora a fare qualche passo in avanti verso i soggetti LGBTQIA+ se questo può consentire loro un’arma in più per la costruzione di una nazione bianca e riproduttiva in cui ogni soggetto abbia il proprio posto in una gerarchia definita e inscalfibile. Dal punto di vista dei 5 Stelle, è chiaro che il tentativo è di smarcarsi rispetto alle politiche della Lega sui temi “civili ed etici”, pur restando nell’alveo della realpolitik di rappresentanza, così da accreditarsi come “la sinistra” dell’eventuale bipolarismo che viene e che non fatichiamo a immaginarci. Da questo punto di vista, è utilissima l’istituzione di un tavolo al quale è presente tutto l’associazionismo LGBTIA+, ed eventualmente scaricare sullo stesso associazionismo diviso la responsabilità del suo fallimento, mossa esplicitamente rivendicata da Spadafora nella risposta al comunicato delle associazioni. A meno di sorprese, nei prossimi tempi sarà più che probabile che il governo reggerà finché sarà il caso. Quando si andrà a elezioni, queste micro-tattiche saranno utili a presentare un nuovo bipolarismo quasi-perfetto con i due corni Lega e Movimento 5 Stelle. E allora il delitto sarà servito.
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