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Alla sinistra europea serve una visione del futuro

Miguel Urbán 17 Giugno 2019

L'Ue è in crisi a causa delle politiche di austerity, eppure la sinistra radicale sembra più debole che mai. Bisogna uscire al più presto dal lutto per i risultati ottenuti e riconnettersi con i movimenti sociali emergenti

Le elezioni europee del 26 maggio hanno dato gli ultimi segnali della disgregazione dell’ordine politico egemonico in Europa. Per la prima volta nella storia del Parlamento europeo, la somma dei gruppi tra Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) e i cristiano-democratici (Ppe) non ha ottenuto la maggioranza dei seggi. Ma se gli effetti delle politiche di austerity sono stati un elemento chiave nella disgregazione dei vecchi partiti, le elezioni europee di quest’anno hanno mostrato anche la smobilitazione dell’elettorato della sinistra radicale. Con una crescente polarizzazione dell’arena politica con da una parte i sostenitori liberali e verdi del progetto europeo e dall’altra l’estrema destra.

Come sostiene l’europarlamentare di Unidos Podemos, Miguel Urbán, la frammentazione nel parlamento di Bruxelles non significa che l’Unione europea sia diretta verso il collasso. Nelle sue “Dieci tesi sulle elezioni europee” che riportiamo di seguito, sostiene che la formazione di un nuovo blocco centrista, che potrebbe includere anche Verdi e liberaldemocratici, potrebbe benissimo prolungare il sostegno alle politiche di Bruxelles per almeno qualche altro anno. Tuttavia, mentre i cittadini si sentono sempre più distanti dalle istituzioni dell’Unione europea e l’estrema destra avanza, la necessità che la sinistra fornisca una alternativa su scala europea diventa sempre più urgente.

***

1. La crisi di legittimità dell’Ue

Ormai è chiaro che l’Unione europea sta perdendo sempre di più la propria legittimità tra i settori sociali in tutta Europa. È sempre più difficile associarla ai cosiddetti “valori europei” come la democrazia, il progresso, il benessere o i diritti umani. Si tratta di una crisi organica nel senso gramsciano del termine, risultato dell’inasprimento della crisi del modello post-Maastricht del capitalismo europeo che, combinando austerità, libero scambio, debito predatorio e lavoro precario e mal pagato, Dna dell’attuale capitalismo finanziarizzato, ha rappresentato una vera e propria camicia di forza neoliberista.

Questa crisi di legittimità e istituzionale viene affrontata con riforme di facciata, per dare alle istituzioni europee una sorta di patente di legittimità democratico-liberale che in realtà le manca. In questo modo, il quadro della governance europea si rinnova ogni cinque anni, in coincidenza delle elezioni del Parlamento europeo, cercando di evitare di dare l’immagine di un apparato burocratico strutturato gerarchicamente in un equilibrio di poteri statali basato sull’egemonia dell’asse Berlino-Parigi.

2. Disaffezione dei cittadini e ripresa della partecipazione elettorale

La crisi di legittimità si è manifestata elezione dopo elezione, con una crescita del tasso di astensione che dimostra il grado di disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee. Le ultime elezioni del 26 maggio hanno spezzato questa tendenza raggiungendo il 50,5% di votanti, un risultato che ha entusiasmato Bruxelles, dove è stato visto come una sorta di rilegittimazione del sistema.

In realtà, quando si spegne l’euforia degli eurocrati, ci si accorge che il dato della partecipazione si può spiegare con la coincidenza delle europee con elezioni locali e/o regionali, che hanno prodotto un effetto traino. L’esempio spagnolo è piuttosto paradigmatico di come la coincidenza elettorale abbia fatto schizzare in alto la partecipazione: 64,3%, oltre 10 punti in più rispetto alla tornata precedente del 2014. All’estremo opposto troviamo il Portogallo, che non è riuscito a superare il 31,4% dei votanti, maglia nera in tutta l’Unione europea.

3. Per la prima volta i popolari e i socialisti non hanno la maggioranza assoluta al Parlamento europeo

Forse uno dei più grandi risultati di queste elezioni è la rottura del sistema bipartitico europeo. O almeno del suo predominio parlamentare. Per la prima volta nella storia del parlamento europeo, la somma dei seggi del Partito popolare (Ppe) e dei socialdemocratici (Allenza progressista dei socialisti e Democratici, S&D) non permetterà di raggiungere la maggioranza assoluta. Il Ppe ha vinto di fatto le elezioni, con circa 180 eletti, ma ha lasciato sul campo 41 seggi e il 5% dei voti rispetto al 2014. E anche l’S&D resta il secondo gruppo più votato: ha ottenuto 145 deputati, 45 in meno rispetto a 5 anni fa con un calo del 6%.

Tuttavia l’impressione è che questi risultati somiglino sempre più a una tendenza storica, ovvero alla crisi dei partiti che hanno tradizionalmente detenuto il potere dopo la Seconda guerra mondiale. Questa crisi appare ora come un fenomeno non più localizzato in qualche paese in particolare, ma diffuso su scala europea. È la conseguenza dell’implosione dell’“estremo centro” che governa l’Europa nella forma della grande coalizione e che, tra le altre cose, genera una frammentazione sempre più profonda degli spazi elettorali. Tuttavia, la riconfigurazione politica, economica e culturale che si è avviata è ancora agli inizi.

4. Una nuova politica di alleanze in Europa

La rottura dell’egemonia bipartitica non è necessariamente sinonimo di instabilità nella governance neoliberale dell’Unione europea. Anzi, c’è da aspettarsi che verrà contenuta, com’è ormai consuetudine nelle istituzioni comunitarie negli ultimi anni, grazie all’apporto dei liberaldemocratici e sicuramente anche dei Verdi, con un movimento che andrà a costituire un ampio blocco di governance a Bruxelles. Proprio i liberaldemocratici e i Verdi sono i gruppi cresciuti di più nelle ultime elezioni, collocandosi rispettivamente al terzo e quarto posto al Parlamento europeo. I liberali dell’Alde, guidati dalla proposta di Macron per una rinascita europea, hanno raddoppiato i consensi e sono passati da 67 a 109 rappresentanti. Da parte loro, i Verdi sono riusciti a crescere del 30% e hanno ottenuto 69 deputati, 19 in più rispetto al 2014.

L’ascesa dei Verdi e dei liberali, sommata alla rottura dell’egemonia del sistema bipartitico, apre uno spazio per la creazione di una nuova coalizione di governo dell’Europa, la cui prima conseguenza concreta si vedrà al momento della nomina della nuova Commissione europea, e ruoterà soprattutto attorno al tema di chi eserciterà la presidenza.

5. La Commissione avrà per la prima volta una presidente donna?

Tradizione vuole che i candidati del Ppe (Manfred Weber) e del S&D (Frans Timmermans) siano i principali favoriti per la prossima presidenza della Commissione, ma le cose sono cambiate nel momento in cui le due grandi formazioni hanno perso la maggioranza assoluta. Si sbagliava di grosso il tedesco Weber a pensare che, con la vittoria del Ppe, sarebbe automaticamente diventato il prossimo presidente della Commissione. Invece è successo che nell’Unione Europea si è aperta una vera e propria guerra di successione.

Mentre Timmermans, il candidato socialdemocratico, proponeva pubblicamente un’alleanza progressista per fermare i popolari, il leader socialista spagnolo Sánchez e il presidente francese Macron si sono incontrati a Parigi presumibilmente per concretizzare questa alleanza socioliberale tra socialisti, liberali e Verdi. Del resto, c’è chi lavorava a questo scopo già durante la campagna elettorale: basti ricordare la presenza del primo ministro portoghese Antonio Costa, socialista, alla chiusura della campagna elettorale per il «rinascimento europeo» che ha riunito a Strasburgo i principali partiti liberali a metà maggio. Sebbene il candidato di Macron sia sempre stato Michel Barnier, responsabile dei negoziati sulla Brexit, adesso sembra che possa essere Magrethe Vestager, l’attuale Commissario per la concorrenza, il profilo in grado di riscuotere maggior consenso come presidente della Commissione. Sarebbe la prima presidente donna. Così, la fine dell’egemonia delle due grandi famiglie politiche europee culminerebbe con un’investitura alla Borgen [è il titolo di una serie televisiva danese incentrata sulla storia di un primo ministro che arriva al potere a capo di una coalizione impossibile].

Il ruolo di Sánchez in questa partita non è secondario. Al contrario va ricordato che il gruppo del Psoe spagnolo è il più numeroso tra i socialisti al Parlamento europeo, e la Spagna è forse il paese più importante governato dai socialisti in Europa. Per tutte queste ragioni il peso del primo ministro spagnolo è decisivo nell’alleanza che si sta formando con i liberali, e la sua visita a Parigi lo certifica. Il messaggio è chiaro, e si riassume con il progetto di un’alleanza politica larga che vada da Macron a Tsipras. L’obiettivo è riorganizzare una nuova grande coalizione che non solo non produca alcun cambiamento rispetto all’austerity neoliberista e alle politiche securitarie prevalenti nell’Ue, ma che dia a Sánchez un peso rilevante nella distribuzione delle posizioni più importanti della prossima Commissione. Questa alleanza europea avrà sicuramente effetti di ritorno anche sulla politica spagnola, che dopo la sbornia elettorale è adesso immersa fino al collo nel dibattito sulla formazione del governo. L’alleanza con i liberali in Europa può essere un percorso da ripetere in molte comunità, consigli comunali e forse, chissà, anche nel governo centrale.

6. La Germania vince sempre

Uno dei migliori centravanti degli anni Ottanta, Gary Lineker, definì il calcio come «uno sport inventato dagli inglesi dove si gioca undici contro undici e vince sempre la Germania». L’Ue somiglia molto a questa metafora calcistica, soprattutto nella parte in cui «vince sempre la Germania». La domanda da farsi allora è: cosa può guadagnarci la Germania dalla sconfitta di Weber come candidato alla Commissione europea?

Per capire quale sia stata la vera mossa di Angela Merkel dobbiamo tornare a un anno fa, al momento dell’elezione di Luis de Guindos alla vicepresidenza della Banca Centrale Europea (Bce). La decisione era parte di una strategia molto più complessa e importante che dare una poltrona a un amico dell’alleato Mariano Rajoy, ma rappresentava una rete di interessi che va al di là, e anche al di fuori, delle istituzioni e che di fatto costituisce il vero governo dell’Europa. Con questa nomina, infatti, Merkel ha spianato la strada al candidato tedesco Jens Weidmann, attuale presidente della Bundesbank, conosciuto come falco neoliberista, per essere eletto alla presidenza della Bce. L’istituzione rappresenta un nodo cruciale della governance neoliberista dell’Ue. Probabilmente, per effetto dei programmi di quantitative easing, la Bce è diventata l’istituzione europea più importante e più potente in Europa, trincerata dietro la sua presunta autonomia. Ancor di più se si considera lo scenario di una possibile recessione economica in Germania.

La candidatura di Weber alla Commissione Europea da parte del Ppe era il risultato del difficile equilibrio tedesco tra la coalizione dell’Unione Cristiano Democratica (Cdu), di cui fa parte Merkel, e l’Unione Cristiano Sociale di Baviera (Csu), da cui viene Weber. La candidatura di Weber alla presidenza della Commissione ha pacificato l’alleanza cristiano-democratica in Germania, ma ha allontanato Weidman dalla presidenza della Bce. La scelta non è stata priva di controversie, perfino con Merkel stessa e con il suo governo. Nel bel mezzo della campagna elettorale europea, per esempio, Weber ha promesso che se fosse stato eletto presidente della Commissione avrebbe fermato il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2, un progetto controverso sostenuto dalla cancelliera tedesca nonostante l’opposizione di diversi altri stati membri. Ora, la sconfitta più che possibile di Weber riaprirà le possibilità che la Germania ottenga la presidenza della Bce. Insomma, siamo di fronte all’ennesimo esempio di scambio di poltrone che avviene a porte chiuse e senza alcun controllo democratico. Una prova ulteriore del fatto che nell’Ue opera un governo ombra.

7. Le tensioni all’interno Gruppo Popolare

La candidatura di Weber ha approfondito le contraddizioni all’interno del Ppe, provocando malumori sia nell’ala più moderata, che ha criticato le sue dichiarazioni xenofobe, sia nell’ala più vicina all’estrema destra, guidata da Fidesz di Viktor Orbán, che ha direttamente ritirato il suo sostegno a Weber. Forse è proprio questo conflitto aperto con Fidez che preoccupa di più all’interno del Ppe; e a ragione, visto che il partito di Orbán è il secondo con più deputati nel gruppo dopo i tedeschi. In queste elezioni, peraltro, ha ottenuto il 52% dei voti e un seggio in più rispetto alle elezioni del 2014.

Dal marzo scorso Fidesz è stato sospeso dagli organi decisionali del Ppe, con una manovra elettorale che ha cercato di dare l’impressione di una linea dura del gruppo contro i continui attacchi allo stato di diritto perpetrati dal governo Orbán in Ungheria, ma che di fatto mantiene il partito dentro la famiglia popolare. Il Ppe ha il difficile compito di isolare Fidesz per cercare di ottenere il sostegno dei liberali alla candidatura di Weber, correndo il rischio che Orbán finisca per scegliere di aggregarsi a Salvini e Le Pen in un nuovo gruppo che riunisca l’estrema destra europea, e che indebolirebbe ulteriormente i popolari.

8. L’estrema destra non ha i numeri ma continua a crescere

L’estrema destra europea ha ottenuto un risultato agrodolce il 26 maggio. Da un lato, hanno aumentato la loro rappresentanza a quasi il 25% del Parlamento europeo, ma dall’altro sono rimasti senza i numeri per formare quell’agognato blocco che avrebbe permesso loro di contare nelle decisioni dell’Unione. Bruxelles ha festeggiato, ma una lettura più attenta del risultato dell’estrema destra suggerisce che non c’è nulla di cui giorie e che, anzi, c’è molto di cui preoccuparsi.

In primo luogo, i partiti di estrema destra sono risultati i più votati in tre dei quattro paesi più forti e che hanno il maggior numero di seggi nell’Unione: Francia, Italia e Regno Unito, che continuerà ad avere rappresentanti al parlamento europeo fino al completamento della Brexit. Allo stesso tempo, i risultati dell’estrema destra continuano a crescere in tutto il continente, conseguendo per la prima volta dei seggi anche in quei paesi, come la Spagna, che non avevano mai eletto rappresentanti di estrema destra. A livello nazionale, i risultati sono sempre più impressionanti, con cifre riconoscibili dai media e con organizzazioni sempre più radicate sul territorio.

Oltre ai paesi più importanti (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) dove l’estrema destra ottiene risultati eccezionali, è importante ricordare anche i dati dell’area di Visegrad: in Polonia Diritto e giustizia (PiS) è cresciuto di 7 seggi raccogliendo il 45,3% dei voti, mentre come abbiamo ricordato Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria è cresciuto di un seggio e continua a raccogliere oltre il 50% dei consensi, tre volte di più del partito sfidante. È importante sottolineare, inoltre, che anche alle elezioni regionali in Belgio, svoltesi in parallelo alle europee, l’ultra-destra fiamminga del Vlaams Belang ha triplicato i suoi voti e si è posizionata come seconda forza del Paese.

Il vero grande problema dell’estrema destra europea è ancora il fatto di essere dispersa in vari gruppi parlamentari. Nel corso della campagna elettorale, Matteo Salvini si è sforzato di corteggiare la costellazione dell’estrema destra europea, accompagnando Orbán attraverso i confini dell’Ungheria o dimostrando la sua forza con una manifestazione a Milano dove ha riunito la maggioranza dei leader dell’estrema destra. Ma tutto lascia pensare che l’atomizzazione dell’estrema destra europea continuerà almeno fino a quando non verrà sciolto il nodo della Brexit e non si capirà che tipo di riconfigurazione questo comporterà nei gruppi politici del Parlamento europeo.

9. Ancora una volta Brexit

La Brexit continua a plasmare il presente e il futuro della politica comunitaria. La Gran Bretagna ha partecipato alle elezioni europee all’ultimo minuto con una nuova proroga che ha mandato gambe all’aria il primo ministro conservatore Theresa May e, in una certa misura, il sistema politico più stabile del continente. Di fatto, le elezioni europee sono state viste come un referendum sulla possibilità di indire un secondo referendum sulla Brexit. E ancora una volta il vincitore è stato Nigel Farage, che in soli due mesi ha creato un nuovo partito, il Brexit Party, ed è stato incoronato vincitore delle elezioni con il 32% dei voti, cinque seggi in più rispetto a quelli ottenuti dall’Ukip nel 2014. I conservatori britannici hanno ottenuto soltanto l’8,9%, e il Labour il 13,7%, sorpassato da Verdi e liberali. Un altro esempio della decomposizione dei campi politici tradizionali nel Regno Unito. Questo risultato, sommato alla crisi delle istituzioni e del governo che la Gran Bretagna sta vivendo, suggerisce che, lungi dal vedere l’uscita del tunnel del Brexit, sembra di entrare in un labirinto che continuerà a essere al centro di tensioni permanenti nell’Ue.

10. I Fridays for future e l’impulso elettorale dei Verdi

Il venerdì prima delle elezioni europee, il movimento Fridays for Future ha indetto un nuovo sciopero studentesco in più di 1.600 città di tutta Europa per portare nel dibattito della campagna elettorale il suo messaggio sull’emergenza climatica. Il movimento lanciato da Greta Thunberg, una ragazza di 16 anni che ha iniziato a protestare contro il cambiamento climatico ogni venerdì, da sola, davanti al Parlamento svedese, è diventato in pochi mesi uno dei principali attori di mobilitazione del movimento ambientalista. In paesi come la Svezia, la Germania, l’Austria, il Belgio, la Francia o la Svizzera, gli scioperi e le proteste del venerdì sono stati massicci e sono durati mesi, raccogliendo in alcuni casi successi senza precedenti.

L’analisi dei risultati elettorali ci permette di vedere come nei paesi più importanti dell’Ue, proprio dove si svolgono le mobilitazioni di Fridays for future, una parte significativa dei cittadini, fondamentalmente i più giovani, ha voluto mettere in primo piano nell’agenda politica la questione del cambiamento climatico, prima di altre questioni che vengono generalmente considerate come più mobilitanti, come le migrazioni o la sicurezza. Tutto ciò ha dato un impulso significativo ai Verdi, che sono passati da 50 a circa 70 seggi nel Parlamento europeo. In Germania sono stati la seconda forza politica più votata, raggiungendo il 20,5% dei consensi, più dei socialdemocratici. In Francia, dove hanno ottenuto 12 deputati, si collocano al terzo posto, sette posizioni più sù rispetto a cinque anni fa. In Belgio hanno ottenuto 3 rappresentanti e il 15% dei voti.

Alla luce di questi risultati, se la mobilitazione dei Fridays for future saprà resistere alla pausa estiva ha tutte le carte in regola per far sì che la lotta contro il cambiamento climatico e per un nuovo modello energetico diventi una volta per tutte il grande tema della prossima legislatura europea.

Quo Vadis? A Sinistra

I cattivi risultati di Unidas podemos nello Stato spagnolo non rappresentano un’eccezione in Europa, purtroppo. Anzi, sembrano piuttosto la regola di queste elezioni europee in cui il grande sconfitto è stata la sinistra, che ha perso ben 14 deputati. La sinistra è stata per lo più incapace di articolare una strategia realmente alternativa rispetto al social-liberismo e, a volte, è caduta nelle trappole dei discorsi anti-immigrazione. Con l’eccezione del Bloco de Esquerda portoghese, che ha registrato una notevole ascesa grazie in larga misura a una posizione chiara nei confronti del governo socialista di Lisbona e a una campagna elettorale che ha evidenziato la questione dell’urgenza climatica e della difesa dei diritti sociali minacciati da Bruxelles.

L’apertura di un nuovo ciclo istituzionale nell’Unione europea dovrebbe servire per avviare una profonda analisi dello stato delle sinistre europee. Per avviare un dibattito strategico essenziale. Le nuove alleanze che si preannunciano parlano di una ricomposizione del blocco social-liberale con verdi, liberali e socialisti, che riaffermerà l’implacabile governance del Bruxelles consensus. La risposta a questo fronte di governo dell’Ue sarà la prima sfida della legislatura per una sinistra che deve uscire dal lutto per i risultati ottenuti il più presto possibile. Forse la seconda sfida da affrontare sarà invece come fare politica essendo il gruppo più minoritario del Parlamento europeo, ma questo dovrebbe aiutare la sinistra a volgere lo sguardo non tanto alla politica parlamentare ma ai movimenti sociali emergenti e alle classi popolari, con l’obiettivo di ritrovare una connessione.

Quando l’austerità diventa l’unica opzione politico-economica per istituzioni lontane dagli interessi dei cittadini, l’Ue (questa Ue attualmente esistente) diventa un problema per le maggioranze sociali. Costruire un’Europa diversa appare come l’unica soluzione alla deriva che stiamo vivendo. E il fatto è che l’integrazione neoliberista europea, anche al di là della zona euro, ha raggiunto un punto che non può essere invertito senza un cambiamento sostanziale nei rapporti di forza a livello europeo, che attualmente è fuori dall’orizzonte. Il ruolo della sinistra europea deve essere innanzitutto ripensarsi su scala europea.

*Miguel Urbán è parlamentare europeo di Podemos, di cui è tra i fondatori. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com e su Vientosur.info. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.

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