Alle origini del capitalismo
Jairus Banaji ricostruisce la genealogia del modello di produzione basandosi sulla sfera commerciale. È una prospettiva che ci aiuta a capire meglio la globalizzazione e che ci mette al riparo da modelli semplicistici e unilineari
Il libro di Jairus Banaji A Brief History of Commercial Capitalism, pubblicato per la prima volta nel 2020, si propone di scoprire le profonde radici storiche dello sviluppo capitalista. Il libro tocca importanti dibattiti teorici, soprattutto all’interno della tradizione marxista, sulle origini del capitalismo.
Il lavoro di Banaji mette in discussione diverse narrazioni radicate sulla storia economica globale, tra cui la visione di un Medioevo economicamente regressivo e l’idea di una transizione lineare verso la modernità. Le immagini che Banaji tratteggia attraverso una serie mozzafiato di casi esemplari da tutto il mondo che abbracciano quasi un millennio, sollevano molte questioni fondamentali per chiunque voglia capire come è nato il sistema economico mondiale e come potrebbe continuare a svilupparsi in futuro.
A Brief History of Commercial Capitalism ha già avuto un grande impatto nel mondo della ricerca e ha attirato molte risposte dai colleghi storici di Banaji. Ma dovrebbe essere di grande interesse anche per i non specialisti. In questo testo, prima di analizzare la discussione che il libro ha provocato, farò un breve riassunto del background intellettuale di Banaji e degli argomenti chiave che attraversa.
Capitalismo commerciale
Jairus Banaji è nato a Poona nel 1947, l’anno in cui l’India ha ottenuto l’indipendenza, e ha studiato in Inghilterra prima di tornare nel suo paese natale per diventare un attivista politico. Da accademico, Banaji è uno storico del Mediterraneo e del Medio Oriente tardoantico e medievale i cui interessi risiedono anche nella lunga storia del capitalismo. Il suo lavoro tocca una varietà di argomenti, tra cui il destino dei contadini nel contesto di un’economia in rapida globalizzazione e la storia dell’economia mercantile nell’ultimo millennio.
L’obiettivo principale di Banaji in A Brief History è ricentrare il concetto di capitalismo commerciale come categoria chiave per indagare la formazione della moderna economia globale. Nel suo lavoro, questo termine è usato per descrivere un sistema economico orientato al profitto in cui i commercianti impiegano il loro capitale non solo per far circolare le merci, ma anche per ottenere il controllo diretto sulla produzione e quindi subordinarla ai loro interessi.
L’enfasi di Banaji sul controllo mercantile sulla produzione è un attacco frontale alla tradizionale dicotomia marxista tra il mondo del commercio (la «sfera della circolazione») e quello della produzione, dicotomia che ha portato economisti e storici marxisti come Maurice Dobb a considerare il concetto stesso di capitalismo commerciale come una contraddizione in termini.
Come sottolinea Banaji, sono stati in gran parte gli storici che hanno lavorato al di fuori della tradizione marxista, o che si sono accostati a essa con un approccio più libero, ad adottare la categoria. Il caso più notevole è quello di Fernand Braudel, che sostenne che il capitalismo commerciale era il termine più utile per descrivere la natura della produzione e degli scambi mercantili in Europa e nel Mediterraneo tra il XV e il XVIII secolo.
A Brief History è l’ultimo di una serie di volumi che affrontano questi temi, dopo Agrarian Change in Late Antiquity (2001), Theory as History (2010) e Exploring the Economy of Late Antiquity (2016). Banaji scrive dall’interno della tradizione accademica marxista, ma i suoi punti di riferimento chiave nella galassia marxista differiscono da quelli della maggior parte degli storici marxisti occidentali. In particolare, Banaji attinge al lavoro di tre studiosi russi del primo Novecento: lo storico Mikhail N. Pokrovsky (1868-1932), l’economista Yevgeni A. Preobrazhensky (1886-1937) e l’economista agrario Alexander V. Chayanov (1888-1939).
Pokrovsky, Preobrazhensky, Chayanov
Mikhail N. Pokrovsky è stato uno degli intellettuali più influenti nella società sovietica degli anni Venti. Godeva di un enorme, anzi ineguagliabile, prestigio tra gli storici sovietici del suo tempo. In una radicale presa di distanza da quello che sarebbe diventata la vulgata marxista ortodossa sotto Joseph Stalin, l’interpretazione di Pokrovsky della storia russa enfatizzava la centralità del capitale commerciale come agente del cambiamento socioeconomico tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo. Tuttavia, affermava esplicitamente che l’esistenza e il funzionamento del capitale commerciale non significava che fosse nata un’economia capitalista.
Yevgeni A. Preobrazenskij fu uno studioso pioniere delle conseguenze della «penetrazione laterale» del capitale industriale nelle campagne. Come Pokrovsky prima di lui, Preobrazhensky vedeva la piccola produzione di merci come tipica del capitalismo commerciale, pur essendo uno dei principali vincoli alla sua ulteriore espansione. In linea con i marxisti agrari come Lev N. Kritsman, Preobrazhensky vedeva quindi il capitalismo come una forza che sradicava i contadini e alla fine ne determinava la fine.
Crede che ciò sia accaduto a seguito di due processi. Da un lato, vi fu lo sviluppo interno dei rapporti capitalistici nelle file stesse dei contadini, con la formazione di una classe di contadini ricchi che controllavano la grande agricoltura. Dall’altra parte, in modo più radicale e catastrofico, vi fu la subordinazione esterna delle aree rurali alla grande industria, con la creazione di una classe di contadini senza terra che lavoravano nell’agricoltura da salariati.
Alexander V. Chayanov è stato uno dei maggiori economisti agrari della sua epoca. Nella sua opera The Theory of Peasant Economy, Chayanov ha sottolineato la resilienza delle famiglie contadine e la loro capacità di adattarsi in modo da poter resistere all’assalto del capitalismo, in diretto contrasto con i marxisti agrari e Preobrazenskij. Ha sostenuto che lo sviluppo delle tendenze capitaliste e la concentrazione produttiva in agricoltura non hanno necessariamente portato all’espropriazione dei contadini e all’ascesa di grandi aziende agricole capitaliste.
Per Chayanov, il capitale commerciale e finanziario potrebbe anche esercitare il suo controllo in modo più sottile stabilendo un’egemonia economica su settori considerevoli dell’agricoltura. Nel frattempo, quei settori potrebbero rimanere più o meno gli stessi di prima quando si trattava di produzione, cioè composti da piccole imprese contadine basate sul lavoro familiare.
Il lavoro di Banaji mostra che possiamo conciliare questi modelli apparentemente incompatibili. Ognuno descrive una diversa possibile traiettoria di penetrazione del capitale nelle campagne. Ma riflettono anche diverse fasi del percorso intellettuale di Banaji.
Nei suoi primi scritti, Banaji abbracciò l’idea di Preobrazenskij della penetrazione laterale del capitale per mostrare l’effetto distruttivo dell’industrializzazione sui contadini nella Russia di fine Ottocento e inizio Novecento. In quel contesto, il modello di Preobrazhensky è stato utile come punto di confronto per l’analisi di Banaji dei contadini di tutto il mondo. Negli studi successivi, tuttavia, Banaji giunse a considerare la ricostruzione di Preobrazenskij solo come una delle possibili vie di penetrazione del capitale industriale nelle campagne.
Fu influenzato in questa svolta da un rinnovato interesse per il lavoro di Chayanov, in particolare per le opere che Henry Bernstein in seguito sviluppò e ampliò. La concettualizzazione di Chayanov della relazione tra contadini e capitale è quindi al centro della scena come fonte primaria di ispirazione per A Brief History di Banaji.
Questa rivalutazione del lavoro di Chayanov porta Banaji a includere nel suo modello le circostanze storiche in cui le famiglie contadine hanno resistito alla penetrazione del capitalismo. Dobbiamo intendere tale «resilienza» nel senso che le famiglie contadine non sono state sradicate ma «incorporate», atto che a sua volta ha consentito il conflitto e la resistenza da parte di queste ultime. Mentre queste famiglie continuavano a esistere in gran numero, il loro ciclo di riproduzione sociale era ora in gran parte e in modo cruciale plasmato dal capitale.
Commercianti e manifatture
In A Brief History, a differenza dei suoi lavori precedenti, Banaji non è così interessato a tracciare una distinzione teorica tra ciò che Karl Marx chiamava «il modo di produzione capitalista» e le modalità non capitaliste. Invece, tratta il capitalismo in termini meno normativi, sostenendo in particolare che una sorta di «capitalismo commerciale» esisteva molto prima dell’industrializzazione in certe regioni del mondo, in un periodo che va dal XII secolo (o anche prima) al XVIII.
Sebbene Banaji non offra una definizione formale di capitalismo commerciale, possiamo coglierne il significato combinando l’analisi del libro con i suoi precedenti scritti teorici. Fernand Braudel vedeva il capitalismo come una rete globale di banchieri e grandi mercanti che presiedevano all’economia della vita quotidiana dai loro centri finanziari urbani, senza alcun controllo diretto sui produttori primari. Banaji, d’altro canto, identifica la lunga storia del capitalismo nei termini delle sue caratteristiche relazioni sociali.
Il capitalismo è un sistema in cui i detentori del capitale hanno un controllo limitato dei mezzi di produzione e quindi riducono il lavoro a un fattore all’interno del processo di produzione: una semplice merce che si può comprare e vendere. Il confronto tra un capitalista e un contadino o un artigiano – una persona che sopravvive vendendo il proprio lavoro – si trova al centro dell’analisi di Banaji.
Partendo da questa distinzione, si oppone alla diffusa visione marxista secondo cui la ricchezza mercantile non costituisce capitale in senso marxiano, perché rimane esterna al processo di produzione. Poiché la ricchezza mercantile è, secondo Marx, separata da quella che chiamava la sussunzione reale del lavoro al capitale, essa si limitava a scremare i prodotti dei produttori primari, e i mercanti realizzavano profitti vendendoli.
Da parte sua, Banaji sostiene che la ricchezza mercantile consiste effettivamente nel capitale, e che dal XII al XVIII secolo i mercanti usarono sistematicamente questo capitale per controllare e sfruttare il lavoro di una parte significativa della popolazione in tutto il continente afro-eurasiatico. Egli individua due ambiti della produzione in cui la penetrazione del capitale commerciale è stata particolarmente significativa.
Il primo era nel settore dell’agricoltura salariata, dove i «capitalisti commerciali» si appropriavano di grandi quantità di lavoro familiare non retribuito attraverso vari espedienti, imponendo così rapporti di debito ai contadini. I capitalisti commerciali erano proprietari terrieri che diventavano mercanti; a volte erano anche commercianti (inclusi prestatori di denaro) che si interessavano al controllo delle proprietà dei raccolti da reddito. Componevano una categoria fluttuante che è storicamente molto difficile da definire.
Nonostante le loro differenze, la base produttiva per la maggior parte dei commerci di prodotti era una forza lavoro mista. Questo è un punto che Banaji ha dimostrato nel suo esame dei piccoli contadini del Deccan alla fine del XIX secolo, e riceve ulteriore sostegno dal lavoro di Lorenzo Bondioli sui contadini egiziani dell’XI secolo.
Il secondo settore è quello della produzione artigianale, o «manifattura mercantile», come la chiama Banaji. In questo settore, i mercanti costringevano i poveri rurali e urbani a lavorare seta, lana e cotone per il mercato. Ciò significava che non stavano semplicemente vendendo il loro surplus, ma che lavoravano per i commercianti con «un compenso a cottimo».
Traiettorie di accumulazione
In A Brief History, Banaji analizza le «traiettorie dell’accumulazione» che portano dal capitalismo commerciale a quello industriale. Mentre i capitalisti mercantili livellano l’apertura dell’agricoltura – insieme all’estrazione mineraria, allo sfruttamento delle risorse marine, ecc. – allo sfruttamento capitalista, i capitalisti industriali portano questo processo a un livello completamente diverso. La semplice scala della subordinazione, la natura del suo impatto e il grado di sussunzione distinguono la sottomissione delle campagne all’accumulazione industriale dai cicli precedenti del «capitalismo».
Non solo Banaji vede una rapida intensificazione dei meccanismi di sfruttamento sotto il capitalismo industriale. Egli nota anche un cambiamento radicale nella ripartizione delle quote di profitto tra commercianti e industriali a vantaggio di questi ultimi. Alla fine dell’Ottocento, gli attori economici che controllano direttamente la produzione riescono così a emarginare i mercanti, realizzando la subordinazione del capitale commerciale al capitale industriale descritta da Marx.
Questo sembra essere l’indizio di una separazione duratura nella visione di Banaji tra l’era del capitalismo commerciale e quella del capitalismo industriale, un’era che merita pienamente l’etichetta di un modo di produzione capitalista. Tuttavia, queste traiettorie dal capitalismo commerciale a quello industriale sono state multilineari nel tempo e nello spazio. Non hanno seguito una rigida sequenza di tappe, e non sono state neppure irreversibili, come dimostrano le tendenze contemporanee.
I rivenditori globali che operano oggi sul mercato mondiale controllano la produzione attraverso i flussi di capitale commerciale senza possedere i mezzi di produzione. Come ha osservato Nelson Lichtenstein:
L’egemonia del commercio al dettaglio nel ventunesimo secolo riecheggia, persino replica, le caratteristiche del regime mercantile un tempo presieduto dai grandi mercanti e banchieri del diciassettesimo e diciottesimo secolo di Amsterdam, Amburgo e della City di Londra.
Insomma, una sorta di imprenditore braudeliano è «tornato a reggere il sistema globale contemporaneo».
L’analisi di Banaji del «capitalismo commerciale» può quindi contemplare diversi livelli e vari gradi di integrazione tra produzione e circolazione, indicando la forza motrice del capitale come denominatore comune che attraversa diverse configurazioni. Il modello risultante di capitalismo commerciale è uno sviluppo disomogeneo e combinato. Questo modello rifiuta la nozione di una successione lineare tra diversi modi di produzione – antico, feudale e capitalista – e mette al sicuro le storie del capitalismo sia dall’eurocentrismo che dall’orientalismo.
Prospettive critiche
Dalla sua pubblicazione nel 2020, A Brief History ha attirato l’attenzione di un’ampia e diversificata comunità di specialisti nel campo della storia del capitalismo, portando a molteplici revisioni del lavoro di Banaji. Mentre ogni autore ha espresso preoccupazioni diverse sui vari aspetti della sua visione del capitalismo, possiamo identificare tre grandi temi: (1) la definizione di capitalismo commerciale; (2) la relazione tra l’ascesa del capitalismo commerciale e lo stato; e (3) l’impatto del capitalismo commerciale e del colonialismo sulla vita sociale.
La prima critica nasce dalla vaga definizione di capitalismo commerciale data da Banaji. Lorenzo Bondioli osserva che le infrastrutture del capitalismo commerciale che Banaji ha identificato come apparse per la prima volta nel IX secolo d.C. hanno tutte radici più profonde di quanto suggerisca A Brief History. Le loro fondamenta furono gettate nel periodo tardo antico (occasionalmente con radici che risalgono all’antichità vera e propria), e continuarono a operare senza drammatiche discontinuità nel Medioevo.
Partendo da questa osservazione, Bondioli isola tre possibili definizioni di capitalismo e cerca di delineare tra di esse un rapporto non teleologico. In primo luogo, c’è il capitalismo dei mercanti capitalisti che impiegavano la ricchezza monetaria come capitale estraendo plusvalore da produttori variamente subordinati; secondo, c’è il capitalismo degli stati mercantili coloniali che mettono la violenza organizzata al servizio dell’accumulazione da parte dei mercanti capitalisti; terzo, c’è il capitalismo della moderna società capitalista industriale, in altre parole, di un modo di produzione capitalista a pieno titolo.
L’intervento statale nell’economia mondiale è il secondo criterio utilizzato da Banaji nella sua analisi del capitalismo commerciale. Banaji vede nella «collusione tra commercio e stato» – cioè, nell’ascesa degli stati mercantilisti nell’Europa tardo medievale e moderna – un cambiamento significativo nel processo di accumulazione del capitale e subordinazione del lavoro. Eppure possiamo osservare la «collusione» di per sé, e in particolare il coinvolgimento dei commercianti nelle finanze statali, in molti contesti storici.
Ciò suggerisce che, come dimostra chiaramente Martha Howell, non è stata la mera presenza di uno stato colluso con i mercanti a determinare un’accelerazione nella scala dell’accumulazione di capitale. Né è stato uno stato qualunque – come gli stati tributari musulmani o le dinastie cinesi esaminate da Andrew Liu – a determinare uno spostamento nella scala dell’accumulazione del capitale e della subordinazione del lavoro.
Piuttosto, lo stato fungeva da esportatore di aggressione e violenza a controllare tale spostamento. Quest’intuizione ricentra anche il legame chiave tra capitalismo commerciale e colonialismo, sottolineando che è stata la violenza coloniale a determinare un cambiamento nella qualità e nel funzionamento del capitale commerciale.
Con questo punto, passiamo al terzo elemento controverso che emerge dal racconto di Banaji: il rapporto tra capitalismo commerciale e colonialismo. Come osservano acutamente sia Priya Satya che Sheetal Chhabria, Banaji non separa la razza dalla classe o la casta dalla classe. Eppure queste distinzioni sono importanti, poiché ci consentono di individuare il punto in cui il capitalismo commerciale si è intersecato con il colonialismo e ha iniziato a dipendere dalla razzializzazione o dall’identità di casta.
Questa lacuna punta anche nella direzione di una critica più ampia. Nella sua analisi dei rapporti di produzione, Banaji non sempre chiarisce come il capitalismo commerciale abbia violentemente influenzato e ridefinito la vita sociale delle persone a esso subordinate. In altre parole, non resta che chiedersi fino a che punto il capitalismo commerciale, come lo descrive Banaji, abbia trasformato radicalmente, o non abbia trasformato, le modalità della vita sociale in luoghi e tempi diversi.
Questa questione potrebbe aprire una serie di promettenti percorsi di ricerca che sembrano puntare tutti in una direzione. Non possiamo scrivere la storia del capitalismo senza considerare l’intersezione di diversi meccanismi di oppressione come razza, genere, etnia e origine nazionale oltre alla classe sociale. Essi offrono un quadro più ricco di come «livelli separati di oppressione» hanno cambiato la vita della gente comune sotto il capitalismo.
*Paolo Tedesco insegna storia all’Università di Tubinga. I suoi principali interessi di ricerca includono la storia sociale ed economica della tarda antichità e dell’alto medioevo, la storia agraria comparata, la situazione dei contadini in diversi tipi di società e il materialismo storico. Questo testo, uscito su JacobinMag, è una versione ridotta dell’introduzione a un numero speciale della rivista Storica sull’opera di Jairus Banaji. La traduzione è a cura della redazione.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.