Altro che Autonomia. Va salvata la scuola pubblica
Mentre continua l'offensiva leghista sull'autonomia differenziata, il prossimo anno gli insegnanti precari diventeranno un quinto del totale. È il momento di sottrarsi ai continui ricatti per riprendere in mano il futuro dell'istruzione pubblica
Come riportano i dati Inps, da inizio settembre più di 40.000 insegnanti andranno in pensione grazie a “quota 100”. Bene, potrebbe commentare qualcuno, tutti contenti per il traguardo raggiunto e posti liberi per giovani docenti. Peccato, però, che nemmeno un euro sia stato stanziato per sostituirli. Nelle dichiarazioni entusiastiche del Ministro Bussetti sullo stato di avanzamento delle richieste di pensionamento, non vi è alcun accenno a chi e come dovrà prenderne il posto. Già, perché nella scuola pubblica, per quanto profondi siano i tagli e drastici gli accorpamenti, le classi si devono formare lo stesso e una riforma che destina fondi per prepensionare ha la necessità di investire per coprire quei ruoli vacanti con nuovi posti di ruolo.
Qui, però, interviene la collaudata “magia”: nessuna assunzione di ruolo – il settore evidentemente non è considerato strategico per il paese – ma si ricorrerà a docenti precari che, secondo i calcoli dei sindacati, il prossimo anno scolastico potrebbero arrivare a 170.000, un quinto del totale. Si tratta di contratti che incidono molto meno sul bilancio della stato ma che ingolfano un settore già allo stremo, con graduatorie di terza fascia esaurite da tempo e non ancora rinnovate, da sommare a concorsi promessi che, però, non servono a nulla se non si stabilizzano gli (oramai) storici vincitori.
A questo quadro si somma anche una riduzione di spesa per l’istruzione di 4 miliardi in tre anni, circa il 10%, prevista dalla manovra finanziaria e riportata già lo scorso dicembre da un articolo del Corriere della sera. Particolarmente colpite saranno le docenze di sostegno, con tagli complessivi di circa 1,5 miliardi. Si tratta di un settore meno noto e spesso bistrattato eppure emblema della funzione sociale e universale della scuola pubblica: tutelare i più deboli e svantaggiati mettendoli in condizione di non sentirsi esclusi, di recuperare e conseguire un’istruzione degna e in grado di assicurare indipendenza. Il diritto all’istruzione passa anche da queste intelaiature di supporto ma tagli così drastici rendono pressoché impossibile svolgere efficacemente il compito. Studenti e genitori, dunque, lasciati sempre più soli in un percorso formativo che in alcuni casi viene integrato o perfino sostituito da scuole private dove l’interesse è per alcuni fatturare, per altri proporsi come mediatori utili a fornire la manodopera richiesta dal mercato del lavoro.
A chiudere idealmente il cerchio è la discussione, in corso in queste settimane, sull’Autonomia regionale differenziata che ha nell’istruzione una delle partite decisive. La proposta di Lombardia e Veneto (le uniche Regioni insieme all’Emilia-Romagna ad avanzare una bozza ben delineata) ricalca il modello vigente in Trentino Alto Adige: assunzione degli insegnanti come dipendenti regionali, gestione autonoma dei concorsi, programmazione e indirizzo dell’offerta formativa delegati alle province, così come la disciplina degli organi collegiali e dei contratti. Il tutto miscelato a una gestione aziendalistica degli orari di lavoro che aumenterebbero, sommando attività “funzionali” e “provinciali”, ma rimanendo a completa disposizione dei dirigenti scolastici. Ora, senza entrare nel dettaglio della proposta in questione, il disegno complessivo portato avanti da queste Regioni è chiaro: visto che lo Stato non garantisce la sostenibilità si trasforma la scuola in un ente di servizio regionale, una sorta di azienda locale – di municipalizzata, forse – con lo scopo di rispondere alle esigenze della famiglia-utente svuotandola completamente, sia nelle strutture che nel personale docente, del suo ruolo autonomo ed esclusivamente formativo. Nonostante la bozza di intesa col Governo dello scorso 19 luglio sembri aver escluso l’istruzione, i presidenti leghisti Zaia e Fontana – spalleggiati dal ministro Bussetti e da altre Regioni per ora alla finestra – continuano a trattare: o le scuole rientrano nel piano o nessun accordo sull’autonomia differenziata verrà firmato.
Ma perché l’istruzione è così dirimente? Al netto dell’insopportabile retorica regionalista e anti-statalista, il controllo di questo settore fa gola in primo luogo per questioni di natura fiscale – come ben analizzato da Giovanna Caltanissetta e Danilo Corradi – ma anche sul piano dell’indirizzo formativo e della gestione del personale, da cui incassare presumibilmente un lauto conto politico e di consenso. Inoltre basta leggere uno studio sul “modello Trentino” datato 2004 per intuire il più ampio margine di convergenza con istituti privati che la riforma incentiverebbe. Tutti indizi che portano dritti verso irreversibili squilibri territoriali, formativi e salariali, con un Sud alle porte di un ennesimo saccheggio.
Questi non sono che i più recenti capitoli della storia di un paese che ha smesso da anni di considerare la formazione (scolastica ma anche universitaria) un settore irrinunciabile su cui investire, programmare e intorno a cui costruire le garanzie di futuro. Tornando, però, al tema decisivo del reclutamento degli insegnanti, non è necessario bazzicare le scuole per comprendere quanto sia grave e pericolosa, indecente e degradante la situazione: chiamate affannate dei presidi-manager per assumere chiunque sia disponibile (abilitato o meno); cattedre e classi diventate porte girevoli, con studenti che cambiano docenti ogni anno senza che venga assicurata alcuna continuità formativa; nessun percorso chiaro, nessuna stabilizzazione per non intaccare le finanziarie dei governi, impegnati a esaudire le diverse promesse elettorali – come la già citata “quota 100”, il finto reddito di cittadinanza, la prossima “flat tax”, lo “sblocca-cantieri” – senza alcuna coerenza e visione di medio-lungo periodo.
L’istruzione appare per larghi tratti sovrapponibile alla sanità: da capisaldi insostituibili dello stato sociale, baluardi di un welfare state al collasso, sono divenute spese da ridurre sempre di più, settori scomodi considerati colabrodi a cui mettere toppe sempre più grandi quanto fragili, nella speranza che reggano, che nessuno si rivolti e che, semmai, la bomba scoppi in mano al prossimo governo.
Inoltre, non diversamente dagli ospedali o dalle università (pensiamo ai dottorandi, agli assegnisti di ricerca e agli specializzandi in medicina), gli istituiti scolastici fungono da veri e propri laboratori neoliberali, dove concorrenza spietata, individualismo, precarietà, assenza di sostegno e tagli sistematici diventano la cifra utile a far tornare i bilanci. Come se la formazione – insieme al delicato compito degli uomini e delle donne che la animano – potesse essere trattata alla stregua di una qualsiasi merce. Meccanismo arrivato a toccare lo stesso corpo studentesco con l’alternanza scuola-lavoro, palestra di lavoro gratuito e dequalificato.
È una strada che, per come si sta delineando, non può che portare al disastro: in primo luogo alla costante perdita di legittimità degli e delle insegnanti e del ruolo autonomo della scuola pubblica nella delicata architettura sociale e di massa costruita dal dopoguerra. Uno sfaldamento sotto gli occhi di tutti, già in atto da tempo ma che non produce (ancora) moti di indignazione collettiva, scioperi, manifestazioni, rivendicazioni che vadano oltre la mera sfera individuale, di chi è disposto ogni anno a “mettersi a disposizione” pur di inseguire il sogno di insegnare. Si rimane per lo più alla porta, in attesa che qualche briciola venga elargita, di un’occasione da cogliere al volo, di un agognato concorso, di una supplenza più lunga possibile. Nel frattempo si infoltiscono i curricula di costosissimi corsi e master per fare punteggio e, manco a dirlo, si arrotonda con qualche lezione privata.
“Riprendersi” le scuole, allora, significa provare a tradurre questi sogni, queste speranze, questi desideri in trame collettive, in pratiche comuni, originali e radicali di rivendicazione. Significa proporre forme diffuse di indisponibilità, sottraendosi ai ricatti strutturali e rilanciando, allo stesso tempo, il carattere pubblico e autonomo dell’istruzione contro ogni logica liberista. Solo coniugando e tenendo stretti questi due piani in un unico orizzonte di lotta, si potrà sfidare, con Mark Fischer, l'”impotenza riflessiva” nel realismo capitalista. Ovvero, sfidare la sensazione che non ci sia nulla da fare è anche qui, nella giungla dell’insegnamento, un compito tanto complesso quanto necessario; un’opportunità per coinvolgere tante e tanti per riprendere in mano il futuro e difendere l’istruzione pubblica e di qualità.
*Emanuele De Luca, PhD in Storia contemporanea. Ricercatore e insegnante precario, vive a La Spezia. Ha studiato e vissuto a Pisa, Trieste, Valencia. Collabora con quotidiani, riviste, centri culturali.
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