
«Always do the Right Thing»
Compie trent'anni dall'uscita nelle sale il celebre film di Spike Lee "Fa' la cosa giusta". La narrazione dello stato di emarginazione sociale ed economica su base razziale nelle periferie statunitensi rende la pellicola ancora attuale
Da Mayor: Doctor.
Mookie: What?
Da Mayor: Always do the right thing.
Mookie: That’s it?
Da Mayor: That’s it.
Mookie: I got it, I’m gone.
(Dialogo tra Il Sindaco e Mookie in Do the Right Thing, 1989)
È l’estate del 1988, e nello stato di New York la temperatura ha raggiunto i 90° Fahrenheit. Nella prima pagina del New York Times del 9 agosto, il giornalista Steven Erlanger indaga nel suo articolo “Yes, It’s Hotter, It’s Muggier, And, Yes, You’re Going Crazy” (“Sì, è [l’estate] più calda, più soffocante e, sì, state impazzendo”) se vi sia una correlazione tra l’incremento delle temperature e la violenza urbana. Secondo Albert Mehrabian, professore di psicologia e intervistato da Erlanger, l’impatto delle alte temperature sui residenti delle zone più povere delle città non fa altro che produrre «rabbia, frustrazione, ansietà e aggressività», sentimenti che, nelle ore meno calde, sfociano in una «eccitazione» irrefrenabile che spiegherebbe l’aumento dei crimini. In linea con le ipotesi di Mehrabian, la polizia è dell’avviso che vi sia una correlazione tra il caldo estivo e l’aumento dell’aggressività degli abitanti delle inner cities, e il rimedio è gestirla seguendo una teoria molto simile – prosegue il giornalista – a quella di «Alexis de Tocqueville sulla Rivoluzione Francese»: mentre per il diplomatico francese le aspettative rivoluzionarie degli oppressi sfociano in rivolta soltanto quando il giogo dell’oppressione si allenta, per il dipartimento di polizia di New York i crimini e le rivolte urbane si manifestano soltanto durante «la prima notte di frescura», quando l’intorpidimento provocato dalle alte temperature lascia spazio all’aggressività delle classi più svantaggiate delle inner cities. È quello, quindi, il momento in cui la presenza della polizia in città deve essere massiccia.
Il caldo torrido dell’estate di quell’anno e gli attriti tra comunità e la polizia, fanno da cornice narrativa a Do the Right Thing di Spike Lee, che celebra quest’anno i trent’anni dall’uscita nelle sale statunitensi. Girato interamente nel quartiere di Brooklyn Bedford-Stuyevesant – soprannominato Bed-Stuy – il film offre agli spettatori uno spaccato della società statunitense, proiettando sullo schermo le dinamiche derivanti dalla condivisione degli spazi urbani da parte delle diverse minoranze etniche e dai bianchi americani. Ma non è soltanto questo. La pellicola, infatti, è il tentativo di analizzare approfonditamente lo stato di emarginazione sociale ed economica su base etnica delle masse proletarie che abitano le periferie statunitensi, e ciò viene fatto da Lee attraverso una narrazione che cerca sia un rapporto di continuità con la storia afroamericana della seconda metà del Novecento, sia di mostrare quegli elementi di sfruttamento, violenza e alienazione sociale che rendono Do the Right Thing ancora attuale. Per farlo, il regista decide di rendere il quartiere di Bed-Stuy un microcosmo attraverso cui mostrare il difficile rapporto tra minoranze, spazio urbano, black history e questione lavorativa, posizionandovi all’interno ogni personaggio come rappresentante di una singola realtà sociale che, unendosi agli altri, costruisce il complesso quadro delle periferie povere delle città americane.
Di per sé, la trama è tanto semplice quanto passibile di letture differenti: è il sabato più caldo dell’anno, e il disc-jockey dell’emittente radio del quartiere, Mr. Señor Love Daddy (Samuel L. Jackson), sveglia i residenti invitandoli a non fare tardi a lavoro: «Non vogliamo che qualcuno perda il posto. Nessuno ha già il becco di un quattrino, e se perderete il posto sarà ancora peggio!». Mookie (Spike Lee), fattorino della pizzeria Sal’s Famous Pizzeria di proprietà di Sal (Danny Aiello), gestita insieme ai figli Vito (Richard Edson) e Pino (John Turturro), è il protagonista del film. Mookie vive il supplizio di rappresentare l’unico e vero tramite culturale tra la comunità nera, i proprietari italoamericani di uno dei due esercizi commerciali della zona – l’altro è un supermarket gestito da una famiglia di coreani immigrati di prima generazione – e la comunità portoricana, di cui fa parte la madre del figlio del protagonista, Tina (Rosie Perez). Quasi fin dall’inizio del film, Lee sceglie di alternare momenti di calma apparente con alcune scene che lasciano trapelare la continua tensione tra i soggetti che animano le comunità: c’è l’astio tra gli afroamericani e i titolari della pizzeria, accusati di «passars[ela] bene» economicamente; si prefigura l’attrito tra gli italoamericani e la comunità nera, sussunta dalla figura di Pino che attribuisce a Mookie gli stereotipi parte di quella cultura razzista che ha pervaso l’immaginario statunitense a partire dall’eugenetica di fine Ottocento fino ai brand commerciali della prima metà del Novecento.
Il personaggio interpretato da Spike Lee viene infatti accusato di essere pigro e di essere un approfittatore; c’è poi anche il rancore tra gli afroamericani del quartiere e i coreani propietari del supermarket, questi ultimi accusati di guadagnare vendendo alla comunità articoli non statunitensi – cosa che lascia intendere, in qualche modo, che vi sia un rapporto indissolubile tra l’essere americano e la vendita/acquisto della merce dei grandi brand statunitensi. Questi sono alcuni dei tanti scontri su base etnica ed economica che fanno da cornice alla narrazione della pellicola.
Come suggerito dal già citato articolo Erlanger – che peraltro viene mostrato nel film tra i titoli dei tanti quotidiani esposti dall’edicola del quartiere – vi è la percezione nella pellicola che sussista un rapporto di continuità tra il fattore climatico e il crescente stato di frustrazione dei personaggi, i quali, come mostrato alla fine di Do The Right Thing, esploderanno in una rabbia incontrollata alla fine della giornata. A scatenare una serie di situazioni irreversibili e che producono una escalation di aggressività da parte dei membri di ogni comunità, è un battibecco tra Sal e Buggin’Out (Giancarlo Esposito), quest’ultimo cliente abituale della pizzeria: Buggin’Out accusa il proprietario di essere razzista poiché, tra le decine di foto appese al muro del locale, una vera e propria Wall of Fame di attori, cantanti e personaggi dello spettacolo italoamericani e italiani, non vi è neanche una di un «fratello» – nonostante i soli clienti dell’esercizio commerciale siano effettivamente afroamericani. L’apparente calma di Sal, che durante la pellicola lascia trapelare un atteggiamento di paternalismo nei confronti della comunità nera e di ricerca della loro benevolenza, cede il passo alla rabbia e alla scelta di chiedere a Mookey di cacciare fuori dal locale Buggin’Out. A quella intolleranza etnica, alimentata dalla decisione di Buggin’Out di «boicottare Sal», vi si aggiunge lo scontro tra il proprietario della pizzeria e Radio Raheem (Bill Nunn), un ragazzo afroamericano che rifiuta di spegnere uno stereo portatile da cui non si separa e che intona a tutto volume una e una sola traccia musicale: Fight the Power dei Public Enemy. L’ambientazione si complica, il boicottaggio di Buggin’Out non riesce a far leva sulla comunità se non su Radio Raheem e Smiley (Roger Guenveur Smith), un uomo affetto da un ritardo mentale e da balbuzie e che per tutto il film cerca di vendere una foto di Martin Luther King, Jr e Malcolm. A ora di chiusura del locale, i tre entrano nella pizzeria intimando a Sal di appendere sul muro una foto di un esponente della comunità nera, mentre Fight the Power dei Public Enemy trasmessa dalla radio di Radio Raheem sovrasta le voci della famiglia di italoamericani, degli ultimi clienti della pizzeria e di Mookie, apparentemente diviso tra il cercare di sedare la rabbia dei boicottatori e quella di Sal, che nel frattempo ha iniziato a gridare epiteti razzisti. Incapace di reggere la tensione, il proprietario di Sal’s Famous Pizzeria decide di fracassare lo stereo con una mazza da baseball, mettendo fine per pochi secondi alle urla dei personaggi precedentemente citati.
Radio Raheem afferra Sal, inizia uno scontro fisico che continua fuori dal locale: la folla si accalca nel luogo dello scontro, una volante della polizia arriva, un poliziotto avvolge il collo di Radio Raheem con il manganello e finisce con il provocarne la morte per soffocamento. Solo allora Mookie decide di spogliarsi del ruolo di mediatore tra le diverse comunità, e lo fa raccogliendo un bidone della spazzatura, togliendone il contenuto e scagliandolo su una delle vetrine della pizzeria. In preda all’isteria collettiva, la folla distrugge qualsiasi cosa vi sia all’interno di quella pizzeria che per più di vent’anni aveva contribuito a costruire l’identità multietnica del quartiere. Il locale viene dato alle fiamme da Smiley, le volanti della polizia iniziano a circondare la zona mentre la folla, con un linguaggio che ricorda molto il «burn baby burn!» dei riots della metà degli anni Sessanta, si divide tra chi grida «burn it down!» e chi strilla «porci!» ai poliziotti. La pizzeria è distrutta del tutto, Fight the Power dei Public Enemy sovrasta le urla generali e, finalmente, uno Smiley visibilmente felice, riesce ad affiggere sulla Wall of fame – l’oggetto della discordia – la foto che ritrae Martin Luther King, Jr e Malcolm X intenti a stringersi la mano in occasione di una conferenza stampa al Senato degli Stati Uniti circa la legge per i diritti civili. Lee consciamente mette in mostra la distruzione del quartiere multietnico, producendo una amara antitesi al significato del murale “Bed-Stuy – Do or Die” che il regista aveva fatto disegnare di fronte alla Sal’s Famous Pizzeria in occasione delle riprese: cinque sezioni, ognuna occupata da una bandiera diversa (statunitense, jamaicana, portoricana, panafricana e nuovamente statunitense) a simboleggiare la natura etnicamente eterogenea e utopicamente armoniosa del quartiere di Bed-Stuy.
La mattina seguente, come se nulla fosse successo, Mookie ritorna da Sal – seduto sulle ceneri del proprio negozio – a chiedere il salario settimanale di 250$. Mookie si allontana da Sal in uno scenario di palese normalità, che nulla ha più a che fare con i momenti di tensione registratisi meno di ventiquattro ore prima, durante la «più calda giornata dell’anno». Lee sceglie di terminare il film con due citazioni prima dei titoli di coda: la prima è di Martin Luther King, Jr, e risale al 17 luglio del 1959, quando il pastore luterano condannò alcuni commenti violenti dei membri della National Association for the Advancement of Colored People di cui faceva parte, sostenendo che «la violenza come mezzo per raggiungere la giustizia razziale è sia impraticabile, sia immorale»; la seconda, di Malcolm X, è uno stralcio di un discorso dell’ex membro della Nation of Islam fatto ai Peace Corps volontari il 12 dicembre 1964, in cui sosteneva l’uso dell’autodifesa per contrastare la violenza: «Io non la chiamo neanche violenza quando è auto-difesa, io la chiamo intelligenza». La tensione continua tra gruppi etnici alla base della narrazione di Do the Right Thing, può essere quindi vista attraverso la decisione di Lee di rendere il rapporto dialettico tra nonviolenza e autodifesa, ma anche tra integrazione e separazione come apparentemente irrisolvibile, incapace di sintesi.
Come sottolineato dal filosofo marxista Douglass Kellner, è inevitabile non vedere nella narrazione di Do the Right Thing il tentativo di insistere sulle dinamiche legate alla race e all’identità culturale che da essa ne deriva, rispetto all’identità di classe dei protagonisti della pellicola. È anche evidente come anche la questione di genere sia importante per comprendere lo svolgimento della narrazione, in cui viene associato il ruolo del breadwinner all’uomo – e quindi, chi non porta il pane a casa e non si prende le proprie responsabilità non è un vero uomo – e alla donna quasi sempre quello della crescita dei figli, o comunque qualsiasi compito relegato allo spazio domestico. Tuttavia, come si è detto, vi sono una serie di questioni da indagare relative allo stato di subalternità economica degli afroamericani, di emarginazione sociale, del difficile rapporto tra piena occupazione e minoranze, all’autodeterminazione politica di una comunità ghettizzata, così come quella relativa alla gentrification dei quartieri neri ad opera dei whites americani.
La difficoltà a cogliere tali dinamiche dal film deriva dalla decisione di Spike Lee di concentrare l’attenzione dello spettatore verso i dilemmi della integrazione etnica, allontanando quasi del tutto gli elementi che palesano il degrado urbano a cui le minoranze sono sottoposte nelle inner cities americani – è il caso, per esempio, della scelta di Lee di non inserire nella trama la questione della droga che nei ghetti stava uccidendo centinaia di afroamericani, e lo fa allontanando dal set gli spacciatori di Bed-Stuy con l’aiuto dei membri della Nation of Islam, e riqualificando gli abitati del quartiere. In qualche modo, però, le dinamiche relative alla subalternità delle minoranze permangono.
È innanzitutto evidente che vi sia in Do the Right Thing la volontà di porre un legame diretto con l’eredità storica delle rivolte dei ghetti neri degli anni Sessanta e le idee alla base del movimento del black power. In questo senso, buona parte del film è ambientato per le strade del quartiere, spazio dove non solo risulta più evidente l’attrito tra le varie comunità etniche, ma dove è possibile intravedere il rapporto conflittuale tra una comunità nera relegata a Bed-Stuy e la polizia, che sorveglia gli afroamericani contenendoli dentro il quartiere. C’è una scena specifica in cui questo rapporto risulta evidente, ed è precedente allo scontro che porterà alla morte di Radio Raheem: tre afroamericani, che passano l’intera giornata seduti di fronte allo shop coreano lamentandosi dei guadagni della famiglia di asiatici a discapito della comunità nera, smettono di parlare non appena una volante di polizia attraversa la strada. Tra i tre e i due poliziotti vi è un gioco di sguardi carico di tensione, dove l’odio reciproco fa da padrone: è la rappresentazione semplificata del domestic colonialism denunciato dal movimento del black power e dagli intellettuali marxisti afroamericani negli anni Sessanta, i quali sottolineavano come la presenza della polizia tra i confini ideali del ghetto nero materializzasse istantaneamente una situazione di colonialismo diretto, di subalternità tra la comunità nera continuamente sorvegliata e il corpo armato dello stato, quest’ultimo sempre pronto a usare la violenza a discapito della minoranza da contenere tra le mura del ghetto.
In questo recupero della cultura politica nera degli anni Sessanta-Settanta, l’elemento che gioca una parte fondamentale per lo svolgimento della trama e dei rapporti di subalternità che vi si annidano, è il concetto di potere. Messo continuamente in risalto dalla canzone Fight the Power, è il potere a motivare buona parte dei rapporti conflittuali che si consumano tra le mura immaginarie di Bed-Stuy. Innanzitutto, la comunità nera non è effettivamente rappresentata, e ciò risulta esplicito dalla diatriba tra Buggin’Out e Sal circa il Wall of Fame: l’idea che non vi debbano essere foto di figure di spicco della comunità afroamericana – che, invece, vengono relegati alle strade, tra le foto di Smiley, il cartellone di Mike Tyson che supporta l’elezione di David Dinkins a sindaco di New York e un poster sul Rev. Jesse Jackson che invita gli afroamericani a «Get out and vote» – in uno dei negozi principali del quartiere, è una questione squisitamente politica. Dallo scambio di battute tra Buggin’Out e Sal, è evidente che la pizzeria italoamericana ha come soli acquirenti gli afroamericani, il ché scatena due visioni del mondo completamente contrapposte, e che si basa essenzialmente sull’esperienza di chi, da una parte, è proprietario di un esercizio commerciale (Sal) e chi, dall’altra (Buggin’Out, che rappresenta l’intera comunità nera), è da anni che spende i propri soldi in un negozio che rappresenta parte dell’identità collettiva degli abitanti del quartiere. Se da una parte Sal si rifiuta perché ritiene che la decisione sulle foto da appendere sul Wall of Fame spetti a lui che è il proprietario – «Vuoi i fratelli sul muro? Fatti un bel locale, così ci metti chi ti pare […]. Questa pizzeria è mia, hai capito? E al muro ci metto solo italoamericani» – dall’altra Buggin’Out sostiene che la decisione spetti a chi effettivamente spende i propri soldi nella pizzeria, la comunità nera – «Io [nella pizzeria] non ci vedo altro che neri. Perciò, dato che spendiamo un bel po’ di soldi qui, possiamo dire la nostra».
L’apparente scena comica del Wall of Fame cela in sé l’impossibilità per gli afroamericani di avere voce in capitolo in tema di etero-rappresentazione e auto-rappresentazione, e ciò risulta loro difficile perché – nella pellicola – non sono i proprietari di un esercizio commerciale che rappresenta da più di vent’anni la comunità di Bed-Stuy. In questo senso, non solo si apre la questione morale se sia giusta la posizione di Sal o quella di Buggin’Out, ma anche quanto rilevante sia per una comunità che si autodefinisce etnicamente, essere rappresentata del tutto nel quartiere di appartenenza. È poi chiaro che il conflitto, in questo caso, non è esclusivamente tra minoranze, ma tra bianchi e neri – nella pellicola non vi è un conflitto diretto tra la minoranza portoricana o coreana con quella italoamericana, piuttosto lo scontro è sussunto dagli attriti tra la comunità nera e i proprietari della pizzeria – e questo ci aiuta a comprendere un altro elemento della narrazione. Gli afroamericani, tranne che nel caso di Mookie, Love Daddy, e un poliziotto nero, non figurano mai in qualità di lavoratori, ma solo ed esclusivamente come acquirenti dei due shop o non lavoratori. Nella pellicola vi sono, infatti, una serie di dialoghi tra i personaggi che insistono sulla differenza economica che separa la comunità nera dagli italoamericani, indicando che non vi sia solo un problema di mancata rappresentazione dei neri, ma anche un problema relativo alla parziale esclusione dal mercato del lavoro.
Da questo punto di vista, rappresentare gli afroamericani come consumatori più che come lavoratori, lascia intendere che la realtà del ghetto non consenta una ascesa economica e sociale dei neri, questi ultimi impossibilitati a scrollarsi di dosso il ruolo da unskilled worker. Piuttosto, la scelta è tra essere disoccupati o seguire l’esempio di Mookie, che non ha una posizione lavorativa stabile ma che insiste affinché il paternalismo di Sal lasci il passo esclusivamente a una relazione formale basata sulla giustezza del contratto di lavoro fondato sul salario – e mentre Sal insiste sulla relazione parentale che accomuna lui e Mookie, il fattorino ripete più di una volta alcune formule che richiamano un legame puramente economico. In estrema sintesi, Lee mette in scena la complessità del rapporto tra mercato del lavoro e proletariato nero dei ghetti, che, come sottolineato dal regista nei suoi appunti pubblicati dopo l’uscita di Do the Right Thing, «il futuro per ragazzi come Mookie è spaventoso, quindi non ci pensano. Vivono alla giornata, perché non possono fare nulla per il futuro. Parlo di un sentimento di incapacità, o di debolezza, tale per cui ciò che sei e quali effetti puoi avere sulle cose è assolutamente nulla, zero, un cazzo, nada».
Rappresentanza politica, ma anche economica, entrambe questioni che fanno il paio con una realtà del ghetto che, come si è detto, si palesa essere molto più vicina alle lotte politiche del movimento del black power di quanto sembri. Vi è però una dimensione narrativa che, in qualche modo, attualizza e rende palese le forme di sfruttamento a opera della maggioranza white nei confronti della minoranza nera. Di questa dimensione narrativa, due sono le questioni su cui è necessario soffermare l’attenzione.
La prima è quella della gentrification, che il regista utilizza ripetutamente nelle sue pellicole – più recentemente nelle due stagioni di She’s Gotta Have It – e che in Do the Right Thing è esemplificata da una discussione tra Buggin’Out e un bianco colpevole di avergli pestato le «Jordan nuove di zecca». L’attenzione viene spostata dal personaggio interpretato da Esposito dalle Jordan alla questione abitativa: «perché sei venuto a vivere in un quartiere nero, motherfuck gentrification?!». In qualche modo, questa mise-en-scène anticipa e critica i problemi provocati dalla gentrification nei vecchi quartieri poveri delle grandi città statunitensi, tra cui New York. Come recentemente scoperto dai ricercatori della University of California (Berkeley), a New York l’aumento crescente dei prezzi ha colpito nell’ultimo decennio gli abitanti appartenenti alle classi economiche più basse, provocandone l’allontanamento, o addirittura il rischio di rimpolpare le fila del sottoproletariato urbano dei senza dimora. È chiaro, quindi, che la scelta di Lee in Do the Right Thing sia quella di accennare a un rischio che corrono le classi sociali composte da unskilled workers o dai semplici proletari che vivono in un quartiere vittima di gentrification.
La seconda questione che fa da trait d’union tra il passato storico, gli anni in cui è ambientato il film e il presente, è sicuramente il tema della violenza. Come già accennato, Lee pone in essere il rapporto difficile e inestricabile tra non-violenza e autodifesa, il quale si manifesta potentemente non appena la polizia interviene durante lo scontro tra Sal e Radio Raheem. La scelta della folla è la violenza, ma è una violenza che va posta all’interno di una narrazione storica che inizia nel passato, ma che non si è ancora fermata. Si è detto delle similitudini tra il linguaggio dei rivoltanti e i riots degli anni Sessanta; in realtà, però, il riferimento alla morte di Radio Raheem più prossimo è relativo alla morte di sei ragazzi (a cui è dedicata la pellicola), cinque dei quali per mano della polizia. In questo senso, nel film vi è l’intento di porre una continuità tra gli abusi della polizia durante gli anni Sessanta e, in quel caso, negli anni Ottanta, rendendo palese come la scelta tra autodifesa e non violenza sia tutt’altro che facile. Recentemente, in un suo ultimo tweet, Spike Lee ha suggerito che questo rapporto di continuità non si è ancora spezzato: la morte di Eric Garner, recentemente ritornata agli onori della cronaca per la mancata accusa del poliziotto che soffocò il giovane nel 2014, è in qualche modo simile a quella di Radio Raheem, ed è lo stesso Lee a chiedersi se «la storia continuerà a ripetersi».
Do the Right Thing è insomma più di un film sugli scontri etnici negli Stati Uniti: è lo specchio drammatico della subalternità nera negli Stati Uniti, e che solo nella pellicola sussiste in un quadro narrativo che tende a normalizzare l’estrema violenza consumatasi in quel giorno dell’89. La domanda che in molti si sono posti, cioè se Mookie abbia o meno seguito il consiglio di Da Mayor (Ossie Davis) – una figura che rappresenta la generazione più vecchia della comunità nera – cioè di «fare sempre la cosa giusta» è, a trent’anni dall’uscita del film, per certi versi superflua. Il problema non è se Mookie abbia fatto o meno la cosa giusta, quanto, invece, capire i motivi che sottendono alla reazione di un dato gruppo sociale – in questo caso etnicamente definito – e trovare un modo per evitarli attraverso risposte sociali e politiche interne ed esterne ad esso. La canzone Fight the Power è in qualche modo il tentativo di spingere la comunità nera non a rispondere violentemente ai problemi sociali, quanto – in linea con il motto della generazione della new left degli anni Sessanta «power to the people» – combattere per essere finalmente rappresentati («Most of my heroes don’t appear on no stamps/Sample a look back you look and find/Nothing but rednecks for four hundred years if you check»), combattere contro qualsiasi forza impedisca loro di ottenere gli strumenti atti alla fine di quello stato di subalternità («Got to give us what we want/Gotta give us what we need/Our freedom of speech is freedom or death/We got to fight the powers that be»).Diversamente dalla enorme quantità di eventi catastrofici che si sono susseguiti nella storia dei riots negli Stati Uniti, in Do the Right Thing vi è però un lieto fine: è un nuovo giorno a Bed-Stuy, Mookie ottiene il proprio salario, non si cura della disoccupazione perché vive alla giornata e apparentemente pare che le temperature si siano abbassate. Tutto è ordinato a Bed-Stuy, tranne che per le macerie della pizzeria di Sal. Mr. Señor Love Daddy invita la comunità ad andare a votare, e dedica la prima canzone della giornata a Radio Raheem. Allo spettatore rimane ancora in testa la scena del soffocamento di Radio Raheem, che stona con l’apparente tranquillità e normalità del giorno seguente all’omicidio. Ma sa che Mookie ha preso la sua decisione, ne è confortato, e sa che Do the Right Thing è un invito. La risposta, però, dipende dalla capacità dei soggetti a cogliere la complessità dei problemi reali e, come suggerito dai Public Enemy, «fight the powers that be». Questa la forza del film di Spike Lee, che ancora oggi non manca di stupire.
*Bruno Walter Renato Toscano è laureando del corso Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università degli Studi di Bologna, e membro della redazione del blog C’era una volta l’America, curata dal Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euroamericana (Cispea).
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