Aspettando il diavolo nell’inferno messicano
Con l’espandersi della pandemia e delle misure eccezionali attuate dai governi a livello continentale, la situazione dei migranti a Tapachula sta peggiorando. Ma per chi scappa da guerre e povertà lo stato d'eccezione è da sempre la normalità
«Ecco gli autobus delle deportazioni» ci dice Ana, responsabile dell’associazione FM4 che fornisce aiuto e assistenza a migranti e richiedenti asilo, indicando dei pullman bianchi in fila al semaforo. Siamo nella 17° strada Oriente, a Tapachula, Chiapas, la città messicana che marca la frontiera con il Guatemala e sono gli ultimi giorni di gennaio. Mentre ceniamo contiamo ben 11 pullman passarci davanti. Sulla fiancata c’è un cartello con scritto «Inm», Istituto Nazionale di Migrazione. A bordo ci sono persone provenienti dal centro di reclusione per migranti Siglo XXI, il più grande di tutta l’America Latina, dal quale vengono riportate alla frontiera dei loro rispettivi paesi, Guatemala, Honduras e El Salvador.
Sono i rimpatri forzati dei partecipanti dell’ultima carovana di migranti centroamericani arrivata la settimana precedente. Ad aspettarli c’era la Guardia Nacional, il nuovo corpo militare creato dal presidente Obrador per contrastare il narcotraffico ma utilizzato, finora, più per bloccare e reprimere i flussi migratori che per debellare la criminalità organizzata. Secondo Ana «stanno liberando spazio per la nuova carovana: El Diablo sta arrivando». Si parla infatti di una nuova carovana che si sta formando in El Salvador, composta da persone che sono già state respinte e rimpatriate. Il nome con cui è stata rinominata, «Il Diavolo», deriva dal fatto che i partecipanti sembrano avere intenzione di evadere i blocchi della guardia nazionale utilizzando la tratta ferroviaria chiamata «la bestia», che attraversa tutto il Messico e arriva fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Il quotidiano di Tapachula El Orbe, parla dell’arrivo di 60 mila migranti e infiltrati delle bande criminali.
Secondo Ana, politici e giornalisti stanno fomentando la xenofobia degli abitanti di Tapachula, una città multiculturale che già a partire dal 1800 ha iniziato ad accogliere proprietari terrieri tedeschi, operai cinesi, esuli libanesi e migranti giapponesi e spagnoli. È molto comune che i giovani di Tapachula ti dicano di avere un cognome cinese o un nonno afghano. Alejandro Chan è nato a Tapachula e fa parte della quarta generazione di una famiglia cantonese immigrata in Messico. Gestisce il ristorante Long Ying, che dal 1975 prepara pietanze tradizionali cinesi che ormai sono diventate parte dell’offerta culinaria tipica di Tapachula. Secondo Alejandro «ogni ondata migratoria porta soldi e sviluppo».
Forse proprio questa storia di convivenza tra diverse culture ed etnie ha portato gli abitanti di Tapachula a mobilitarsi durante la prima carovana arrivata nell’autunno del 2018. «La gente», ci racconta Ana, «è scesa in strada a portare cibo e aiuti di ogni tipo. Quando però hanno visto che alle loro spalle, i migranti, lasciavano cumuli di spazzatura e avanzi delle pietanze ricevute in dono, prontamente fotografati dai media locali, le cose sono cambiate». La quasi totalità di Tapachula è priva di fogne, gli albergues che ospitano i migranti straripano di persone durante le carovane e costringono le organizzazioni umanitarie ad allestire centri di accoglienza all’aperto. Il sovraffollamento, le temperature tropicali e la mancanza di norme igieniche generano terreno fertile per il proliferare del razzismo. Tassisti e commercianti ci avvertono: «la sera è meglio se non andate in centro, ci sono i migranti». Diversi attivisti che lavorano nel sistema dell’accoglienza sono convinti che le carovane siano promosse da Donald Trump, per costringere il governo messicano a usare la mano pesante con i migranti e di fatto spostare sempre più a sud i controlli e le barriere contro i flussi migratori. Altri fanno semplicemente notare che la strategia delle carovane non sta più funzionando, l’esercito è schierato ad aspettarli alla frontiera, e molti di quelli che riescono a passare finiscono nei centri di detenzione e poi rimpatriati. Era più facile prima, quando attraversavano senza dare nell’occhio e senza saturare le strutture dell’accoglienza. D’altra parte, ci dice Enrique Olascoaga, coordinatore del centro per i diritti umani di Tapachula «Fray Matias», non si può negare il diritto a organizzarsi: «intere famiglie decidono di mettersi in viaggio per scappare da conflitti e violenze, la solidarietà e la forza di un gruppo permette loro di ridurre il rischio di aggressioni, minacce, abusi e garantisce copertura mediatica e attenzione da parte dei politici».
I migranti non sono gli unici ad aver cambiato la loro strategia, anzi, la vera trasformazione è, in realtà, avvenuta a livello politico e legislativo. Andrew e Arturo sono due attivisti statunitensi, figli di genitori messicani e salvadoregni. Si sono trasferiti in Messico dopo l’elezione di Trump, perché non sopportavano il clima di discriminazione che si stava generando nel loro paese. Fanno parte dell’associazione californiana Chirla, che fornisce appoggio e consulenze legali a migranti e richiedenti asilo. Sono a Tapachula per tenere un corso di formazione per operatori dell’accoglienza. Secondo Andrew e Arturo, per capire la situazione messicana bisogna partire dagli Stati uniti, e dall’ideologia del suprematismo bianco. Una caratteristica centrale della storia dell’impero nordamericano che negli ultimi anni si è affermata sempre di più nelle politiche della Casa Bianca grazie all’amministrazione Trump. Personaggi come Cordelia Scafe May e John Tanton hanno speso milioni di dollari negli ultimi decenni per finanziare organizzazioni anti-migranti che generano statistiche e creano campagne di propaganda «restrizioniste» con nomi insospettabili come Fair, Cis e Numbers Usa. L’agenda promossa da queste organizzazioni sembra convergere con le politiche della «tolleranza zero» promosse dall’attuale governo statunitense.
Grazie al ricatto delle sanzioni economiche gli Stati uniti sono riusciti a convincere i governi di Guatemala, El Salvador e Honduras a firmare un accordo come «terzi paesi sicuri». I richiedenti asilo negli Stati uniti possono ora essere mandati in uno di questi tre paesi, tra i più poveri e con il più alto tasso di omicidi al mondo, ad aspettare di essere chiamati a udienza dalle autorità statunitensi. Con il ricatto sui dazi commerciali sulle esportazioni messicane (il mercato statunitense rappresenta il 70% dell’export messicano), Trump ha invece convinto il presidente Lopez Obrador a inasprire le politiche migratorie e firmare l’accordo del 6 giugno 2019, che ha intensificato l’applicazione del Protocollo di Protezione Migranti (Mpp). Grazie al Mpp, anche conosciuto come «quédate en mexico» (rimani in Messico), più di 60 mila richiedenti asilo negli Stati uniti sono stati deportati in Messico mentre ancora aspettano di essere chiamati per un’udienza. Questo procedimento non rispetta il diritto internazionale dei richiedenti asilo di poter aspettare l’avanzare delle proprie pratiche in un terzo paese sicuro, dato che il Messico non si è dichiarato tale, e dato che subiscono minacce e violenze di ogni tipo. Alcuni vengono rispediti al sud, qui a Tapachula, dove rimangono bloccati perché la guardia nazionale non li lascia abbandonare la città, nonostante abbiano il diritto di muoversi in tutto lo Stato del Chiapas, e finiscono così per non riuscire a presenziare alle udienze.
Inutile dire che è una percentuale piccolissima quella dei migranti che riescono a permettersi di viaggiare fino agli Stati uniti, sostenere delle spese legali e soddisfare i requisiti sempre più cavillosi per ricevere l’asilo politico. Si stima che dei 60 mila richiedenti asilo solo un centinaio siano riusciti ad ottenere lo status di «ayslee» ed entrare negli Stati uniti. Inoltre, con l’Asylum Transit Ban, Trump ha quasi azzerato le possibilità di essere riconosciuti come richiedenti asilo ai migranti provenienti dalla frontiera sud che hanno transitato per un terzo Stato. Questo provvedimento ha trasformato il Messico da paese di transito a zona grigia dove richiedenti asilo centroamericani, haitiani, africani e asiatici rimangono intrappolati. A questo si aggiunge la fine dell’accordo «wet feet, dry feet» che garantiva la residenza ai migranti cubani una volta toccato il suolo statunitense, i quali si trovano ora bloccati anche loro sul suolo messicano.
I flussi migratori però, non si fermano cambiando un regolamento, così migliaia di haitiani, cubani, centroamericani, asiatici e africani rimangono intrappolati a Tapachula, in attesa che qualcosa cambi, magari grazie alle prossime elezioni statunitensi. Il centro della città è diventato un centro di accoglienza a cielo aperto, dove i migranti passano le loro giornate e dove gli abitanti di Tapachula possono contrattare lavoratrici domestiche indigene del Guatemala o pagare per prestazioni sessuali a basso costo. C’è chi vende cibi e bevande, chi si offre per fare le «cornrows», le tipiche trecce africane, e chi si è attrezzato con una macchina da scrivere per redigere documenti. Molti rimangono bloccati qui a Tapachula per mesi, alimentando la tensione e gli stereotipi: quelli più discriminati sono i centroamericani che vengono considerati delinquenti delle maras, mendicanti e ubriaconi. La maggioranza delle sex worker che lavorano in strada vengono dall’Honduras. Gli haitiani, invece, si inseriscono nel circuito della costruzione, gli africani lavorano al mercato, I cubani arrivano con più denaro e quindi sono ben visti e vengono percepiti come affascinanti e gran lavoratori; ovvero manodopera da sfruttare nei locali di Tapachula e tasche da prosciugare tramite la speculazione degli affitti.
Guillermo, cubano, ci racconta che lavora tramite il programma di inserimento del governo, pulendo le strade per 2.380 pesos e paga 2.500 per affittare una camera, perché l’albergue dove si trovava era sovraffollato e gli avevano rubato degli effetti personali. I prezzi delle camere qui a Tapachula sono quasi più alti che nella capitale, nonostante non ci siano infrastrutture adeguate né attrazioni turistiche nelle vicinanze. Molte case si sono trasformate in alberghi, o meglio in albergues, perché sono anch’esse sovraffollate. I prezzi sono esorbitanti e le stanze sono sporche, con insetti e topi. La borghesia di Tapachula, se da un lato grida allo scandalo per l’invasione migrante, dall’altro sta moltiplicando la sua fortuna sulla pelle delle persone che scappano da violenze e discriminazioni. Tra queste persone non ci sono solo latinoamericani ma anche migranti provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente.
Abbiamo incontrato Guhaad, 30 anni, somalo, al tavolo di un ristorante vicino al centro, gestito da una signora che tutti chiamano «Mama Africa». È una signora del posto che da circa sette anni prepara pasti a prezzi abbordabili per i migranti. Cerca di soddisfare le loro richieste cucinando ricette di diversi paesi del mondo. Ci offre del pollo al curry, ci dice che è un piatto del Bangladesh, come il suo aiutante, che lavora lì da un anno e sogna di arrivare negli Stati uniti. Guhaad, invece, ci racconta che il suo viaggio è iniziato a novembre, in Sudafrica, dove viveva e lavorava. Ci mostra delle cicatrici e ci dice che sono i segni dell’odio contro i migranti che si sta diffondendo tra i sudafricani, soprattutto nella popolazione nera. È dovuto scappare ma non voleva passare per la Libia. È diventata una rotta troppo pericolosa, è «fifty-fifty», 50 e 50, se ti va bene sopravvivi e subisci estorsioni, violenze e torture, se ti va male finisci sul fondo del Mar Mediterraneo. E allora ha preso un aereo per il Brasile, con un passaporto falso, con l’idea di arrivare negli Stati uniti o in Canada. Come lui migliaia di migranti provenienti da più di 15 Stati africani attraversano l’Atlantico per inseguire il «sogno americano». Alcuni approfittano degli accordi che gli garantiscono di arrivare in Brasile o in Ecuador e prendono un aereo, altri si nascondono nelle navi commerciali per più di 30 giorni attraversando l’Oceano, altri ancora si imbarcato sulle navi dei contrabbandieri avventurandosi nei viaggi della speranza simili a quelli a cui siamo abituati a vedere nel Mediterraneo. Dal Brasile Guhaad ha iniziato a camminare verso nord, con lui c’erano eritrei ed etiopi, anche loro legati da un passato coloniale in cui l’Italia è stata protagonista, la stessa Italia che ora gli chiude le porte costringendoli a un esodo su scala planetaria.
Il percorso classico dei migranti africani in America latina inizia in Brasile, passa per il Perù, l’Ecuador e la Colombia. Per raggiungere Panama bisogna per forza pagare dei trafficanti, che ti aiutano a raggiungere la giungla, da lì in poi è pura sopravvivenza. La zona che separa la Colombia da Panama, el Tapon del Darien, è uno dei pezzi di giungla più pericolosi al mondo. È una zona piena di insidie naturali, tra cui serpenti, giaguari e il rischio di annegare nei fiumi nel tentativo di attraversarli. Guhaad e il suo gruppo sono rimasti bloccati 10 giorni in quell’inferno, si erano persi e lungo il tragitto hanno visto dei cadaveri abbandonati. Una volta arrivati a Panama hanno passato alcuni giorni in arresto, e poi sono stati consegnati alle autorità del Costa Rica e da lì hanno attraversato il Nicaragua. Una volta arrivati in Honduras le cose si sono complicate di nuovo. Hanno dovuto ricorrere agli «smugglers», i coyote, i trafficanti, per attraversare il Centroamerica fino al Messico, a Tapachula, dove Guhadd è stato portato al centro di detenzione Siglo XXI in cui è rimasto per due settimane. Ora vive in una casa a Tapachula e sta aspettando di ricevere i documenti da compilare per fare la richiesta per la residenza messicana, per poi poter viaggiare legalmente verso gli Stati uniti. Mentre parliamo arriva un amico ghanese che gli mostra la tessera della residenza che ha appena ricevuto, dopo 7 mesi d’attesa. Gli facciamo tutti i complimenti perché finalmente potrà uscire da Tapachula. Sono complimenti amari però, perché sappiamo che alla frontiera settentrionale, con gli Stati uniti, sarà quasi impossibile ricevere lo status di «ayslee» (richiedente asilo), a maggior ragione dopo aver ricevuto la residenza messicana.
Nel frattempo i giornali locali continuano a pubblicare notizie di crimini commessi da honduregni e salvadoregni. Daniel, 24 anni, è scappato dal Salvador perché le pandillas volevano arruolarlo, doveva scegliere tra MS-13, Barrio 18 o la morte. Ha scelto di attraversare illegalmente la frontiera e ora lavora in un hotel a Tapachula durante la notte, di giorno invece pulisce le stanze e vende prodotti in strada. Spera di ricevere presto la residenza messicana per raggiungere la frontiera nord. Ci chiede: «perché gli Stati uniti non vogliono farci entrare se sono i migranti quelli che tengono in piedi tutta la loro economia?». La risposta alla domanda di Daniel non è semplice, l’economia statunitense, così come tutte le economie dei paesi capitalisti, ha bisogno della manodopera migrante, è vero, ma per continuare a sfruttarla ha bisogno di negargli i diritti e poter ricattare tramite arresti e deportazioni.
Secondo Enrique Olascoaga c’è una stretta connessione tra le nuove politiche «restrizioniste» del governo messicano, che costringono i migranti ad accettare uno status precario e ricattabile, e le grandi opere che si stanno finanziando nella regione sud del Messico, come il Tren Maya e il corridoio Trans-istmico, che richiederanno masse di lavoratori senza diritti e a basso costo.
A Tapachula «Il Diavolo» non si è mai palesato, anzi, le carovane hanno smesso di arrivare. Quello che però rimane reale, è l’inferno in cui sono costretti a vivere i migranti, una prigione fatta di povertà, perquisizioni, razzismo, lacune burocratiche e militarizzazione.
*** Aggiornamento:
Con l’espandersi della pandemia del Covid-19 e delle misure eccezionali messe in campo dai governi a livello continentale, la situazione dei migranti a Tapachula sta peggiorando ulteriormente. Le frontiere sono chiuse così come le possibilità di regolarizzare i propri documenti. In Centroamerica, all’isolamento forzato si accompagna il «toque de queda», il coprifuoco gestito dai militari che ha già portato all’arresto di diverse migliaia di persone. Nel frattempo al nord, le poche possibilità che erano rimaste di entrare negli Stati uniti, sono state praticamente annullate. A Tapachula la piazza principale dello zocalo è transennata e presidiata dalla Guardia Nacional, così come i principali luoghi pubblici; gli albergues invece stanno cercando di chiudere ma i migranti che ci vivono non sanno dove andare, mentre le Ong e gli uffici immigrazione hanno già abbassato le serrande. Nei centri di detenzione del Messico meridionale, tra cui il Siglo XXI, sono scoppiate rivolte con un morto e diversi feriti. Il sovraffollamento e la mancanza di strutture sanitarie che si occupino dei migranti completano uno scenario drammatico.
Ora che un terzo della popolazione mondiale vive lo stato d’eccezione che è sempre stata la normalità per la popolazione migrante, senza libertà di movimento, monitorati dall’esercito, senza accesso ai servizi essenziali e con il rischio costante di essere fermati dalla polizia, crediamo sia importante prendere coscienza che le libertà fondamentali devono essere ripristinate e garantite per tutti e tutte, anche per chi si mette in cammino in cerca di pace e dignità.
*Gianpaolo Contestabile, psicologo, operatore sociale e ricercatore indipendente, si occupa di comunicazione collaborando con collettivi politici e media comunitari tra l’Italia e l’America Latina. Le foto sono di Stefano Morrone.
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