
Attacco alla conoscenza (con la scusa della libertà)
Politici e opinionisti mainstream hanno preso di mira i saperi critici. L'offensiva sulla cosiddetta «cancel culture» riguarda gli studi su genere, razza e classe. Si fa più rabbiosa ogni volta che la ricerca incrocia le pratiche di lotta
Le libertà accademiche sono minacciate; e lo sono soprattutto dai nostri politici. In Francia, è il presidente della Repubblica ad essere partito all’attacco. Le Monde ha riportato le sue dichiarazioni il 10 giugno 2020: «Il mondo accademico è colpevole. Ha incoraggiato l’etnicizzazione della questione sociale nella convinzione che fosse una una pista interessante. Ebbene, il punto di arrivo non può che essere il secessionismo». Questo, nel preciso momento in cui il comitato Adama Traoré, costituito dopo la morte del ragazzo per mano dei gendarmi, era riuscito a organizzare una grande manifestazione Place de la République, a Parigi, dopo il primo lockdown. Emmanuel Macron prende di mira «i discorsi razzizzati (sic) o intersezionali», come se i saperi critici pervertissero i giovani. Ma l’attivismo delle banlieues non ha aspettato le teorie universitarie per mobilitarsi contro le violenze della polizia. Il presidente Macron è successivamente tornato su questo tema il 2 ottobre 2020 nel suo discorso sul separatismo islamista in cui ha attaccato «certe teorie delle scienze sociali totalmente importate dagli Stati uniti d’America».
Il 22 ottobre 2020, sulle onde della radio Europe 1, il ministro dell’Istruzione gli faceva eco. Secondo Jean-Michel Blanquer: «L’islamismo di sinistra [islamo-gauchisme] sta devastando l’università»; per poi puntare il dito contro «i complici intellettuali del terrorismo». Il 14 febbraio 2021, sul canale televisivo CNews, la ministra dell’università e della ricerca si è allineata a questo discorso: «Penso che l’islamismo di sinistra stia corrompendo la società nel suo insieme; l’università non è impermeabile e fa parte della società». La ministra ha poi annunciato un’indagine sull’«islamo-gauchisme» per «distinguere tra ciò che può essere considerato come ricerca accademica e ciò che invece rimanda a opinione e attivismo». Due giorni dopo, in parlamento, per giustificare la necessità della sua proposta, Frédérique Vidal ha citato, senza ulteriori precisazioni, «alcuni e alcune universitarie che affermano di essere ostacolatie da altri e altri universitari che impediscono loro di condurre le loro ricerche». La ministra ha finora rifiutato di fornire informazioni su questa indagine, ma il Consiglio di Stato, a cui alcuni universitari- e universitarie si sono rivolte, considera l’annuncio come una decisione; è quindi di fatto suscettibile di ricorso.
Il primo luglio, sulla rivista Elle, lo stesso presidente Macron è tornato sull’argomento: «Vedo che la società si sta gradualmente razzializzando. Pensavamo di esserci liberati da questo approccio, e alla fine ci ritroviamo a ri-essenzializzare le persone secondo la razza»; insomma, «la logica intersezionale frammenta tutto». Ne risentiremo parlare ancora probabilmente in occasione della campagna elettorale per le presidenziali francesi del 2022.
Tali attacchi non sono nuovi. Il 29 novembre 2007, dopo giorni di violenza nella banlieue di Villiers-le-Bel, e in seguito alla morte di due adolescenti investiti da un’auto della polizia, il presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy dichiarò davanti alle forze dell’ordine: «Rifiuto qualsiasi forma di buonismo che vede una vittima della società in ogni delinquente, e un problema sociale in ogni rivoltoso». E se la prendeva con la sociologia: «Quando si vuole spiegare l’inspiegabile, si sta già scusando l’inescusabile». In realtà, Sarkozy aveva usato questa formula già dal 2004 per rifiutare le «analisi intellettuali» dell’antisemitismo. Il 7 novembre 2007, davanti all’American Jewish Committee, egli insinuava vi fossero «forme di complicità indiretta». Il rifiuto di spiegare sociologicamente i problemi sociali rompeva con la postura del suo predecessore. Infatti, secondo la dichiarazione di Jacques Chirac del 14 novembre 2005, durante le violenze scoppiate nelle periferie dopo la morte di due adolescenti inseguiti dalla polizia, gli «handicap» sociali e la «discriminazione» erano «evidentemente» «alla base degli eventi che abbiamo appena vissuto».
Anche Manuel Valls, all’epoca primo ministro, ha seguito la linea di Sarkozy dopo gli attacchi terroristici del novembre 2015, quando davanti al Senato, il 26 novembre, dichiarò: «Ne ho abbastanza di coloro che cercano costantemente scuse o spiegazioni culturali o sociologiche a quello che è successo». Il 9 gennaio 2016, durante l’omaggio alle vittime del supermercato Hyper Cacher, dove si svolse l’attacco, insisteva: «Non ci può essere nessuna spiegazione valida. Perché spiegare è già voler scusare». Di fatto, Emmanuel Macron non fa che aggiornare la retorica anti-sociologica di Nicolas Sarkozy e di Manuel Valls: per mancanza di conoscenza dei lavori e delle ricerche che mette in discussione, o di comprensione del lessico prima di denunciarli, gli è probabilmente bastato leggere tutto un insieme di riviste che gli hanno preparato il terreno da diversi anni – tra cui Valeurs actuelles, alla quale il presidente non ha esitato a concedere un’intervista nell’ottobre 2019. Proprio nel momento in cui la manifestazione di piazza riusciva a dare forma politica alla rabbia delle periferie: Emmanuel Macron avrebbe preferito trovarsi davanti a delle rivolte?
Se questo crescente anti-intellettualismo politico in Francia può sorprendere, soprattutto all’estero, è perché la «patria dei diritti umani» è stata percepita, fin dall’affaire Dreyfus, come la terra promessa degli intellettuali, che riescono a far sentire la loro voce nel dibattito pubblico. Tuttavia, le mobilitazioni contro il «matrimonio per tutti» sarebbero dovute essere di avvertimento: quelle manifestazioni erano dirette anche contro la presunta «teoria-del-gender» (dando alle due parole lo stesso valore peggiorativo). Qui, la reazione sessuale era anche inseparabilmente anti-intellettuale; prendeva di mira un intero campo di ricerca. Negli anni Dieci del Duemila, l’impegno del Vaticano contro l’«ideologia gender» ha trovato nuovi testimoni all’interno di una destra laica (contro l’Islam) e cattolica (in nome dell’identità nazionale), grazie a un discorso populista che oppone gli studi di genere al «senso comune». La polemica attuale non è che un’estensione di quello stesso dibattito: razza e intersezionalità, ma anche studi postcoloniali, sono stati aggiunti al mix. Nel segno della continuità, anche la scrittura inclusiva fa parte delle ossessioni di quella destra.
La Francia non è per nulla un’eccezione [la Manif pour tous, lobby contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso, è nata proprio in Francia, ndt] – tanto più che le campagne «anti-gender» si sono diffuse nel mondo da un decennio, in particolare in Europa e America Latina. I cosiddetti regimi «illiberali» sono particolarmente toccati, a cominciare dall’Ungheria di Viktor Orbán e dalla Russia di Vladimir Putin. L’esempio della Francia di Emmanuel Macron ci ricorda, però, che nemmeno i presunti regimi «liberali» sono risparmiati. L’offensiva non si ferma alle questioni di genere: gli Stati Uniti di Donald Trump e il Regno Unito di Boris Johnson hanno lanciato campagne «anti-razza» contro i critical race studies, gli studi critici della razza, che cercano di decostruire il razzismo sistemico. Il regime di Jair Bolsonaro in Brasile, che articola razza, genere e classe, è un laboratorio paradossalmente intersezionale del neofascismo che viene. Tutti i saperi critici sono oggi in pericolo – come possiamo osservare nella Turchia di Recep Tayyip Erdoğan – perché mettono in discussione l’ordine delle cose.
Per capire questo sviluppo internazionale, dobbiamo partire dall’influenza crescente delle politiche neoliberali nel mondo. Nel 1989, con la caduta del Muro, il capitalismo ha offerto la promessa del liberalismo politico, la faccia della medaglia di cui il libero mercato era il rovescio. Negli anni 2000, con lo sviluppo di un neoliberismo sempre più brutale, l’autoritarismo di Stato ha iniziato a essere utilizzato per soffocare ogni tipo di resistenza. I saperi critici, che disturbano ciò che è percepito come ovvio, sono dunque nel mirino – tanto più che non sembrano avere una ragion d’essere nella cultura del risultato che sta prendendo piede nell’università: in una tale logica, inseparabilmente economica e politica, che senso avrebbe imparare a pensare da sé? In Francia, le riforme dell’università si susseguono, dalla legge relativa alle libertà e responsabilità delle università (Lru) di Valérie Pécresse nel 2007 alla legge sulla programmazione della ricerca nel 2020, nonostante la forte denuncia e contestazione della precarizzazione e della concorrenza. L’argomento dell’autonomia, generalmente utilizzato per legittimare tali riforme, è contraddetto da una doppia pressione, finanziaria e politica, che non smette di intensificarsi. Per esempio, è stato imposto il massiccio aumento delle tasse universitarie per le e gli studenti non europei, che è stato chiamato con crudele ironia: «Benvenuti in Francia».
Ovviamente, le politiche neoliberali colpiscono più duramente le classi lavoratrici; e le minoranze sanno bene cos’è l’esperienza della repressione. La novità (relativa) a cui assistiamo è l’estensione di queste logiche al mondo accademico. E non è un caso che ciò avvenga nel momento in cui le minoranze cominciano a diventare più visibili, non esitando più a parlare in prima persona. Questa è davvero una battaglia ideologica: l’obiettivo di mettere a tacere i critici indebolisce la libertà accademica, l’università e la ricerca. Questo anti-intellettualismo di Stato, che sia promosso in nome dell’unità nazionale o dell’efficienza economica, trae beneficio da una sorta di camera d’eco sia nei media tradizionali che sui social. Su Facebook e su Twitter, dalla «Primavera repubblicana» [printemps républicain] alla «fachosfera», si moltiplicano le campagne, non solo contro le idee, ma anche contro le persone; le molestie a volte arrivano fino alle minacce di morte. Non si tratta o non si tratta più di un universo parallelo, hanno fatto irruzione nello spazio pubblico legittimo. La virulenza dei social network sta effettivamente ispirando i media tradizionali; ne è un esempio tra i più radicali la televisione, e il canale CNews, la «FoxNews francese» di Vincent Bolloré; ma ciò è anche vero per la stampa scritta, da Le Point a Marianne, passando per L’Express. Il pretesto per l’annuncio di un’inchiesta da parte della ministra dell’università e della ricerca Frédérique Vidal, è stato infatti un articolo del quotidiano Le Figaro.
Ovviamente, non tutti i media sono sulla stessa linea; ma la maggior parte si lascia dettare gli argomenti e persino il vocabolario che stigmatizza i social justice warriors, la coscienza woke e la cancel culture. Importare il lessico della destra americana è davvero il modo migliore per combattere contro «certe teorie delle scienze sociali totalmente importate dagli Stati Uniti»? È vero che il fact-checking permette di decostruire le fake news, come certe voci diffuse sulla presunta intolleranza della sinistra accademica; ma questo non impedisce affatto che saggisti e polemisti, che si impadroniscono dei media a scapito degli intellettuali critici, continuino a riprenderle e diffonderle. È chiaro che i media tendono a parlare di ciò… di cui i media stanno già parlando. È la logica del buzz. Così, chi riesce a essere o apparire più provocatorio è in grado anche di imporre il tono del dibattito pubblico: le loro ossessioni circolano in maniera ciclica e continua. A titolo di resistenza a questa deriva, alcuni giornali moderati pensano di occupare uno spazio intermedio tra una destra radicalizzata e una sinistra intellettuale accusata di essere radicalizzata, cercando di alimentare l’illusione di animare un dibattito. Mantenere l’immagine di questa opposizione dialettica, però, non è un modo per accettare i termini della polemica dettati dalla prima a spese della seconda? A furia di voler essere equilibrati, questi media finiscono per favorire i nemici dei saperi critici.
L’anti-intellettualismo riguarda anche il mondo intellettuale, perché è un’ideologia, non un deficit di capitale culturale. Invece di esprimere la loro solidarietà, alcuni e alcune universitarie si sono unitie alla campagna contro altre e altri universitari. Prima ci sono state le petizioni delle e dei colleghi della destra intellettuale, poi sono arrivate, più inaspettatamente, figure di sinistra, anch’esse esasperate dall’emergere di nuove questioni. Di fronte alle giovani generazioni universitarie, alcune e alcuni della vecchia generazione sentono che il rinnovamento della vita intellettuale sta sfuggendo loro di mano: l’indebolimento del loro magistero è senza dubbio la chiave di una certa forma di risentimento. Si appellano alla scienza per giudicare la scientificità dei lavori su genere, razza e intersezionalità, o degli studi postcoloniali, spesso con totale incompetenza, senza nemmeno citarli o leggerli: sembra che a loro non serva conoscere il concetto di decolonialità (decolonialidad) per creare un «Osservatorio del decolonialismo» (sic). E a che mai potrebbe servire la comprensione del concetto di razzismo sistemico per poi denunciare comunque il concetto di «razzismo sistematico» (sic)?
A destra, si rivendica la «neutralità assiologica», opponendo lo «studioso» al «politico», una lettura di Max Weber che arriva da Raymond Aron e Julien Freund, nel contesto della guerra fredda, contestata dagli anni 2000 dagli esperti del sociologo tedesco, Catherine Colliot-Thélène e Isabelle Kalinowski. A sinistra, alcune colleghe e colleghi si rifanno all’«autonomia scientifica», in riferimento a Pierre Bourdieu, anche se ciò significa minimizzare l’impegno politico che è valso al sociologo francese la duratura osilità della destra. Paradossalmente, però, da entrambe le parti non si esita ad agitare lo spettro politico di una «sinistra identitaria»: a volte in difesa della Repubblica, come se parlare di discriminazioni non fosse una questione di libertà e uguaglianza, se non di fraternità; a volte in nome di un’eredità marxista, come se la razza annullasse la classe, e comunque in ogni caso per dequalificare le questioni poste dalle minoranze. Questi sostegni intellettuali all’offensiva mediatico-politica hanno conseguenze importanti: da un lato, e nella misura in cui provengono da entrambe le parti, per i media non sembrano essere determinati da considerazioni ideologiche; dall’altro, e nella misura in cui provengono anche dal mondo accademico, permettono ai politici di respingere l’accusa di anti-intellettualismo.
E così i paradossi si moltiplicano: non solo si attacca il lavoro scientifico in nome della scienza, ma si fa una campagna politica contro la politicizzazione. Le minoranze sono accusate di essere maggioritarie, come se i rapporti di dominio fossero invertiti per magia dai saperi critici. E ancora, le vittime di questi attacchi vengono rimproverate di fare del vittimismo: le vere vittime, nel mondo accademico come nella società in generale, sarebbero infatti le persone espropriate dei loro privilegi… L’attuale visibilità, per quanto relativa, di colleghe, colleghi e studenti che appartengono alle minoranze – e che rifiutando di essere minorate, chiedono l’uguaglianza – provoca oggi reazioni violente. In questo senso è possibile comprendere la violenza istituzionale che ha pesato e ancora pesa su di loro – anche se, ovviamente, è in nome dell’«universalismo» che il loro presunto «comunitarismo» o «separatismo» viene contestato.
Ulteriore paradosso: è in nome della libertà di espressione che la libertà accademica è sotto attacco. «Non si può più dire niente»: l’antifona reazionaria è ora usata contro la sinistra accademica. I media, che fino ad allora non avevano manifestato alcun interesse per loro, finiscono così per dare ampio spazio ad alcuni e alcune universitarie per dar loro la possibilità di lamentarsi a gran voce… di non avere più diritto di parola. Tra i vari discorsi che circolano, ci sono quelli secondo cui l’intolleranza sarebbe opera di una manciata di universitarie e universitari settari, a capo di gruppuscoli di attivisti delle minoranze (che, nella maggior parte dei casi, non erano a conoscenza dell’esistenza di coloro che oggi li denunciano). Sarebbe utile non dimenticare che per esercitare la censura, bisogna avere il potere di censurare? Chi può credere che le minacce del governo non abbiano effetto sulle istituzioni universitarie, già prigioniere delle ingiunzioni del neoliberismo di Stato? E come non vedere l’effetto sulle giovani generazioni che sono riluttanti a intraprendere una carriera accademica, diventata di così difficile accesso, e la cui autonomia è ormai decisamente compromessa non da un nuovo «maccartismo di sinistra», ma dalle politiche che ne controllano i finanziamenti?
È urgente, anche in Francia, proporre una difesa delle libertà accademiche. Non si tratta affatto di un appello corporativista: in gioco ci sono i principi stessi della democrazia. La libertà di espressione dipende anche dalla libertà di ricerca. Di fronte ai molteplici attacchi che si presentano e che convergono, una controffensiva potrebbe essere il punto di partenza per nuove convergenze delle lotte.
*Éric Fassin è professore di sociologia all’université Paris 8. È autore di numerosi libri tradotti anche in italiano, tra cui il più recente è Populisme: le grand ressentiment tradotto da Manifestolibri con il titolo Contro il populismo di sinistra. Caroline Ibos è professoressa di sociologia all’université Paris 8 e ricercatrice al Laboratoire d’études de genre e de sexualité – Legs. Lavora sulle forme di domesticità contemporanee in una prospettiva intersezionale, e sul care come risorsa politica. Nel 2019, ha pubblicato con Aurélie Damamme, Pascale Molinier et Patricia Paperman, Vers une société du care. Une politique de l’attention (Le Cavalier bleu). Questo articolo è l’introduzione degli atti del convegno La studiosa e la politica, organizzato dal centro di ricerca LegsEGS – Laboratoire d’études de genre et de sexualité (CnrsNRS) dal 7 al 10 giugno 2021. La traduzione dal francese è di Massimo Prearo.
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