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Benvenuti in nessun luogo

Giancarlo Ghigi 7 Febbraio 2021

Il film Nomadland racconta l'esasperante neo-nomadismo occupazionale figlio della faccia nascosta del modello produttivo Just in Time che struttura il capitalismo contemporaneo

Questo è un  racconto in tre atti, come ci impone la tradizione. Nel primo atto troviamo Empire. Empire era un posto in cui la nebbia sottile della polvere di cartongesso restava sospesa nell’aria per decenni, senza appoggiarsi mai. La teneva sospesa nell’aria il respiro stesso dell’umanità che viveva laggiù, un’umanità impegnata nei gesti quotidiani di miniera e poi di fabbrica. Il gesso. 

Sul piccolo autogrill grigio che accoglieva i rari motociclisti della statale 447 sotto la sua luce giallastra, stava un lungo palo scrostato con su infilato un cartello dal motto sinistro: «benvenuti in nessun luogo». Sul retro dello stesso store, proprio accanto a un’interminabile fila di bagni chimici, stava invece un triviale dinosauro dalla cresta nera e grandi occhioni scuri, un affare di plastica bruciato dal sole, pensato forse per divertire i bambini. Si stima abitassero dai sette ai quindici bambini a Empire quando la polvere bianca alla fine trovò pace e calò su tutte le cose. Ma ora la storia che vi sto raccontando esige che io vi descriva un po’ meglio cos’era Empire.

Empire, codice postale 89405, Contea di Washoe, Stato del Nevada. Fino al 2011 Empire era classificato dagli uffici amministrativi statunitensi come un «census-designated place», un luogo di censimento dalla natura non meglio precisata, una sorta di limbo tra una città e un vuoto che si trovava ai confini dell’area metropolitana di Reno-Sparks. Il posto abitato più vicino era tale Nixon, una riserva indiana che si trova a 120km di distanza, in direzione sud. Empire era invece una città aziendale, anzi era la capitale stessa del cartongesso statunitense, un insediamento minerario e produttivo sorto nel 1923 ai margini del deserto del Black Rock per dare naturale seguito alle esigenze produttive dell’estrazione di gesso. Va da sé che il non paese, data la collocazione infausta, forniva anche un alloggio a prezzi modici alle molte famiglie dei minatori che quel gesso erano incaricati di grattare dalle croste del deserto. Furono le esigenze stesse della produzione a modellare quello strano intarsio carsico, quella colonia umana. Le strade di Empire non avevano la dignità di un nome, quattro Avenue classificate in lettere (come nell’East Village) erano attraversate da quattro Street numerate, costruendo così una semplice griglia sghemba sulla quale si calavano le circa 200 piccole strutture edilizie ad un piano. Nei suoi ottantotto anni di storia questo avamposto arrivò a contare fino a 750 abitanti, che nel frattempo si erano anche dotati di una piccola chiesa, di una piscina, di un grande campo da golf a nove buche e perfino di un piccolo aeroporto per ultraleggeri. Dietro la discarica c’era pure un piccolo cimitero monumentale con le vecchie lapidi dei cercatori d’oro d’un secolo prima, quelli raccontati nei primi film di Chaplin. I residenti di questa strana enclave umana su terreno ostile, proprio come nelle trame della fantascienza distopica sulle colonie spaziali, lavoravano tutti per la United States Gypsum Corporation, anzi, il suolo stesso su cui sorgeva Empire era di proprietà della Usg. 

Le sfortune dell’insediamento minerario iniziarono da strani e lontani terremoti di borsa, quando nel 2008 il mercato del cartongesso risentì del contraccolpo della crisi immobiliare scatenata dalla nota vicenda dei mutui subprime. Così avvenne che il respiro centenario della polvere bianca si fece prima rauco e poi presto si placò del tutto, e il gesso riprese ad appoggiarsi su tutte le cose. Parve a tutti che il deserto volesse riprendersi indietro le squame grattugiate dalle formiche umane, e alla fine infatti il deserto l’ebbe vinta. Quando l’Usg inviò le ultime lettere nella piccola Empire c’erano ancora 146 nuclei familiari, poco meno di 500 abitanti. Era il 31 gennaio del 2011 e gli operai iniziarono a caricare storie e bagagli sulle automobili e sui camper. Le foto di google street sono cristallizzate al 2009 e li mostrano ancora tutti lì, parcheggiati intorno alle casupole, fissati in un fermo immagine che ricorda il persistere di certe lontane stelle ormai spente da anni luce. Le ultime lettere della Gypsum Corporation avvisavano gli abitanti con prole che i loro figli eccezionalmente avrebbero potuto rimanere sul suolo di Marte fino al 20 giugno del 2011, la fine naturale dell’anno scolastico, poi le chiavi della non città sarebbero state ufficialmente riconsegnate al vento sabbioso del Black Rock.

L’epilogo polveroso di Empire non può non ricordarci le vicende della grande depressione americana raccontate in Furore, il capolavoro cinematografico di Ford tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck, quando un altro fattore esogeno – ovvero la stretta creditizia causata dalla crisi del ‘29 – costrinse la famiglia contadina di Tom Joad all’esodo, a infilare ogni cosa sul retro di un camion scassato e lanciare così vite e destino lungo l’autostrada 66, all’inseguimento di voci di lavoro e prospettive di vita che si spostavano continuamente in là, con l’orizzonte stesso. È la storia dell’improvviso vagabondare di una comunità stanziale, il frutto amaro di quella perdita di baricentro che talvolta consegna i più fragili alla follia, alla lotta i più determinati, e infine riconsegna immancabilmente alla polvere del deserto quelle terre arse che gli furono sottratte dal lavorìo dell’uomo. Anche la storia di Tom Joad è una storia di esodo, Capitale e polvere.

Il secondo atto del nostro racconto a questo punto prevede una virata decisa, verso est, in un altro continente, e ci porta a Rovigo. È il 9 dicembre del 2020 e si avvicinano le feste, il ferrarese Massimo Straccini, classe 1962, vive da due mesi con la moglie in un camper davanti al nuovo centro logistico di Amazon. Sta per arrivare il Black Friday e la multinazionale del delivery ha bisogno di braccia fresche per colmare la domanda di fine anno. Il camper di Massimo non è il solo van a trasformarsi in alloggio improprio per un lavoratore, un piccolo popolo ha ormai fatto casa nel parcheggio dell’hub della multinazionale. La Cgil denuncia che siano almeno una decina i dipendenti che vivono in queste condizioni: chi in camper, chi addirittura in macchina. Massimo nelle otto ore notturne che lo attendono dovrà aiutare i robot della linea. Gli hanno assicurato solo 104 ore di lavoro al mese e gliele pagheranno appena 9 euro l’una. È solo un lavoro trimestrale, è solo un lavoro sotto le feste, e il committente è solo un’agenzia interinale che lavora al servizio di una società di logistica. Troppo poco per affittare casa e cambiare vita. 

Un tempo chiamavamo «caporalato» questa pratica lavorativa da «riso amaro» che almeno negli ultimi decenni rimaneva confinata ai lavori agricoli e all’edilizia, ma oggi invece si chiama just in time (Jit) ed è il nuovo paradigma della produzione, a tutti i livelli. Produrre solo il necessario e solo quando serve, evitare ogni stoccaggio e, data l’estrema obsolescenza di tutte le merci ad alta tecnologia, attivare e disattivare a singhiozzo le linee produttive e distributive, tagliando tempi e costi morti. Per questo le braccia di Massimo vengono affittate solo per il Black Friday e solo per distribuire merci prodotte proprio per il Black Friday, giusto in tempo prima che Massimo e le merci che Massimo passa ai robot diventino entrambi obsoleti.

La nostra storia a questo punto ha la sua ultima svolta, ancora più a est, perché il terzo tempo ci racconta la vita di una cinese, Chloé Zhao, classe 1982. Chloé nasce a Pechino, ed è figlia del dirigente di una grossa azienda di stato dell’acciaio e di una infermiera. Nel 1997 la giovane ragazza può permettersi di studiare a Londra e da lì poi decide di emigrare negli Stati uniti. A New York Chloé oltre a fare la barista si laurea in Scienze politiche e studia cinema. La ragazza è al suo terzo lungometraggio quando nel 2017 decide di raccontare l’incredibile storia di Empire traendo spunto dal racconto-inchiesta di Jessica Bruder. Lo fa girando uno dei film più belli degli ultimi vent’anni, Nomadland, meritato vincitore del Leone d’oro alla 77esima mostra del cinema di Venezia. Il film racconta frammenti del quotidiano di una sessantenne, Fern, che, come odierna Tom Joad, viene spinta a un esasperante neo-nomadismo occupazionale, a quel modus vivendi figlio naturale della faccia nascosta del Just in Time che ormai struttura sia le piattaforme che le vite di chi ne aiuta i robot, la forma stessa assunta dal capitalismo contemporaneo, dalle nuove esigenze di una nuova produzione che in fondo succhia la medesima linfa vitale di sempre alle nostre periferie.

Fern dopo la fine di Empire e del suo cartongesso non riesce ad autoliquidarsi senza impazzire, così sceglie di percorrere l’unica strada che le è possibile percorrere, quella della migrazione lavorativa perenne, di un nomadismo indotto dai rinnovati bisogni del mondo della produzione, quella del nuovo gesso che domina questa nostra epoca. La vediamo intenta ad avvitare sempre nuovi aggeggi a quel suo camper-casa per aumentarne le comodità, per ritessere i suoi fili interiori, per conservare i pochi e fragili frammenti della sua passata esistenza tra le nuove pareti precarie di quella casa mobile. La vediamo, in fondo, avvitare la sua stessa vita in un guscio metallico, spinto a vagare tra occupazioni che non la riguardano, che non le entrano più dentro. La vediamo scorrere, come scorre ogni fluido nelle profetiche parole di Bauman.

I tratti del film di Cloè sono estremamente leggeri quanto incredibilmente taglienti, non lasciano mai spazio alla retorica, non concedono un solo secondo alla contemplazione sterile, risultano morbidi e incalzanti come raramente è capitato vedere. Fern, splendidamente interpretata dall’unica attrice professionista del cast (Frances Mc Dormand) sembra a tratti quasi gioire di questo suo vagare senza meta, almeno quando il freddo non le entra nelle ossa, almeno quando gli sguardi di commiserazione non la mettono a disagio, almeno quando la solitudine non le divora l’orizzonte o quando gli amici non le scivolano via ancora e ancora, come sfondi tra gli sfondi, come quel tutto che le scorre accanto. E così Fern incontra, incontra un’umanità che si racconta, e il film prende una lirica quasi documentaristica quando le parole degli sconosciuti iniziano a lasciarsi alle spalle ogni velleità recitativa e diventano sincere testimonianze di chi si narra con una timidezza quasi commovente. È la cifra narrativa di un nuovo e crudo post-neorealismo che appare in tutta la sua disarmante potenzialità espressiva e non mancherà di segnare altre produzioni di questo tipo in futuro.

L’epilogo della nostra storia, a questo punto, non può che incrociare Fern e Massimo in un parcheggio. Fern è infatti per la seconda volta approdata con il suo guscio davanti ad un hub di Amazon, in una qualsiasi periferia statunitense. Sono le feste. Lei si infila in testa una coroncina e accende una scintilla di natale. In tutto il mondo quelli come lei attendono il Black Friday dall’altra parte dello schermo nero, in quel parcheggio. Nell’emisfero est Massimo ha già perso il lavoro, forse proprio per aver raccontato la sua vicenda a un quotidiano. Fern invece è risalita sul suo camper e la vediamo spostare della ghiaia sulla costa o raccogliere rape in un campo assolato. La storia dell’umanità è inevitabilmente la storia di un’incessante lotta tra le classi. Un conflitto nascosto dal ribollire stesso dell’attività umana oppure dalla cenere degli eventi che la seguono, un conflitto che spinge le periferie al furore dell’assalto, che matura nelle condizioni dettate dal dominio e si manifesta nelle forme che poi assume tanto la resistenza quanto la capacità adattiva dell’animale umano a quello stesso dominio. 

Fern e Massimo si incontreranno un giorno, statene certi.

*Giancarlo Ghigi, laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova, è libero professionista nel settore della comunicazione e attivista nella tutela dei beni comuni. Ha collaborato con Pearson, Il Mulino, Inchiesta, Stati Generali, Il granello di Sabbia.

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