
Biden è l’avversario che Trump sogna di avere
L’establishment del Partito democratico sta sostenendo un candidato debole, difensore di banche e aziende farmaceutiche, sessista e pieno di contraddizioni. Con davvero scarsi argomenti per mettere in difficoltà Trump
Joe Biden potrebbe aver fatto un miracolo durante il Super Tuesday, ma per i grandi capi della Democratic National Committee (Dnc) è il candidato della disperazione. Hanno corteggiato per un anno Beto O’Rourke, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Mike Bloomberg, hanno preso in considerazione persino Elizabeth Warren nella speranza che una persona qualsiasi, uno qualunque, potesse fermare Bernie Sanders. Alla fine, è rimasto Biden.
L’establishment del partito ha fatto quadrato intorno a un candidato che in trentadue anni non è mai riuscito a candidarsi come presidente. Nel giro di qualche settimana o di qualche mese, gli elettori democratici si pentiranno del fatto che un uomo balbettante, incoerente e subissato di scandali come Biden sia il loro probabile candidato. Donald Trump farà a pezzi Biden raccogliendo critiche e insulti da destra e sinistra. «Sleepy Joe», come è stato soprannominato Biden per i suoi problemi di memoria, sarà preso in giro senza pietà per non essere capace di distinguere la sorella dalla moglie, non sapere a quale carica si è candidato o cosa sia un sito internet.
Amico di senatori segregazionisti, oppositore della desegregazione razziale e fautore dell’incarcerazione di massa, Biden non può attaccare Trump sul razzismo o sulla riforma della giustizia criminale. Persecutore di Anita Hill e palpeggiatore di donne, per quanto riguarda il sessismo Biden è facilmente neutralizzabile da Trump. Sostenitore della guerra in Iraq, sarebbe massacrato da Trump, che ha posto fine alla guerra. Difensore di banche e case farmaceutiche, Biden è l’avversario che Trump sognava di avere.
Del resto Biden ha poco da offrire. Sta ripetendo la campagna del «No, you can’t» di Hillary Clinton, che l’ha fatta perdere contro Trump al di là di ogni pronostico. La piattaforma di Biden è tutta fatta di no: no a Medicare for All; no al Green New Deal; no a una riforma radicale delle leggi sull’immigrazione; no alla cancellazione del debito studentesco. Biden non ha alcuna visione, buona o cattiva, per innescare una risposta di massa come accadde a Obama nel 2008, a Reagan nel 1980, o persino a Trump nel 2016.
È un film già visto. È il reboot della campagna di Michael Dukakis del 1988, quando le élite del Partito democratico e i media corporativi si schierarono freneticamente dalla parte del governatore del Massachusetts per fermare la campagna ribelle stile New Deal di Jesse Jackson. Dukakis condusse una campagna elettorale tristemente nota per la sua incompetenza, puntellata dagli spot razzisti di Lee Atwater su Willie Horton. La sua inettitudine e mancanza di appeal sono preoccupantemente simili a quelle di Biden, che sembra essere l’ultimo di una lista di candidati capaci di mobilitare il partito a loro favore nelle primarie solo per essere poi sconfitti nelle elezioni presidenziali. Questa lista include Walter Mondale nel 1984, Bob Dole nel 1996, Al Gore nel 2000, John Kerry nel 2004, John McCain nel 2008, Mitt Romney nel 2012, e Hillary Clinton nel 2016.
Ciascuno di loro era un insider di partito oberato dal peso di decenni di compromessi paralizzanti e da un’opinione pubblica anestetizzata. Ebbero la meglio sugli sfidanti e gli outsider nella corsa delle primarie, ma ciascuno di loro fallì perché era prigioniero di un partito che non aveva alcuna grande visione da offrire.
Se fosse Bernie a ottenere la nomination, sarebbe difficile prevedere l’esito delle presidenziali, e questo è un bene. L’incertezza aiuta Bernie perché fa sbilanciare Trump. Il suo arsenale non avrebbe alcun effetto se il messaggio di Bernie prendesse piede nell’ampia fetta di elettori non votanti giovani, a basso reddito, e non bianchi. Questi elettori superano di gran lunga i bianchi indecisi che i media adorano perché giustificano il loro attaccamento egoista al centrismo immobilista.
Con Biden come candidato, invece, sarebbe facile prevedere il risultato del voto. Trump lo prenderebbe in giro per la sua età avanzata e per i suoi balbettii incoerenti. Lo attaccherebbe per le sue posizioni socialiste a favore dell’aborto e contro le armi. Biden eviterebbe un confronto su questi temi perché la sua visione non va oltre un compromesso aziendalista. A ogni dichiarazione – «Non sono un socialista. Non sono contrario alle armi. Non sono contrario ai combustibili fossili. Non sono contro la polizia» – Biden smorzerebbe l’entusiasmo dei settori sociali da cui dovrebbe ottenere il supporto. Più preoccupato di far felici gli opinionisti e gli amministratori delegati, Biden soffocherebbe la passione bruciante della coalizione di Sanders di cui ha un disperato bisogno.
Biden criticherà Trump per il suo bigottismo sull’immigrazione, ma offrirà in cambio soltanto una mistura a là Obama di protezione del Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals) e vaghi percorsi sulla cittadinanza. Loderà i bravi lavoratori americani che meritano un’opportunità ma non proporrà nulla di coraggioso per convincerli. Sul piano della salute, sarà molto simile a Obama – proteggendo l’Affordable Care Act e le vuote promesse sui prezzi dei medicinali e contemporaneamente uccidendo il sogno della sanità come diritto fondamentale.
In ogni proposta politica Biden promette un terzo mandato di Obama che i liberali stile Get Out adorerebbero e che Trump ha già sconfitto quattro anni fa. Nel frattempo, Trump ordinerà all’Fbi e al Dipartimento di Giustizia di indagare sugli affari suoi e di Hunter. Giocherà sporco. Le losche elemosine agli elettori neri da parte degli alleati di Trump sono solo un piccolo assaggio di quello che ci aspetta.
Non c’è molto che suggerisca che i lavoratori del Midwest passeranno a Biden, il quale non può vincere senza conquistare la fiducia della vecchia cintura industriale. Molti sindacati probabilmente saranno divisi, come nel 2016, tra funzionari e persone di colore che parteggeranno per il candidato democratico, e molti lavoratori bianchi sedotti dal fascino da uomo forte di Trump e dalla sua retorica protezionista.
La disperazione liberal è iniziata durante il Super Tuesday, con le intimidazioni ai sostenitori di Sanders sulla Corte Suprema: «Abbiamo bisogno di un democratico per proteggere la Corte da una maggioranza di estrema destra che durerà per un’intera generazione». È il segno che hanno già perso. È come la dichiarazione che Buttigieg e Klobuchar hanno rilasciato qualche giorno prima di ritirarsi: «Non votate Sanders perché influenzerà le campagne per la Camera e il Senato». Con argomenti simili stanno di fatto ammettendo di non avere proposte in grado di convincere gli elettori. E quindi tentantano di convincerli con un misto di paura e calcolo razionale sugli effetti di secondari.
Non sembra proprio che Biden sia in grado di vincere le elezioni. Se dovesse essere lui il candidato, farà leva sul patrimonio di Bloomberg per essere eletto. È una strategia rischiosa, ora che «l’amministratore delegato delle perquisizioni a tappeto» si è ritirato dalle primarie a mani vuote dopo aver speso mezzo miliardo di dollari. C’è la possibilità di che un evento imprevedibile, come ad esempio la pandemia di coronavirus, metta in ginocchio Wall Street facendo fuori il principale argomento di Trump per la propria rielezione.
La prospettiva migliore per Biden per riuscire a vincere le elezioni da qui a otto mesi è più o meno questa: sperare che un miliardario razzista e un virus battano un razzista virale. Io, sinceramente, preferirei sperare nella rimonta di Bernie Sanders.
*Arun Gupta è un giornalista diplomato al French Culinary Institute di New York e autore del libro di prossima uscita Bacon as a Weapon of Mass Destruction: A Junk Food-Loving Chef’s Inquiry Into Taste. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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