
Biden sotto accusa per molestie
La donna si chiama Tara Reade. Negli anni Novanta ha lavorato nello staff del candidato democratico. Sostiene di aver subito un abuso sessuale. Il fatto trova riscontri e anche i media mainstream non possono più ignorarlo
Il 24 marzo scorso usciva su The Intercept il primo articolo di Ryan Grim sulle accuse di molestie sessuali mosse a Joe Biden da parte di Tara Reade. La donna oggi ha 56 anni, le sue accuse si riferiscono al 1993, quando aveva lavorato a Washington nel team dell’allora senatore del Delaware. Quell’articolo ha dato il via a un lunghissimo rumoroso silenzio da parte dell’establishment democratico, dell’informazione mainstream e di tutto l’entourage di ex-candidati presidenziali che ora fanno parte della grande ammucchiata intorno all’ex-vicepresidente. Silenzio che è stato rotto una ventina di giorni dopo dal New York Times e dal Washington Post, per via dell’attenzione che l’informazione indipendente aveva dedicato all’articolo con interviste a Reade. Poi il muro di gomma ha cominciato a frantumarsi negli ultimi giorni.
Sono emerse numerose prove che confermano l’accusa della donna, operatrice sociale che si occupa proprio di abusi sulle donne ed elettrice di Bernie Sanders. Ciò ha reso impossibile continuare a ignorare la situazione, nonostante il silenzio delle donne in odore di vicepresidenza che, a dispetto di posizioni formalmente sempre vicine al movimento MeToo, sembrano fare a gara a chi attesta con maggior forza la posizione imposta dal partito di strenua difesa di Joe Biden contro le «bugie» di Tara Reade. Quanto a Joe Biden per la prima volta ha accettato di rispondere a domande su questa vicenda soltanto il primo maggio scorso, nel corso della trasmissione Morning Joe di Msnbc.
La prima denuncia
Ryan Grim racconta la storia di Reade partendo dall’aprile del 2019, quando la donna vede in tv Lucy Flores, una politica del Nevada, accusare Joe Biden di averle «inappropriatamente annusato i capelli e baciato la nuca mentre aspettava di parlare in un comizio nel 2014». Tara Reade rilascia poi un’intervista a un giornale californiano della sua contea, corroborando sia le affermazioni di Flores sia quelle di altre sei o sette donne che avevano già denunciato situazioni analoghe. Tuttavia, per pudore o per paura, Reade omette di raccontare l’episodio più crudo e invasivo della sua esperienza con Biden.
Subito dopo comincia a essere presa di mira sui social network. Viene minacciata di morte e accusata di infamie di ogni tipo, si arriva a sostenere che Reade sia una spia russa per via di alcuni commenti online su Putin. Spaventata, molla tutto, ma dopo qualche mese decide di continuare la sua battaglia. Dopo tutto non è più il 1993, ora c’è il movimento MeToo e Time’s Up, l’organizzazione non-profit di raccolta fondi, lanciata nel dicembre 2017 all’interno del National Women Law Center, per dare sostegno e assistenza legale alle vittime di abusi sessuali. A queste associazioni racconta tutta la sua storia, questa volta senza alcuna omissione, e ottiene il supporto morale e legale di cui ha bisogno. Solo che nessuno degli avvocati che incontra accetta di rappresentarla. Data la natura non-profit di Time’s Up, una causa legale contro un candidato in corsa per una carica federale metterebbe a rischio l’esenzione dalle tasse dell’organizzzione. Tutti sono spiacenti e apprezzano il suo coraggio ma le cose stanno così. Punto.
A questo punto Ryan Grim comincia a indagare. Non solo scopre che quella giustificazione, data anche a lui, è alquanto dubbia a parere di esperti di legge fiscale, ma anche che la ditta di public relation SKDKnickerbocker, incaricata da Time’s Up di trovare gli avvocati per i vari casi di cui si occupa, è diretta da Anita Dunn, personaggio molto in vista dell’establishment democratico nonché top adviser della campagna di Joe Biden.
Nei sotterranei di Washington
Nonostante il silenzio dei media mainstream, l’articolo di Grim trova presto riscontri nell’informazione progressista e indipendente. Già il giorno successivo Tara Reade viene intervistata da Katie Halper nel suo podcast Katie Halper Show.
Tara piano piano trova sicurezza e racconta. Per ordine di una sua superiore era scesa in uno dei lunghi corridoi che interconnettono i vari palazzi degli uffici governativi per portare a Biden la sua borsa da ginnastica. Lì, nell’isolamento totale, si era ritrovata contro il muro, con le mani e le dita di Biden sotto i vestiti e dentro di lei, mentre lui le sussurrava: «Vuoi che andiamo da qualche altra parte?». Quando lo aveva allontanato lui aveva reagito dicendo: «Come on, man, mi avevano detto che ti piacevo». E poi: «Tu per me non sei niente. Niente». Tara non sa cosa sia successo subito dopo, forse ha perso il controllo perché il ricordo successivo è Biden che la tiene per le spalle e le ripete: «È tutto ok». Tara dice di essersi subito confidata con sua madre, attivista e femminista di lunga data scomparsa nel 2016, che insisteva affinché lei andasse subito alla polizia. Suo fratello e la sua amica che lavorava nell’ufficio di Ted Kennedy erano invece di altro parere. E comunque Tara alla polizia non voleva andarci. E non è nemmeno difficile comprendere perché.
Il caso Anita Hill
L’affaire Monica Lewinsky non era ancora accaduto. Solo due anni prima, nel 1991, si era concluso nel peggiore dei modi il caso di Anita Hill, fedelmente raccontato nel film Confirmation del 2016. La professoressa universitaria di legge aveva denunciato Clarence Thomas, scelto da Bush padre per sostituire alla Corte Suprema il grande Thurgood Marshall, per le molestie sessuali subite quando lavorava per lui. Nelle audizioni in senato, davanti a una commissione di soli uomini presieduta da Joe Biden, Anita era stata umiliata talmente tanto che alla fine aveva ritirato la denuncia. E così Clarence Thomas, confermato alla Corte suprema dalla maggioranza dei senatori, occupa ancora il suo posto nell’organo giudiziario più importante degli Stati uniti, all’interno del quale nel 2018 è entrato anche l’altro «predatore» Brett Kavanaugh, scelto da Trump per sostituire Anthony Kennedy.
Nella sua intervista Tana Reade racconta di come fosse cambiata la sua vita in ufficio dopo aver denunciato ad alcuni superiori dello staff il suo disagio per certi comportamenti di Biden, pur senza fare riferimento all’episodio del corridoio. Dopo quelle lamentele, un giorno Biden le aveva fatto dire che voleva che andasse a «servire da bere a un evento» di raccolta fondi, perché «aveva delle belle gambe» ed era «carina» e lei aveva rifiutato. Era dunque cominciato un mobbing progressivo fatto di osservazioni e rimproveri continui, con lo spostamento in una stanza senza finestra, la rimozione di tutti i lavori prima affidati a lei, il controllo costante persino quando andava in bagno oltre all’invito a trovarsi un altro lavoro entro un mese. Finché a giugno si concluse il suo incarico, e da lì in poi a Washington ha trovato le porte sbarrate.
Lo staff di Biden
Il 27 marzo l’ufficio di Biden rilascia due comunicati. Il primo, della direttrice delle comunicazioni Kate Bedingfield, recita: «Le donne hanno il diritto di raccontare le loro storie, e i giornalisti hanno l’obbligo di controllare rigorosamente quelle affermazioni. Noi li incoraggiamo a farlo, perché queste accuse sono false».
Nella seconda dichiarazione l’ex-assistente esecutiva di Biden dal 1982 al 2000 Marianne Baker, più volte citata da Tara Reade, dice tra le altre cose:
In tutti gli anni nei quali ho lavorato per il senatore Biden, non una sola volta sono stata testimone, ho sentito, o ho ricevuto rapporti di condotta inappropriata – né da Ms. Reade, né da chiunque altro. […] Queste accuse false sono in totale contraddizione tanto con i lavori interni del nostro ufficio in Senato, quanto con l’uomo che conosco e col quale ho lavorato da vicino per quasi due decenni.
Il 12 aprile, dopo 19 giorni dall’articolo di Grim, il New York Times pubblica un articolo intitolato Examining Tara Reade’s Sexual Assault Allegation Against Joe Biden. Il cappello introduttivo si conclude così:
Durante il corso dell’indagine non è emersa nessun’altra accusa, né altri membri dell’ex-staff di Biden hanno corroborato alcun dettaglio dell’accusa di Ms. Reade. Il Times non ha trovato prove di malcondotta sessuale da parte di Mr. Biden.
Nonostante l’ambiguità dell’ultima frase, il lungo articolo del Times non arriva alla conclusione che Ms. Reade abbia mentito. Sostanzialmente non aggiunge nulla di nuovo e conferma la compattezza dello staff di Biden nel difenderlo. Tuttavia da alcuni giorni quel testo, ormai superato da ulteriori testimonianze a favore di Tara Reade, viene utilizzato come prova inconfutabile del fatto che Reade è una bugiarda.
Il giorno seguente il Washington Post si concentra soprattutto sull’aspetto psicologico di Tara, parlando della sua instabilità e delle sue contraddizioni, come se tali caratteristiche non fossero parte di ciascun essere umano.
Il punto di svolta
Si arriva a un punto di svolta nei media quando Grim, ospite di uno dei podcast di Katie Halper, parla di una telefonata che la mamma di Tara avrebbe fatto al famosissimo programma della Cnn Larry King Show per chiedere un consiglio. Pur avendo fatto ricerche, dice Grim, non è riuscito a trovare quella telefonata. Il giorno dopo un ascoltatore, che sapeva dove e come cercare, gli manda la clip. Venerdì 24 aprile the Intercept esce con il secondo articolo di Ryan Grim che riporta anche la trascrizione e il link al video della telefonata con Larry King:
«Larry King: San Luis Obispo, California. Hello.
Voce femminile: Mi domando che cosa possa fare un’impiegata di uno staff a Washington se non rivolgersi alla stampa. Mia figlia se ne è appena andata da lì dopo aver lavorato per un prominente senatore e non riesce assolutamente a superare i suoi problemi, e l’unica cosa che avrebbe potuto fare era rivolgersi alla stampa, ma non l’ha fatto per rispetto verso di lui».
La puntata è dell’estate 1993 e la madre di Tara Reade viveva a San Luis Obispo in California. L’articolo fa il giro dei media indipendenti, mentre quelli mainstream continuano a tacere. Come di consueto, il senatore rilascia diverse interviste durante il week-end, ma nessun giornalista osa tornare sulla faccenda.
Si arriva a lunedì 27 aprile, quando un articolo di Rich McHugh, apprezzato giornalista investigativo noto per il caso Harvey Weinstein, porta alla luce due nuove testimoni a favore di Reade.
Una è Lynda LaCasse, sua vicina di casa alla metà degli anni Novanta. La seconda è Lorraine Sanchez, collega di Reade durante il suo impiego nell’ufficio di un senatore nel congresso californiano dal ‘94 al ‘96. Facendo ricerche tra gli ex colleghi di Tara a Washington, McHugh trova il solito muro di gomma, ma anche una persona che, pur non sapendo nulla delle molestie sessuali, ricorda che Tara Reade di punto in bianco fu sollevata da tutti i suoi incarichi e spostata nello stanzino.
Nonostante tutto martedì Joe Biden riceve l’endorsement di Hillary Clinton nel corso di un paradossale townhall virtuale di donne, dove le accuse sono di nuovo ignorate.
I riflettori mainstream
Ed eccoci all’ultimo capitolo o meglio, forse, al primo di una nuova serie, dettato dall’improrogabilità di rimandare all’infinito la questione Reade-Biden da parte dell’establishment e dei media.
Stacey Abrams, una delle candidate in gara per la vicepresidenza, appare alla Cnn nel programma di Don Lemon. Sembrano il poliziotto buono e quello cattivo. Lemon ha il compito di fare domande provocatorie, Abrams quello di rispondere difendendo Biden a spada tratta. Lei è visibilmente imbarazzata, incespica, dà spesso l’impressione di cercare le parole giuste nella testa.
Credo che le donne meritino di essere sentite e credo che abbiano bisogno di essere ascoltate. Ma credo anche che le accuse debbano essere investigate da fonti credibili. Il New York Times ha condotto un’indagine accurata e ha scoperto che l’accusa non era credibile. Io credo a Joe Biden.
Non importa insomma se l’articolo del New York Times sia ormai vecchio e non riporti le prove nel frattempo venute fuori. Le direttive del partito sulle posizioni da sostenere diventano il mantra delle varie aspiranti vicepresidenti, che da un giorno all’altro dimenticano le battaglie fatte contro Trump e contro Kavanaugh. Significativo è il caso di Kristen Gillebrand, diventata talmente anti-MeToo dopo le lotte in prima linea contro Brett Kavenaugh, e soprattutto contro l’ex-senatore Al Franken, da sembrare una sua sosia venuta fuori da un baccello dell’Invasione degli Ultracopri.
Venerdì primo maggio Joe Biden viene intervistato su Tara Reade per la prima volta. A rompere il ghiaccio è Mika Brzezinski conduttrice con Joe Scarborough della trasmissione mattutina di Msnbc Morning Joe. Nel faccia a faccia di una ventina di minuti Brzezinski va diretta al punto, scusandosi con gli spettatori per la descrizione dettagliata dell’assalto sessuale raccontato da Tara Reade, dopo la quale chiede a Biden:
Brzezinski: Lei ha assalito sessualmente Tara Reade?
Biden: No, non è vero. Lo dico inequivocabilmente. Non è mai, mai accaduto. È così, non è mai accaduto.
Brzezinski: Si ricorda di qualche tipo di denuncia che lei abbia fatto?
Biden: Non ricordo alcun tipo di denuncia che possa aver fatto. Era 27 anni fa e non ricordo e non c’è nessuna denuncia di cui io sia a conoscenza e non ricordo di alcuna denuncia che possa aver fatto.
Brzezinski: Lei o la sua campagna l’avete mai contattata?
Biden: No, io non l’ho mai contattata. 27 anni fa questo non è mai accaduto e quando lei ha fatto le sue dichiarazioni per la prima volta abbiamo dichiarato apertamente che non è mai successo e le cose stanno semplicemente così.
Dopo che Biden ribadisce questa versione, l’attenzione si sposta sul luogo nel quale potrebbe trovarsi la denuncia compilata da Tara Reade. Forse negli archivi del senato, come sostiene Biden che invita a fare aprire i documenti. O all’Università del Delaware, dove i documenti sono stati risigillati dopo che il faldone era stato aperto nel gennaio 2019. Biden insiste che nei file del Delaware un documento di quel genere non può essere stato archiviato, perché lì ci sono solo le documentazioni relative ai suoi discorsi pubblici e alle sue interazioni con le personalità politiche americane e straniere. Tutti documenti, dice Biden, che non possono essere resi pubblici ora, perché danneggerebbero la sua campagna elettorale se qualche informazione venisse estrapolata fuori contesto e resa pubblica. Brzezinski insiste, chiedendo la formazione di una commissione al di sopra di ogni sospetto che, nelle oltre 1.800 scatole di carte custodite dall’Università del Delaware, cerchi soltanto quelle in cui sia presente il nome di Tara Reade, ma Biden altrettanto insistentemente ribadisce che lì non c’è niente. In fondo, dice alludendo al New York Times e al Washington Post, già due media autorevoli hanno condotto tutte le indagini e non hanno trovato nulla.
Quel che purtroppo manca in questa intervista è ancora una volta la citazione delle altre prove e testimonianze addotte dopo il famoso articolo del New York Times.
* Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
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