
Bowling a Belgrado
In Serbia una catena di mass shooting rivela disagio sociale e ripropone in forme nuove la violenza che ha segnato il paese negli scorsi anni. Il presidente Vučić, erede dell’era Milošević, ne approfitta per aumentare la repressione
Mercoledì scorso, la capitale della Serbia, Belgrado, è stata scossa da una sparatoria avvenuta in una delle scuole elementari della città. Il tiratore, di soli tredici anni, ha ucciso otto suoi coetanei e una guardia di sicurezza prima di chiamare la polizia per costituirsi.
Il giorno dopo ci sono stati episodi emulativi in altre cinque scuole: quattro a Belgrado e una a Bihać, nella vicina Bosnia, dove i bambini hanno stilato elenchi di uccisioni, minacciato con pistole giocattolo o aggredito i loro insegnanti e coetanei con coltelli. Poi, venerdì, si è verificata una seconda sparatoria, questa volta a sud della capitale, con otto morti e 14 feriti.
In entrambi i casi, alcuni sopravvissuti sono ancora in condizioni critiche e non è ancora chiaro se il bilancio delle vittime aumenterà. In totale, la polizia è intervenuta in venticinque presunti casi di crimini imitativi nella sola Serbia. Altre due minacce sono state segnalate a Trbovlje, in Slovenia, e altre due a Skopje, nella Macedonia del Nord, confermando i timori che il contagio si diffonda nei Balcani occidentali.
In precedenza, a Belgrado non si erano mai verificate sparatorie di massa nelle scuole, né erano comuni nella regione. Ma questi eventi hanno cambiato tutto. Da Zagabria a Priština e Novi Sad le messe a lume di candela per le vittime sono state accompagnate da avvertimenti che lo stesso potrebbe accadere al di fuori di Belgrado. E i politici autoritari lo stanno usando a loro vantaggio.
Per i lettori non locali, va tenuto presente che la violenza in sé non è così nuova: si sono già verificate sparatorie di massa da parte di adulti e la Serbia ha vissuto diverse guerre negli ultimi decenni, a cominciare dalla disgregazione della Jugoslavia e dal tentativo di Slobodan Milošević di mantenere il potere. I suoi amici e colleghi gestiscono ancora oggi il paese; Aleksandar Vučić, l’attuale presidente, è stato ministro dell’informazione nel governo di Milošević, attraverso il quale ha soppresso la libera cronaca, specialmente durante la campagna di bombardamenti Nato nel 1999. In linea con il suo record di belligeranza, la Serbia è terza al mondo per possesso di armi, subito dopo Yemen e Stati Uniti.
Declino sociale
Tuttavia, non si tratta solo di pistole, ma anche di una società divisa tra estremi. La Serbia è uno dei paesi europei più diseguali per reddito, con l’85% della popolazione che riceve meno del salario medio. Vanta anche, di gran lunga, il più grande partito al governo in Europa, con oltre 750.000 membri. I media non sono liberi ma controllati dai partiti, proprio come i servizi pubblici e persino le scuole.
Le istituzioni educative del paese hanno anche affrontato riforme orientate al mercato, che includono l’adescamento dei bambini all’«imprenditorialità» fin dalla tenera età. I ragazzi delle scuole superiori sono sottoposti alla cosiddetta doppia educazione, in cui possono essere assegnati a un’azienda privata (a Bor mandano anche gli adolescenti a lavorare nelle miniere) in cui hanno poca o nessuna protezione legale, dato che sono minorenni. Se l’età della responsabilità penale viene abbassata, come proposto dopo il primo omicidio, possiamo aspettarci che questo gruppo già vulnerabile sia soggetto a manipolazione selettiva da parte dello stato.
Ma al di là dei dati, se a qualsiasi adolescente domandi della sua esperienza in Serbia, otterrai una storia di declino sociale. Gli adolescenti di oggi sono quelli che sono cresciuti con nient’altro che il periodo di crisi post-2008. Hanno assistito non solo al calo degli standard sociali, ma anche all’aumento delle tensioni politiche a causa del tentativo del partito al governo di rafforzare la sua presa su tutti gli aspetti della società e di restituire il potere alle classi dominanti, spesso le stesse che hanno tratto profitto dai conflitti armati nelle guerre successive alla Jugoslavia Non c’è quindi da stupirsi che gli eventi di maggio siano stati riconosciuti da un’associazione di studenti delle scuole superiori come conseguenza di un più ampio disagio sociale.
Si potrebbe pensare che i capi di governo sarebbero scossi da tutto questo. Ma il presidente Vučić, un corrotto politico in carriera, ha trovato un lato positivo: rafforzare la sorveglianza della polizia e il controllo statale, tutto in nome della sicurezza dei bambini.
Quando ha avuto luogo la prima sparatoria, il presidente ha dedicato particolare attenzione a quanto fosse «benestante» la scuola di Belgrado, a come lo sparatore se la cavasse in classe, quanto fosse rispettabile suo padre (un medico), e ha annunciato diverse misure sul controllo delle armi. La reazione alla seconda sparatoria alla periferia di Belgrado, invece, è stata in totale contrasto. In questo secondo caso, il ministro dell’Interno Bratislav Gašić ha definito l’attentato un «atto terroristico», anche se senza alcuna giustificazione giuridica. Subito Vučić e i media statali hanno cominciato a utilizzare ampiamente questa etichetta.
La polizia ha poi arrestato un membro della comunità musulmana di Belgrado, descrivendolo come un terrorista islamista, a causa di alcuni status ambigui su Facebook (come «A volte devi farti giustizia da solo»). Tuttavia, l’associazione di avvocati della Camera penale di Belgrado si è espressa contro l’etichettatura della seconda sparatoria come «minaccia terroristica» senza alcuna motivazione ufficiale. È stata una rapida escalation che, come vedremo, ha portato a livelli di controllo statale inauditi, anche rispetto a quelli raggiunti durante la pandemia di Covid-19.
Il secondo assassino
Il sospettato del secondo omicidio, un ventunenne che viveva alla periferia di Belgrado, è stato catturato con indosso una maglietta della «Generazione 88» (il numero ottantotto segna l’ottava lettera dell’alfabeto inglese – HH, una sigla per «Heil Hitler»). La polizia ha trovato diverse armi da fuoco come bombe, un fucile automatico e munizioni nell’appartamento di suo nonno, dove si è nascosto mentre fuggiva dalla polizia. Pochi dettagli sul suo passato sono stati resi pubblici, ma ha ammesso la sua colpevolezza durante l’interrogatorio.
Anche se non è stato formalmente arrestato con l’accusa di terrorismo, sia il governo che la polizia si sono affrettati a etichettare l’attacco come un atto di terrore motivato ideologicamente: cioè un’azione politica che richiede una forte risposta politica. Difficilmente si può escludere che sia un nazista. Ma esperti legali e criminologi hanno sottolineato che l’omicidio di massa e un atto di terrorismo non sono lo stesso reato e dovrebbero essere trattati in modo diverso. Secondo la legge, l’ufficio del pubblico ministero dovrebbe avviare la classificazione di un autore come terrorista, il che significa che propone di inserirlo nell’elenco statale delle organizzazioni terroristiche, analogamente a quanto accade negli Stati uniti. Lo stato dovrebbe quindi emettere un decreto che lo designi come tale e il giudice dovrebbe accettare o rifiutare tale appellativo.
È invece avvenuta una etichettatura ad hoc del reato da parte del presidente e del ministero dell’Interno. Questo, in effetti, era già successo. Anche il recente arresto di un musulmano — che non aveva alcuna relazione con il crimine — con l’accusa di terrorismo si basava sui suoi post su Facebook (da allora non sono state diffuse informazioni pubbliche). Questo ci dice che lo stato serbo attualmente consente un’interpretazione abbastanza libera di ciò che costituisce un atto di terrorismo. Ciò lascia molto spazio a un possibile abuso della categoria «terrorista», come ad esempio accade negli Stati uniti. Per ora, molto dipende dal fatto che lo stato possa desumere informazioni sufficienti per etichettare legalmente la seconda sparatoria come atto terroristico.
Apparato repressivo
Per ora, è probabile che assisteremo a un aumento delle misure di polizia a breve termine, con «soluzioni» a lungo termine da attendersi in futuro.
Da questo punto di vista si possono capire le prime reazioni dello Stato. Dopo la seconda sparatoria, Vučić ha annunciato diverse misure, tra cui l’aumento del numero delle forze di polizia di 1200 persone, il loro stazionamento «in ogni momento» in ogni singola scuola in Serbia e l’esecuzione del «disarmo» della popolazione, con armi da fuoco illegali previste da confiscare senza conseguenze entro la metà di giugno, e successivamente con persecuzione legale. Il 5 maggio il governo ha rapidamente accettato la maggior parte di queste misure. L’8 maggio, il ministero dell’Interno ha iniziato a emettere comunicati interni alle scuole, chiedendo loro di redigere elenchi di alunni considerati a) possibili autori, b) possibili bersagli e c) che esprimano «comportamenti asociali». Ha annunciato anche l’invio di squadre per le ispezioni scolastiche.
Probabilmente ne seguiranno altri: Vučić ha annunciato che i membri delle forze di polizia potranno entrare nelle case delle persone a volontà e senza un ordine del tribunale, cosa che era stata respinta due volte nei precedenti tentativi di riformare la legge sulla polizia. In risposta alla prima sparatoria, anche l’età per l’azione legale sarà abbassata da quattordici a dodici anni, il che ha suscitato un’ampia opposizione. Tuttavia, sembra che Vučić abbia il sopravvento, sostenendo che i problemi di sicurezza ora richiedono maggiori misure. Inoltre, anche i recenti proclami del sindacato di polizia serba vanno nella stessa direzione, con richieste a breve termine per l’introduzione di un coprifuoco di polizia.
Il ruolo dei media nell’escalation di queste preoccupazioni non dovrebbe essere dimenticato. Riportando nomi e cognomi delle vittime, immagini, dati e titoli altisonanti, la maggior parte dei media sensazionalisti ha dipinto il crimine come un’altra merce da vendere sul mercato dell’informazione. Secondo alcuni, ciò ha solo gettato benzina sul fuoco, in quanto la probabilità di reati di imitazione è aumentata fino a diventare una «emulazione generalizzata», contribuendo così ad aggravare la situazione nella realtà, e non solo nei dossier di polizia. Quindi, la paura e la preoccupazione che i media liberali avevano poi diffuso, a loro volta, hanno alimentato le ambizioni di controllo statale di Vučić.
L’«antifascismo» di Vučić
Il desiderio di Vučić di un maggiore controllo statale ha le sue ovvie radici nella sua formazione di politico. Come accennato, era un politico attivo già durante la guerra degli anni Novanta, ed era anche un membro del governo di Milošević.
Né le sue ambizioni repressive sono diminuite nel corso degli anni. Dopo la sua ultima elezione, ha messo a capo dei servizi segreti (Bezbednosno-informativna agencija, o Bia) il filorusso Aleksandar Vulin. Vulin è contemporaneamente il capo del cosiddetto Partito socialista serbo – in realtà, il residuo dei quadri di Milošević degli anni Novanta, con un occhio amichevole verso Mosca. Vulin è stato messo a capo dei servizi segreti sulla base della sua presunta specializzazione nel prevenire le «rivoluzioni colorate». Secondo i media locali, ha persino istituito un «gruppo di lavoro per la soppressione delle rivoluzioni colorate» con il Consiglio di sicurezza russo, con i cui alti rappresentanti ha già incontrato. Inoltre, i media filo-statali hanno iniziato a prendere di mira singoli giornalisti e attivisti solo pochi anni fa, e c’era già stata un’escalation della repressione di massa della polizia durante la pandemia di Covid-19. In particolare, la Serbia ha l’unico partito al governo in Europa che ha apertamente sostenuto Putin e non ha indotto sanzioni alla Russia, e il paese ha anche assistito a proteste pro-Putin.
Vale la pena notare che l’agenda dello «stato di polizia» di Vučić sarebbe stata messa in atto anche prima, se un precedente disegno di legge di riforma della polizia – che dava alla polizia il diritto di rimanere anonima, il diritto di disporre di più dati personali più liberamente e persino di legalizzare informatori della polizia – siano stati respinti di fronte alle critiche degli esperti e alle proteste pubbliche.
Man mano che le tensioni sociali si sono rafforzate negli ultimi anni, la mancanza di tali poteri di polizia ha ripetutamente danneggiato Vučić. Il picco è arrivato con il massiccio movimento di protesta contro l’estrazione del litio, subito dopo che una serie di leggi sono state modificate per accogliere multinazionali come Rio Tinto a spese delle popolazioni locali. Di fronte a questo movimento, questo governo è stato visibilmente scosso e quasi completamente abbattuto. Mentre il progetto Rio Tinto è stato sventato all’inizio del 2022, c’erano timori che Vučić potesse rimetterlo in carreggiata, anche attraverso una maggiore repressione.
Sembra che questa tragedia abbia offerto a Vučić la possibilità di fare ciò che non è riuscito a realizzare con la legge di riforma della polizia, offrendogli un pretesto per intensificare i precedenti tentativi di espandere l’apparato repressivo.
L’emulazione regionale
Se viene accettato che una sparatoria venga definita un atto di terrorismo – come giustificato dalla presunta lotta di Vučić contro il fascismo – ciò può mettere in moto una guerra al terrore in stile statunitense, con una giustificazione in stile russo. A lungo andare, non è irrealistico ipotizzare ulteriori esperimenti di questo tipo. Ciò è particolarmente importante dal momento che la scorsa settimana Vučić avrebbe chiesto al primo ministro Ana Brnabić di reintrodurre la pena di morte. La sua richiesta è stata apparentemente respinta e al momento sembra che non andrà fino in fondo con l’introduzione dello stato di emergenza. Ma la dice lunga su quali siano le sue intenzioni.
Tutto ciò è avvenuto in pochi giorni e le misure complete e la loro implementazione diventeranno più chiare tra alcuni giorni o settimane. Per quanto pericolosa possa sembrare l’escalation a breve termine della risposta statale, le misure adottate finora indicano un esito più a lungo termine di poteri di polizia senza limiti, che abbiamo motivo di temere diventeranno la nuova norma.
C’è un ulteriore pericolo: che possa influenzare altri stati a seguire la stessa direzione. Per cogliere questa tendenza, non è necessario viaggiare oltre la vicina Ungheria, o più a ovest fino alla Slovenia. L’ex premier di quest’ultimo paese, il leader di destra del Partito democratico sloveno Janez Janša, ha usato le sparatorie come pretesto per attaccare – tra i tanti – la sinistra slovena. Ha rilasciato alcune dichiarazioni mentre era ospite di Viktor Orbán a un incontro dei conservatori globali a Budapest, in Ungheria, durante il quale anche Steve Bannon ha tenuto un discorso online.
In definitiva, gli eventi di questa settimana pongono nuove domande sulla direzione che Vučić intenda imprimere alla Serbia. Visto lo stato d’animo filo-russo della polizia e l’aumento della repressione negli ultimi anni, non è difficile immaginare un futuro distopico per i cittadini serbi, con salari stagnanti, inflazione in aumento e crescenti tensioni sociali.
Se Vučić abbia davvero bisogno di più repressione poliziesca si vedrà abbastanza presto, soprattutto con la crescente opposizione. Durante il fine settimana ha parlato di possibili elezioni future, promettendo una «decisione fatale» per lunedì 8 maggio. Ciò che Vučić ha tradizionalmente fatto prima di ogni elezione precedente, per poi fare finta di niente.
Il giorno dopo, però, il ministro dell’Istruzione serbo, Branko Ružić, si è dimesso, come voleva l’opposizione, il che significa che Vučić aveva sacrificato almeno un ministro. Altre richieste dell’opposizione includevano anche le dimissioni del capo dei servizi segreti, Vulin, e il divieto della promozione della violenza da parte dei tabloid e dei media filo-statali. Lunedì, invece dell’annuncio di Vučić, una parte dell’opposizione e i sindacati Sloga hanno tenuto una protesta di massa a Belgrado, marciando in silenzio per le strade della capitale (circa cinquantamila persone, secondo le stime dei media). Tuttavia, Vučić oltre a creare tensioni non ha fatto sapere chi si sarebbe dimesso, nonostante la sua promessa di farlo.
In definitiva, molto dipenderà da come verranno interpretati gli eventi di questo mese e se ne deriverà un’ulteriore escalation. Se questi attacchi vengono etichettati come terrorismo, in un momento in cui diversi stati balcanici stanno già gettando le basi per prendere di mira altri attori politici, il futuro per la popolazione è, nella migliore delle ipotesi, incerto.
Non importa quanto sia tesa la situazione, dobbiamo resistere alla tentazione di chiedere uno «stato di emergenza». Vale la pena di sottolineare che almeno qualche sforzo viene dedicato all’aiuto concreto e alla solidarietà (alcune persone hanno offerto donazioni di sangue e aiuti economici alle famiglie delle vittime). Le organizzazioni educative professionali stanno già mettendo in piedi mobilitazioni e protestando contro la violenza: un messaggio di mutuo aiuto potrebbe fare molto. In ogni caso, farà molto di più degli appelli reazionari all’interventismo statale che alimentano la violenza che cercano di prevenire.
*Aleksandar Matković è ricercatore presso l’Istituto di scienze economiche di Belgrado. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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