Capitalismo e orientalismo
Un nuovo libro analizza il lavoro di Edward Said alla luce del marxismo, mostrando che l’imperialismo non è soltanto un fenomeno culturale
Recensione di After Said: Postcolonial Literary Studies in
the Twenty-First Century, a cura di Bashir Abu-Manneh (Cambridge University
Press, 2019)
Edward Said è stato uno degli intellettuali più influenti e originali del ventesimo secolo. Con ben diciassette libri all’attivo e un impegno ostinato a favore della causa palestinese, Said è riconosciuto da tutto il mondo accademico come il padre fondatore degli studi postcoloniali. Il suo lavoro ha lasciato un segno profondo non soltanto nel mondo della critica letteraria, dove la sua carriera ha avuto inizio, ma anche tra gli storici, i musicologici, e gli scienziati sociali.
Orientalismo (1978), probabilmente il lavoro più popolare di Said, è uno studio pionieristico su come l’Occidente abbia costruito i suoi miti sull’Oriente, e come abbia usato questi stessi miti per dare vita a un sistema di conoscenze tali da giustificare il controllo imperialistico. Nel suo seguito, Cultura e imperialismo (1993), Said riparte da questo assunto per rintracciare la presenza di limiti, ambizioni e sentimenti imperiali nei testi chiave di epoca moderna e vittoriana.
La sua capacità di trattare una vasta gamma di argomenti, dalla storia contemporanea – inclusa la guerra Usa in Iraq e l’occupazione israeliana – fino alle teorie musicali, testimonia un intelletto dalle incredibili capacità espressive e interpretative. In titoli come The Politics of Dispossession (1994) e l’autobiografico Out of Place (1999), Said si addentra in ricche analisi sulla condizione di migrante ed esule negli Usa e sulle politiche israeliane di invasione e annessione. In qualità di pianista affermato, Said ha pubblicato anche libri sulla musica – Musical Elaborations (1991) e Sullo stile tardo (2006) – usando spesso riferimenti alle tecniche musicali per illustrare la sua critica postcoloniale.
Malgrado si sia confrontato in maniera accesa con il razzismo occidentale e abbia sempre difeso il diritto dei palestinesi all’auto-determinazione, le analisi di Said in campo culturale tendono nel complesso a non entrare nel dettaglio della politica economica, e a non usare importanti categorie analitiche – come ad esempio la classe. La sua enfasi sullo scontro di culture e nazioni ha cancellato decenni di pensiero e pratiche radicali di intellettuali marxisti – tra cui lo stesso Marx, Rosa Luxemburg, Walter Rodeny e C.L.R. James, giusto per citarne alcuni – che sostenevano che l’accumulazione di capitale fosse la forza trainante dell’attività imperialista.
Questa densa collezione di saggi attacca al cuore le concezioni di Said e ne delinea i successi. Presenta inoltre l’opportunità di definire meglio, e in alcuni casi di rifiutare del tutto, alcune delle idee di Said, alla luce delle scoperte storiche e delle ricerche “sul campo” del ventunesimo secolo. Le novità sono particolarmente importanti per quanto riguarda le interpretazioni storiche di Said sulle cause di fondo dell’imperialismo e sul suo impatto sia sulla storia tardo moderna sia sull’epoca contemporanea.
A questo fine, diversi articoli hanno un approccio dichiaratamente marxista: alcuni comunicano in forme alternative un dissenso radicale; altri enfatizzano il fatto che le idee di Said possano essere adattate anche alle richieste empiriche tipiche delle scienze sociali. Come scrive Abu-Manneh, cogliendo la logica dietro i vari saggi: «Il pensiero critico dopo Said ha bisogno di un riorientamento radicale».
I saggi che contestano il modo in cui Said ha affrontato la storia imperiale del diciannovesimo secolo includono articoli di Bashir Abu-Manneh, Lauren M. E. Goodland, e Vivek Chibber. Abu-Manneh e Goodland contestano in maniera convincente la tendenza di Said, in Cultura e imperialismo, a leggere le società colonizzatrici in termini monolitici, o di tacciare dello stesso livello di complicità facce molto diverse del coinvolgimento imperialista, includendovi la semplice prossimità. Entrambi riflettono con perspicacia sul fatto che il ruolo della classe è largamente ignorato in Said. Come nota Goodland, Said estrapola regolarmente dalle sue letture di testi del diciannovesimo secolo – scritti perlopiù da e per il divertimento di un’élite sociale – il dato per cui sia il proletariato che la borghesia al cuore dell’impero condividessero la stessa postura coloniale.
Chibber traccia nuove possibilità per un «orientamento radicale» delle concezioni di Said sul collegamento tra le idee occidentali sull’Oriente e l’imperialismo europeo del diciannovesimo secolo. Il collegamento causale – su cui Said insisteva tanto – tra orientalismo e colonialismo secondo Chibber dev’essere messo in discussione, poiché questa motivazione da sola non basta a spiegare le razzìe dell’imperialismo europeo. Invece, un approccio più utile a inquadrare il ruolo dell’orientalismo è quello di leggerlo come «ideologia razionalizzante», designata per proteggere gli interessi economici delle potenze coloniali. Chibber sottolinea come Said non si curi di mettere in luce le ambizioni economiche dell’imperialismo del diciannovesimo secolo.
A loro volta, gli articoli di Dougal McNeill, Joe Cleary, e Robert Spencer confutano le concezioni di Said sulle incarnazioni del potere occidentale nella seconda metà del ventunesimo secolo. McNeill amplia la concezione dell’esilio di Said, che da quest’ultimo è visto esclusivamente come attraversamento di un confine, e apre «nuovi territori» per l’indagine scientifica. McNeill cita l’esempio di 1,5 milioni di rifugiati palestinesi che sono «intrappolati, traumatizzati o immobilizzati» nei campi dell’Onu per i rifugiati in Medio Oriente, così come i rifugiati trattenuti dallo stato Australiano in «strutture di detenzione offshore» in mezzo al Pacifico.
Cleary, nel frattempo, tratta di come gli ultimi sviluppi nel campo dell’analisi letteraria mondiale qualifichino le dichiarazioni di Said sull’egemonia culturale europea. Cleary osserva che raramente Said si è soffermato sui contesti della produzione letteraria del “Terzo Mondo”, e fa notare che la letteratura comparata del ventunesimo secolo, a livello accademico, è alle prese con le risposte alle «politiche di potere» globali e agli «scambi culturali» presenti in culture al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. I maggiori centri di cultura nella Russia sovietica e nella Cina tardo moderna, ad esempio, cercavano di competere con l’eurocentrismo della storia letteraria occidentale, producendo visioni dell’impero tanto reazionarie quanto progressiste. La stessa esistenza di questi centri letterari suggerisce, per dirla con Cleary, «un universo letterario policentrico, ibrido, e conteso» in un modo che stempera le teorie di Said.
Si potrebbe aggiungere al novero rappresentativo degli studi accademici di letteratura mondiale il lavoro molto popolare del Warwick Research Collective (WReC) inglese, la cui analisi sistemica delle letterature mondiali riutilizza la teoria di Leon Trotsky sullo sviluppo ineguale e combinato.
After Said finisce con un pezzo particolarmente raffinato e incisivo di Spencer sulle opinioni di Said sulla guerra in Iraq. Mentre Said ha detto molto poco riguardo alla corsa imperiale al profitto e all’accaparramento delle risorse all’apice dell’espansione coloniale, la sua attenzione alla centralità degli interessi economici nel contesto della guerra statunitense in Iraq segna un punto di svolta. Spencer si sofferma su quello che interpreta come un benvenuto per quanto tardivo riconoscimento di Said delle motivazioni del capitalismo.
Allo stesso tempo, Spencer fa una questione di principio il tenere sott’occhio le politiche e le macchinazioni statali. Il capitalismo è il motore più importante della conquista territoriale, ma le sue evoluzioni più nefaste richiedono la combinazione di altri ingredienti, come le trame politiche e la paura di perdere il potere. Appoggiandosi alle ricerche di politica economica di Giovanni Arrighi, Spencer dimostra senza appello perché la guerra in Iraq segni con decisione il declino del potere statunitense.
Lo sforzo ammirabile in After Said di aggiustare o modificare alcune delle cose che Said ha sostenuto, dà secondo me la possibilità ai futuri studiosi dell’imperialismo di prendere Marx più seriamente. Per fare ciò, ritengo che i ricercatori non debbano semplicemente mettere il capitalismo al centro dell’analisi dell’imperialismo. Il marxismo, come ci ricorda Raymond Williams, difficilmente è un corpus di opere «stabilito», ma include molte «varianti» e una grande capacità di «interagire con altre forme di pensiero».
Abbracciare una critica marxista dell’imperialismo significa prestare una particolare attenzione a quello che Williams ha chiamato «le specificità della produzione materiale culturale e letteraria nel contesto del materialismo storico». In parole povere, l’economia, la storia, la politica, e le esperienze reali devono rimanere centrali a qualunque analisi marxista del colonialismo e dell’imperialismo. È per una buona ragione che After Said, un libro che include ciascuna di queste dimensioni materiali, è dedicato tanto a Raymond Williams quanto a Edward Said.
*Rena Jackson lavora all’università di Salford, Uk. Questo articolo è tratto da Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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