Capitol Hill non è il tempio della democrazia
Lo spettacolo offerto dalla presidenza Trump (e dal finale così macchiettistico che ne ha segnato l’ultimo atto) non è un incidente di percorso, ma la realizzazione di un processo che ha radici nella natura stessa della democrazia liberista
Un mantra abbastanza diffuso nei giorni scorsi, con riferimento agli episodi avvenuti a Washington il 6 gennaio 2021, è il seguente: «a furia di incendiare gli animi dei suoi sostenitori e della popolazione statunitense più in generale, Donald Trump ha ridotto in cenere la democrazia, portando alla grottesca occupazione di Capitol Hill».
Il mio scopo non è certo quello di ridimensionare le colpe di Trump. Non è nemmeno quello di sminuire quanto avvenuto presso la sede del Congresso Usa: chiaramente siamo di fronte a un evento peculiare, anche se a mio avviso la peculiarità risiede più nella forma che nel contenuto, più nel valore iconico dell’immagine di Jake Angeli «conciato come uno dei Village People» che in un qualche reale pericolo per la democrazia. A meno che per «reale pericolo» non si consideri esclusivamente la «lesa maestà» al «simbolo per eccellenza» della «vera democrazia», ca va sans dire quella a stelle e strisce.
Sono convinto di due cose: 1) Capitol Hill ha ospitato negli anni eventi ben più lesivi del concetto di democrazia rispetto alla carnevalata del 6 gennaio 2021, palesemente favorita dalla connivenza delle forze dell’ordine; 2) l’episodio in sé, così come i quattro anni di presidenza Trump di cui questo fatto costituisce il degno epilogo, non sono un’anomalia o una deviazione rispetto alla storia della democrazia negli Usa, ma ne sono il «normale» e consequenziale punto d’arrivo.
Sul punto 1) non pare il caso di soffermarsi oltremodo: da una parte, è evidente che qualcuno (probabilmente lo stesso Trump) abbia voluto favorire l’ingresso di questo manipolo di individui dentro la sede del Congresso; dall’altra, è altrettanto palese che nessun reale pericolo di colpo di Stato sia mai stato effettivo: è parsa fin da subito una farsa più che un golpe. Maggiormente lesive del concetto di democrazia sono le leggi emanate negli anni dal parlamento statunitense rispetto a economia, ambiente, sanità e istruzione, per citare solo alcuni ambiti di policies. Oppure i diversi scandali che hanno interessato parlamento, governi e presidenti, quelli sì davvero preoccupanti per la «democrazia migliore del mondo»: dal Watergate all’Irangate, passando per Datagate e Wikileaks.
È più interessante ragionare invece sul secondo aspetto. Forzando un po’ i paragoni storici, penso si possa applicare agli Usa di Trump la stessa lettura che i teorici della Scuola di Francoforte prima, e Zygmunt Bauman successivamente, diedero dell’Olocausto nazista. In due testi sociologici fondamentali, La dialettica dell’illuminismo (Adorno e Horkheimer 1947) e Modernità e Olocausto (Bauman 1989), viene offerto un radicale ribaltamento di prospettiva rispetto alla classica visione storiografica della Shoah: quest’ultima non viene interpretata come un’imprevista anomalia, un fenomeno che improvvisamente devia rispetto all’avanzare del processo di modernizzazione occidentale (in quel caso soprattutto europeo), quanto piuttosto come una conseguenza inevitabile della modernità stessa, della sostituzione della razionalità morale con quella tecnica, della crescente burocratizzazione e dell’obiettivo ultimo della civiltà occidentale: il raggiungimento dell’ordine societario. Secondo Bauman, l’Illuminismo e i suoi sviluppi sono un elemento centrale nella spiegazione della Shoah, tanto da definire il nazismo come «test delle possibilità occulte insite nella società moderna».
Una lettura molto simile si può fornire rispetto all’attuale regime democratico Usa: lo spettacolo offerto dalla presidenza Trump (e dal finale così decadente e macchiettistico che ne ha segnato l’ultimo atto) non è un incidente di percorso, ma la realizzazione di un processo che ha radici nella sua stessa natura. L’intuizione non è forse così originale, ma nemmeno tanto condivisa: nelle letture di molti (non solo fra gli analisti mainstream ma anche presso l’ala progressista), Trump – e Angeli – sono considerati come un incidente, un’anomalia assoluta rispetto a un percorso forse sì con qualche ombra ma tendenzialmente diretto nella direzione opposta rispetto a quella del tycoon e dello sciamano vichingo.
Invece non è così. Ci è arrivato (quasi) persino Elon Musk, dicendo che Angeli è conseguenza di un «effetto domino» che inizia con la nascita di Facebook. Si tratta ovviamente di una lotta fra magnati del capitalismo 4.0, e l’accusa del Ceo di Tesla è funzionale a una battaglia professionale (e ancor prima personale) con Mark Zuckerberg. Insomma, l’approccio di Musk è buono, ma le radici vanno cercate ben più in profondità: da quelle radici nascono sicuramente Trump e Angeli, così come Zuckerberg stesso, ma ovviamente anche Musk si trova sulla stessa pianta.
Di fatto, quel percorso sembra davvero connaturato alla natura stessa della democrazia in America: alcuni elementi evidenziati da Alexis de Toqueville nel suo famoso saggio La democrazia in America, e che il sociologo francese riteneva essere valori aggiunti della democrazia americana, si sono effettivamente rivelati nella loro peggior natura durante il secolo scorso. È tuttavia soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, quando a tutti gli effetti, gli Stati uniti impongono universalmente la loro egemonia non solo economico-politica ma anche socio-culturale, che questo processo assume caratteri ben definiti. A partire dal Piano Marshall di Truman, funzionale certo alla ripresa europea ma anche alla sua progressiva americanizzazione tramite la diffusione del vangelo neoliberista nel vecchio continente, passando per la corsa agli armamenti di Eisenhower, per giungere ai noti disastri bellici di Kennedy e Johnson, e ancor più di recente alla definitiva trasformazione in una società basata sull’assoluto dominio del mercato e della legge del più forte (e del più appariscente) sostenuta da vari presidenti fra cui Nixon, Reagan e Bush (sr. e jr.), senza dimenticare le colpe di Clinton e Obama. A questi processi politici, si accompagnavano altrettanto rilevanti fenomeni sociali: attacco all’istruzione pubblica, mcdonaldizzazione dilagante, sfruttamento dell’ambiente e consumismo sfrenati, solo per citarne alcuni.
Ciò che correntemente si intende per democrazia rappresentativa nell’epoca del suo svuotamento da parte dell’offensiva neoliberista (di cui gli States sono certamente l’emblema) è nel migliore dei casi una forma procedurale di governo (per dirla con Joseph Schumpeter), e nel peggiore un sinonimo di individualismo, competizione e spettacolarizzazione elevati a paradigma. Una versione neoliberista di democrazia significa, fra le altre cose: scalfire in ogni modo possibile l’intervento dello Stato in economia; provocare una competizione sfrenata fra gli individui, suggellata dalla volontà narcisistica di apparire e possibilmente «far parlare di sé»; essere così tanto convinti di detenere la «verità» da invadere e imporre il proprio credo ai quattro angoli del mondo (su questo, sia consentita una nota estetica: a molti abitanti del Medio-Oriente l’abbigliamento e la postura di un qualsiasi soldato americano non risultano probabilmente più anacronistici di quanto non sia risultato a noi spettatori occidentali l’outfit di Jake Angeli).
Quelle elencate in precedenza sono tutte caratteristiche inscritte nel dna della democrazia a stelle strisce: presenti già in una Costituzione che prevede l’uso libero delle armi e la pena di morte, corroborate da un’idea sciagurata di «sogno americano» coincidente con la narrazione dell’«uno su mille ce la fa» (funzionale a un fratricida bellum omnium contra omnes), elevate ai massimi esponenti con l’avvento dei media di massa, confermate a caratteri cubitali dall’egoismo e dalla superficialità sistemiche evidenziate dalla crisi dei subprime del 2008. Tutti sintomi di un humus socio-culturale fatto apposta per portare al governo un «self-made man» (per quanto in questo caso già proveniente da ricca famiglia), che fa sfoggio continuo di violenza verbale a ogni piè sospinto, inneggia alla «mano invisibile» e alla competizione fuori dalle regole come miglior scenario per lo sviluppo economico, e usa le tv e soprattutto i social media come una sorta di schizzato in preda a deliri ossessivi e narcisistici.
Tuttavia, una rapida rassegna stampa web degli ultimi giorni presentava titoli come i seguenti: «Assalto alla democrazia, le ore che hanno ferito l’America» (Repubblica), «Il giorno più buio della democrazia americana» (Ansa), «Usa, la democrazia ha tenuto: la conferma di Wall Street» (Il Messaggero). Fa specie che titoli di questo genere fossero diffusi quasi in concomitanza con la notizia che il tribunale di Londra avesse vietato l’estradizione negli Usa per Juliane Assange, accusato di aver violato la segretezza di documenti governativi, pubblicando migliaia di files relativi a rappresentanti istituzionali e diplomatici della «più grande democrazia del mondo», quella che – in modo piuttosto peculiare, come emergeva dalle carte di Wikileaks – si impegnava a esportare la democrazia in Iran e Afghanistan, oltre a spiare i capi di governo di tutti i principali paesi del globo. Se valutiamo la democrazia come qualcosa di sostanziale e non solo di procedurale, una domanda sorge spontanea: il vero «attentato» alla democrazia è l’arlecchinata di Jake Angeli e soci, oppure la persecuzione di un individuo la cui colpa è quella di aver reso pubblici documenti scomodi e che per questo motivo non può rientrare da ormai dieci anni nel suo paese? A voler essere ancor più radicali, verrebbe da chiedersi: è davvero Capitol Hill il «tempio della democrazia» Lo è mai stato? Tanto più in seguito ai tanti scandali, fra cui quello di Wikileaks?
Con tutto il disprezzo per Donald Trump, è difficile vedere nella fenomenologia di Jake Angeli soltanto il frutto dei quattro anni disgraziati della sua presidenza. La democrazia rappresentativa di stampo neoliberista (e soprattutto quella del modello statunitense, via via diffusosi ad altre latitudini) conduce necessariamente al fenomeno Trump: è giusto esserne consapevoli così come è giusto essere consci che, al netto della bagarre su eventuali brogli, ancora nel 2020 quasi 75 milioni di persone che vivono nella «miglior democrazia del mondo» hanno votato per il magnate repubblicano. Alla luce di questo fatto, è evidente che la parabola che porta lo «sciamano vichingo» a entrare trionfale nel «tempio della democrazia» si configura come l’episodio finale di una commedia tragica (o di una tragedia comica) che non inizia il 20 gennaio 2017, giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, ma diversi decenni prima.
* Niccolò Bertuzzi è ricercatore alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento e membro del Centre on social movement studies.
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