
Cent’anni di guerra
L'ultimo secolo di storia ucraina è disseminato di violenze, armate o silenziose, di macerie e di fantasmi. Ripercorrendolo, ogni conflitto bellico si mostra nella sua assurdità e infondatezza
La guerra è tornata a fare rumore in Ucraina, nelle strade, sopra i tetti delle sue città e sulle sue cupole d’oro.
È una pessima notizia che ci ha scossi, strappati dal sonno e presi di sorpresa, ma la guerra su quella terra al margine d’Europa non è di certo una novità.
All’inizio del secolo scorso, mentre infuriava la Prima Guerra mondiale, l’Ucraina, che era divisa fra l’impero russo e quello asburgico, venne a trovarsi fatalmente sulla linea di frizione fra le due potenze.
L’Ucraina russa, quella orientale, era ambita dagli Asburgo per le sue ricchezze di grano e le sue materie prime. D’altra parte, le terre ucraine austriache erano fra gli obiettivi di guerra della Russia, convinta che quei territori le spettassero di diritto come stato successore della Rus’. Suona familiare oggi, ma era più di un secolo fa.
Fra il dicembre 1918 e il febbraio 1919 Kyiv fu presa, nell’ordine, dai bolscevichi, dai tedeschi, dai nazionalisti guidati da Petljura, poi ancora dai bolscevichi, dall’Armata Bianca, per cedere infine all’avanzata dell’Armata Rossa.
Con l’arrivo dei bolscevichi il fuoco e il clamore degli eserciti si spensero. Sulle ceneri della guerra civile l’Ucraina divenne una repubblica socialista sovietica, i cui confini furono ridisegnati artificiosamente, inglobando nuovi territori, altre lingue, altre nazionalità. Ma tutto questo non aveva più alcuna importanza, perché ciò che contava nella neonata Urss era una sola appartenenza: quella sovietica.
Intanto, sotto la coltre del regime sovietico che si faceva sempre più soffocante, si iniziava a preparare in silenzio il disastro successivo. Nel 1932-1933 la campagna di collettivizzazione forzata voluta da Stalin diede origine all’orribile disastro passato alla storia come Holodomor, termine ucraino che vuol dire «morte per fame», una carestia che causò milioni di morti.
La parola «carestia» può indurre a pensare a imprevedibili avversità naturali, ma l’Holodomor fu una catastrofe causata dall’uomo, al punto che molti studiosi parlano di vero e proprio genocidio, iniziato con la collettivizzazione e poi perpetrato sistematicamente e intenzionalmente con l’obiettivo di piegare i contadini, riottosi e poco sensibili alla causa del socialismo. La stessa politica venne attuata in Siberia, nel Caucaso del Nord e nella zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan, ma il più alto numero di vittime si registrò proprio in Ucraina.
La terribile esperienza del Holodomor diventò un simbolo identitario per gli ucraini e accese la scintilla antisovietica, che spinse molti ucraini, nemmeno un decennio dopo, ad accogliere i nazisti come liberatori quando nel 1941 il territorio ucraino si ritrovò ancora una volta attraversato, per non dire sfregiato, dalla linea del fronte orientale.
Ma non ci fu alcuna liberazione per l’Ucraina. Al contrario, la Seconda guerra mondiale aprì un nuovo capitolo di devastazioni, con un milione di ebrei assassinati dalle Einsatzgruppen, dalla Wehrmacht e dai collaborazionisti ucraini inquadrati nella milizia. Nella sola Odessa furono massacrati 50.000 ebrei; nello strapiombo di Babyn Yar, alle porte di Kiyv, tra il 29 e il 30 settembre 1941, finirono 33.771 ebrei e non solo. Babyn Yar divenne la tomba anche di rom, attivisti sovietici, nazionalisti ucraini.
In quegli anni, scriveva lo scrittore Anatoly Kuznetsov nel romanzo russo Babij Jar, i sovietici e i tedeschi si scontravano «come il martello e l’incudine». In mezzo, nel frastuono di attentati e di mitragliatrici crepitanti, «i poveri diavoli». Alla fine della guerra, l’Ucraina contò 4 milioni e mezzo di vite spazzate via dalla furia del conflitto.
Gli eserciti si ritirarono, ma la guerra continuò in silenzio, spietata e strisciante, nel folto delle foreste a ovest dell’Ucraina, dove l’esercito e le forze di sicurezza sovietiche continuarono fino al 1950 a scontrarsi contro le formazioni indipendentiste clandestine dell’Upa, l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini. A guidarli era Stepan Bandera, noto per essere stato responsabile della pulizia etnica dei polacchi della Galizia e della Volinia, personaggio dalla fama giustamente sinistra che ancora oggi parte dell’Ucraina considera un partigiano e un eroe.
Negli anni successivi, nell’Ucraina sovietica, fra le rigide maglie dell’autoritarismo, lo scontento iniziò a diffondersi, silente, ma profondo, prendendo spesso forma di rivendicazioni nazionaliste. Le manifestazioni di nazionalismo in Unione Sovietica erano in generale represse dalle autorità, ma quelle ucraine erano particolarmente malviste, anche per ragioni «aritmetiche»: gli ucraini erano un gruppo molto numeroso – circa un sesto della popolazione sovietica – e quindi una minaccia per stabilità interna dell’Urss. Questo però non servì a scoraggiare le richieste degli ucraini, animati da un senso di rivolta verso il predominio di Mosca che percepivano come una forma di colonialismo economico, linguistico e culturale. Di segno opposto alle rivendicazioni ucraine, in quegli anni si svilupparono anche le rivendicazioni russe verso i territori di Kharkov/Kharkiv e verso il Donbass, annessi all’Ucraina dopo la conquista dell’Armata Rossa.
Dal dissenso verso Mosca, dalle richieste democratiche e dal sentimento nazionalista emersero le basi per la nuova Ucraina indipendente, che iniziò il suo cammino nell’agosto del 1991. Il passaggio verso la nuova fase avvenne in maniera pacifica, senza i carri armati mandati da Mosca a sbarrare la strada, ma fu lastricato di difficoltà.
Il crollo dell’Urss lasciò dietro di sé un paese fragile, attraversato da povertà diffusa soprattutto nelle campagne, da profonde disuguaglianze socio-economiche e da una corruzione dilagante. E sullo sfondo, gli spettri di un possibile conflitto fra i molti volti del paese, largamente ucraino nella lingua, nella cultura e nella bandiera, in parte europeo nelle aspirazioni, ma con una numerosa comunità russa al proprio interno, concentrata soprattutto nel Donbass e in Crimea, ad attirare l’attenzione e le mire dell’occhio vigile di Mosca.
La tensione, inevitabilmente, fra le diverse anime in conflitto non tardò a manifestarsi. Nel 2004 la rivoluzione arancione portò gli ucraini per le strade in difesa pacifica della vittoria elettorale del candidato europeista Viktor Yushenko sul candidato filorusso Yanukovych. Poi nel 2008 dalla Nato arrivò l’impegno che in un futuro imprecisato avrebbe accolto la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’alleanza militare. Agli occhi della Russia, suonò come la prova dell’espansione della Nato a danno dei suoi territori. Le ombre delle armi si allungavano già sull’Ucraina. E il rumore della guerra non tardò a esplodere.
Era il novembre del 2013 e il presidente Yanukovych aveva annunciato l’intenzione di sospendere il processo di preparazione per la firma dell’accordo di libero scambio con i paesi dell’Unione europea, lasciando immaginare un riavvicinamento a Mosca, facilmente prevedibile visti i buoni rapporti che legavano il presidente ucraino a Putin. Per molti ucraini quegli eventi significarono il ripetersi di una storia che più volte avevano sperato di chiudere per sempre nei libri.
Più di 100mila persone si riversarono in strada, occupando con tende e striscioni la piazza centrale della città. Erano in molti in quella piazza: giovani che chiedevano un cambiamento politico, intellettuali, persone stanche della crescente corruzione; nazionalisti che chiedevano di staccarsi da Mosca una volta per tutte. Accanto a questi, non necessariamente collegati, anche militanti di Pravy Sektor (Settore Destro), un’organizzazione ultranazionalista, nota come il braccio armato di Euromaidan, che contribuì a infiammare la protesta. Gli scontri furono molto violenti, anche nella risposta delle forze dell’ordine che arrivarono a sparare sulla folla. I disordini terminarono solo con la fuga di Yanukovych, lasciando un terribile resoconto: più di cento morti fra i manifestanti e oltre dieci fra le forze dell’ordine.
Dopo la fuga di Yanukovych, le proteste degenerarono in uno scontro su base etnica che ha fornito il pretesto per l’intervento russo in Crimea e per la secessione delle zone orientali russofone di Luhansk e Doneck.
All’inizio del 2015 gli accordi di Minsk stabilirono il cessate il fuoco e il ritorno all’Ucraina delle regioni separatiste, in cambio di maggiore autonomia. Gli accordi rimasero sulla carta, ma gran parte dell’Ucraina tornò alla normalità.
Girando per le strade della luminosa capitale, Kyiv, bella di una bellezza oltremondana, fino a poco tempo fa non si udiva alcun frastuono. Eppure la guerra c’era anche allora. Era sulle lapidi e sulle iscrizioni a ricordo delle persone cadute nei giorni in cui Kiyv era assediata dalle proteste, che in Ucraina sono come Rivoluzione della Dignità. Era più a est, nel Donbass che ogni giorno, per otto anni, ha pagato lo scotto del fallimento degli accordi di Minsk, firmati da entrambe le parti, ma mai rispettati.
Lo chiamavano «conflitto a bassa intensità» perché i suoi colpi non cadevano più fitti. Per otto anni nel resto del mondo il rumore si è sentito appena. Ma la guerra c’era eccome, come c’erano le persone che abitavano quel lembo di terra sul fianco scoperto dell’Ucraina, dimenticato e invisibile ai più, ma esposto e vulnerabile, in una condizione precaria e senza uno status che lo proteggesse da ulteriori sciagure.
Il Donbass, segnato, sfiancato da otto anni di conflitto, segregato fra fili spinati e check point, è stato il pretesto per riaprire il fuoco delle armi, a cui ci prepariamo compatti a rispondere con il fuoco di altre armi, ancora una volta, l’ennesima, su questa terra senza requie, distesa su una pericolosa faglia fra due mondi, aperta come una piaga.
Guardando alle spalle dell’Ucraina, agli ultimi cento anni disseminati di violenze, armate o silenziose, di macerie e di fantasmi, cade la maschera di ogni guerra, che si mostra nella sua assurdità e nella sua infondatezza. Non ci sono vere ragioni a muovere gli eserciti, solo pretesti fabbricati nell’ombra nei periodi di pace apparente.
Ed è stridente, insensato, ridicolo che davanti a un paese già più volte crivellato, bombardato, stracciato in mille pezzi e ricucito male in confini artefatti, la nostra società sia in grado di concepire come forma di difesa soltanto la più distruttiva delle offese. La guerra.
*Maria Izzo ha studiato lingua e letteratura russa fra il Mar Mediterraneo e la Siberia. Collabora con Q Code Mag e scrive di soprattutto di storia, memoria e confini nello spazio post-Sovietico.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.