
Cent’anni di interventismo
La deputata della sinistra Usa Alexandria Ocasio-Cortez racconta il suo viaggio a cinquant'anni dal golpe cileno, per tracciare alleanze e relazioni con le sinistre latinoamericane e fare luce sui crimini coperti da Washington
Nell’arco di diverse generazioni, la sinistra statunitense ha guardato all’America latina per trovare ispirazione ed esprimere solidarietà, dalla rivoluzione messicana al progetto socialista di Salvador Allende fino alle maree rosa degli ultimi anni. Continuando questa tradizione, la deputata Alexandria Ocasio-Cortez e un gruppo di deputati di sinistra eletti si sono recentemente recati in Colombia, Brasile e Cile per incontrare alcuni dei loro omologhi in America latina. Alla vigilia del cinquantesimo anniversario del colpo di stato contro Allende del 1973 sostenuto dagli Stati uniti, Ocasio-Cortez ha parlato con Daniel Denvir per il podcast The Dig di Jacobin Radio.
Che cosa significa oggi la solidarietà con l’America latina?
Penso che richieda una relazione reale. Quando parliamo dei movimenti in America latina possiamo farlo da una prospettiva accademica o storica, ma ci sono tanti movimenti di lotta ai giorni nostri. Sviluppare relazioni reali con loro è uno dei modi migliori per esprimere solidarietà.
All’inizio di quest’anno, quando il presidente [brasiliano] Lula è venuto a Washington, ho avuto il privilegio di incontrarlo e gli ho chiesto cosa pensa sia necessario facciano in questo momento i progressisti. Ha detto, in modo molto diretto, che in America latina i progressisti si riuniscono regolarmente, ma i progressisti statunitensi non si vedono da nessuna parte. Non sa dove siamo. L’ho presa come una sfida, ed è una delle cose che ha maggiormente contribuito ad accelerare i tempi della nostra visita in Brasile, Cile e Colombia. Le nostre posizioni politiche devono scaturire dalla costruzione di relazioni, perché molte di queste posizioni non sono scontate e non possono venire semplicemente dallo studio. Devono scaturire dal dialogo.
I fantasmi del sanguinoso intervento statunitense sono ovunque in America latina, compreso il Cile. Innanzitutto, cosa ti ha colpito della tua visita in un paese il cui governo socialista fu rovesciato, con l’aiuto degli Stati uniti, nel 1973? E in secondo luogo, cosa possono fare oggi gli Stati uniti in solidarietà con i cileni, che stanno ancora lottando duramente per affrontare l’eredità di Pinochet?
Un tema molto importante in Cile, emerso anche in Brasile e Colombia, è quanto sia profonda la polarizzazione, soprattutto quando si tratta di media e come questi stiano influenzando le attuali dinamiche politiche. I movimenti fascisti e di estrema destra statunitensi hanno lavorato duramente per esportare molte delle loro tattiche e dei loro obiettivi in tutta l’America latina. Lo abbiamo visto in Brasile, come è noto, con Bolsonaro e l’attacco dell’8 gennaio alla loro capitale. Ma anche in Cile è molto diffusa questa cosa. Uno dei modi in cui si manifesta è il desiderio di cancellare la storia.
C’è un enorme movimento che cerca di cancellare ciò che è successo con il colpo di stato che ha rovesciato il governo di Salvador Allende – presentando il colpo di stato in modo quasi giustificatorio – ed è per questo che il nostro appello agli Stati uniti affinché declassifichi molti dei documenti riguardanti il suo coinvolgimento nel colpo di stato sono importanti. Non si può sottovalutare quanto sarebbe importante per il popolo cileno così come per tutto il paese se gli Stati uniti declassificassero queste informazioni, dicendo che c’è stato un coinvolgimento esterno, che si tratta di qualcosa che è successo ed è stato incredibilmente ingiusto. Centinaia di migliaia, se non milioni, di persone sono state colpite dalla perdita, dalla scomparsa o dalla tortura di un membro della famiglia durante il regime di Pinochet [gli Stati uniti hanno declassificato alcuni di questi documenti alla fine del mese scorso, Ndr].
Ci sono passi simili che potrebbero essere fatti a proposito dei legami storici degli Stati uniti con gli eserciti colombiano e brasiliano?
Sì, ho proposto una misura per declassificare i documenti riguardanti il coinvolgimento degli Stati uniti in Brasile, Cile e Colombia. Tutti e tre sono incredibilmente importanti. Ma per quanto riguarda il Cile, penso che il paese sia ancora così in fase di guarigione da quanto accaduto che qui è potenzialmente più urgente, soprattutto in occasione del cinquantesimo anniversario del colpo di stato. È molto importante per noi e per le nostre relazioni in America latina, in generale, declassificare queste informazioni e per i cittadini statunitensi comprendere come la politica dell’America latina oggi sia profondamente modellata dall’intervento degli Stati uniti nella regione.
Storicamente, anche la Colombia è stata oggetto di un’enorme quantità di violenza sponsorizzata dagli Stati uniti, e non dobbiamo tornare indietro di cinquant’anni, basta guardare al Plan Colombia. Che cosa hai imparato sul processo di pace del paese e sulla storia della violenza in quel paese – un processo di pace, tra l’altro, oggi supervisionato da Gustavo Petro, il primo presidente di sinistra nella storia colombiana – e come potrebbero gli Stati uniti svolgere un ruolo diverso? Oppure la cosa migliore è che gli Stati uniti semplicemente ne restino fuori?
Penso che abbiamo un ruolo da svolgere. Il fatto di esserci andati, aver causato così tanto caos e essere andati via, non credo sia il modo corretto di essere un buon partner per andare avanti. Neanche la Colombia lo vuole, da nessun lato dello spettro politico. Visitando quel paese ho apprezzato molto di più che gran parte della storia della Colombia non viene mai raccontata e ciò impedisce alle persone negli Stati uniti di sostenere politiche giuste. Ad esempio, quando senti «Colombia», se ti viene in mente qualcosa, sono i narcos, la guerriglia, i diversi paramilitari e la guerra. È una caricatura che non fa comprendere la radice di questo conflitto.
I problemi in Colombia, credo, riguardano fondamentalmente la legittimità dei governi. C’è un governo che storicamente era dominato dagli interessi delle élite che poi a metà del Novecento apparentemente si convertirono a alla democrazia – solo che ogni volta che un membro del partito liberal o di sinistra iniziava ad avere visibilità, veniva assassinato. Fondamentalmente c’è uno stato monopartitico di destra, e questo porta molte persone a dire, be’, chiaramente questo non è un governo legittimo, e se vogliamo che i poveri e la classe operaia abbia qualche possibilità di migliorare la propria vita, ci impegneremo nella rivoluzione, e in una rivoluzione violenta per di più. Questi sono i semi di ciò che abbiamo in Colombia, che storicamente ha un governo di destra e milizie di sinistra perché non esiste uno spazio democratico per un vero sistema bipartitico.
Con l’introduzione della cocaina e del traffico di droga, la situazione è diventata molto più complicata. Forse negli anni Ottanta e Novanta c’era un quadro molto più ideologico, ma poi con l’estrazione mineraria illegale e l’introduzione del narcotraffico, gli incentivi finanziari hanno iniziato a confondere le acque. Poi c’è stato il Plan Colombia: gli Stati uniti hanno iniziato a incanalare miliardi di dollari, tra il 2000 e oggi, 14 miliardi di dollari dati al governo colombiano, in gran parte aiuti militari. Ciò è avvenuto sotto la presidenza Uribe, che era un autocrate. C’è stato lo scandalo dei falsos positivos, quando il governo colombiano ha incentivato finanziariamente l’uccisione dei guerriglieri, e persone innocenti sono state uccise e marchiate come guerriglieri. Tutto ciò ha creato una frattura enorme.
L’elezione di Gustavo Petro come primo presidente di sinistra nella storia della Colombia è incredibilmente importante. È la prima volta che i colombiani hanno uno straccio di prova del fatto che la democrazia può produrre risultati politici diversi. La sua elezione è meno legata a lui come figura, e più al fatto che qualcuno di sinistra può essere eletto presidente senza essere assassinato. Fornisce speranza per una parvenza di pace e non violenza in questo paese.
Quando vediamo i repubblicani attaccare la Colombia e cercare di ritirare gli aiuti o bloccare un ambasciatore statunitense, è pericoloso perché rafforzare questa scivolata verso l’illegittimità della Colombia. C’è disaccordo su come affrontare temi molto difficili, anche in America latina, ad esempio il rapporto con il Venezuela, o su come l’America latina si posiziona in un mondo sempre più multipolare. Tutto questo discorso è valido e importante, ma ciò che non può essere intaccato è la legittimità di questo governo.
La politica petrolifera e mineraria è controversa in tutta l’America latina. La vittoria di Lula su Bolsonaro è stata una vittoria contro la deforestazione amazzonica, ma Lula è stato anche criticato dagli ambientalisti per aver indicato che potrebbe sostenere nuove missioni petrolifere nel bacino amazzonico. Nel frattempo, Gustavo Petro si è impegnato a porre fine alla produzione di petrolio in Colombia, e gli elettori ecuadoriani hanno appena votato uno storico per vietare la produzione di petrolio nello Yasuni, la regione amazzonica più remota del paese. Cosa possiamo imparare dai movimenti ambientalisti dell’America latina?
Ci sono un paio di cose da considerare. Una è la geopolitica dei combustibili fossili nella regione. Quando parliamo, ad esempio, del presidente Lula e delle trivellazioni petrolifere o di Gabriel Boric che cerca di nazionalizzare il litio in Cile, molto di ciò ha poco a che fare con la domanda interna. Ha a che fare con la domanda internazionale di combustibili fossili, con la geopolitica e con il modo in cui ogni singolo paese cerca di posizionarsi.
Tutti e tre – Brasile, Cile e Colombia – non fanno affidamento sui combustibili fossili per la maggior parte del loro consumo energetico. Il Brasile utilizza l’energia geotermica e idroelettrica. Tutti hanno almeno il 50% di energia rinnovabile. Quindi, quando parliamo del motivo per cui c’è questa spinta a esportare più petrolio, parliamo dei mercati globali. E questo perché l’America latina è molto motivata a essere indipendente in questo mondo multipolare. Inoltre, molti programmi sociali di rilievo, dipendono dalle entrate derivanti dall’esportazione di combustibili fossili, così come da molte altre risorse naturali. Quindi, quando parliamo di una giusta transizione verso le energie rinnovabili, una delle grandi domande è: quale sarà la sostituzione delle entrate per i combustibili fossili per sostenere programmi critici come Bolsa Familia in Brasile, o programmi sanitari? D’altro canto, come hai detto, Ecuador, Colombia e molti altri paesi stanno facendo grandi passi avanti nei loro movimenti per il clima e nella protezione dell’Amazzonia.
A volte ci sono anche diverse sfumature, perché molte di queste lotte non sono esplicitamente di sinistra. Ad esempio, le fazioni guerrigliere che apparentemente hanno radici rivoluzionarie o di sinistra sono spesso responsabili dell’estrazione illegale e dell’uccisione di popolazioni indigene al fine di sostenere una base finanziaria per continuare le loro attività. Quindi, quando si tratta di questo aspetto, è importante guardare all’organizzazione diretta dei gruppi indigeni, dei gruppi afro-colombiani e molti altri, oltre agli investimenti tecnologici, coi quali possiamo continuare a esplorare e perseguire nuove modalità energetiche che non sono altrettanto dannose nella loro estrazione.
Sono felice che tu abbia sottolineato la realtà che il Nord del mondo deve rendere economicamente possibile per l’America latina, l’Africa e gran parte del pianeta per svilupparsi equamente in modo ecologicamente sostenibile. Gli Stati uniti non possono semplicemente dire, ok, adesso deve essere tutto verde e bloccarti dopo aver fatto il loro gioco economico.
Assolutamente. Soprattutto se si guarda agli Stati uniti, alle Cop 26 e 27, che hanno mostrato una straordinaria resistenza nell’aiutare i paesi in via di sviluppo nella transizione, perché sono le economie più avanzate del mondo a essere responsabili della maggior parte delle emissioni.
E i paesi che affrontano un enorme rischio climatico hanno contribuito con una quantità infinitesimale di carbonio nell’atmosfera.
Giusto.
In Brasile hai incontrato il Movimento dei Lavoratori Sem Terra, o Mst. Cosa hai imparato sulla lotta per la riforma agraria in Brasile, e quale rilevanza potrebbe avere il loro movimento per le nostre lotte per la giustizia abitativa negli Stati uniti?
Le lezioni dei Sem Terra sono tra le più grandi che ho avuto in questo viaggio, almeno in termini di organizzazione di base. Ciò che ho trovato così straordinario nel Mst e nella sua sezione urbana, il Mtst (Movimento dei Lavoratori Senza Casa) è la loro azione diretta, che è parte di una visione ideologica e strategica più ampia, e la loro decisione di impegnarsi nel lavoro elettorale. Anche i loro programmi educativi popolari sostengono il pensiero critico. Ho trovato impressionante il modo in cui riescono a bilanciare tutte queste cose, una sorta di radicalità nell’azione diretta e un pragmatismo nel loro programma elettorale. Il rifiuto assoluto del cinismo è sorprendente.
Lottiamo con tutto questo negli Stati uniti. C’è una sorta di pensiero binario: o sei un vero rivoluzionario e credi nell’azione diretta e nell’autonomia e il sistema elettorale è una farsa – il che crea un vortice cinico, e ti fa restare piccolo – oppure c’è l’elettoralismo, e i movimenti più radicali e le azioni radicali vengono liquidate come ingenue. Ed è molto difficile costruire una convergenza tra questi due approcci.
Sicuramente sono stata soggetta a questo trambusto molte volte, e vedere le persone in Brasile, specialmente in un sistema multipartitico – Lula fa parte del Partito dei Lavoratori (Pt); c’è un partito socialista, il Psol, di cui fa parte il Mst; ci sono partiti comunisti e molti altri partiti –, riunirsi in un programma di solidarietà molto forte è sorprendente. Penso che sia qualcosa in cui il Cile, ad esempio, fatica un po’. E dice molto su ciò che rende questi tre leader diversi. Tutti e tre, ovviamente, sono populisti di sinistra, ma sono anche individui molto distinti tra loro. Ed è importante studiare queste differenze, non per inserirle in una classifica di valore relativo, ma per vedere cosa ciascuna di esse può insegnarci individualmente e separatamente.
Le crisi sociali, politiche ed ecologiche che affliggono l’America latina stanno spingendo le persone ad abbandonare le proprie case, provocando un enorme numero di immigrati che arrivano al confine degli Stati uniti con il Messico, molti dei quali si sono trasferiti a New York. Come potremmo collegare una politica di solidarietà con i migranti e la solidarietà con le persone nei paesi dell’America latina da cui i migranti vengono espulsi?
Per noi è importante sollevare il coperchio sulle cause profonde della migrazione, e la crisi climatica è assolutamente una di queste. Quando ne vediamo le immagini in televisione, notiamo davvero tanto razzismo implicito. Vediamo questi scatti per far sembrare che ci siano orde di persone che arrivano al nostro confine e non c’è mai alcuna esplorazione sulla loro provenienza. Basta sentire la parola «migranti» per ricevere il suggerimento implicito che provengano da tutta l’America latina, e che tutti questi paesi siano poveri, e stiano tutti bussando alla porta degli Stati uniti. Quella rappresentazione e la mancanza di specificità, la mancanza di esplorazione e dettaglio nei nostri media, è un pessimo servizio a tutti gli statunitensi per capire come affrontare tutto questo.
Ci sono haitiani, nicaraguensi, guatemaltechi, ma la maggior parte dei migranti proviene dal Venezuela. La destra fa il suo dicendo: oh, questo paese è socialista, questo paese è autoritario, e tutte queste persone stanno fuggendo da questo regime, praticamente tutti qui sono rifugiati politici. Anche molti esponenti della sinistra, a mio avviso, non riescono a esaminare la situazione con le dovute sfumature. O non sanno cosa sta succedendo, ed è una specie di tallone d’Achille, oppure vogliono difendere ciò che sta accadendo in quei paesi a tutti i costi. E penso che anche questo sia problematico. Senza entrare troppo nel merito, ma se si guarda al significato del socialismo e a cosa è successo in Venezuela con Maduro, la situazione di quel paese non è così chiara. Non dovremmo iniziare da questo?
Ci sono due fattori principali che, secondo me, stanno spingendo le migrazioni dal Venezuela. Il primo è la situazione economica del paese. Il secondo è l’intervento e le sanzioni statunitensi, che hanno contribuito a destabilizzare la situazione.
Parto dalle sanzioni. Nel 2017, il senatore della Florida Marco Rubio – che è estremamente motivato politicamente quando si tratta della politica statunitense in America latina, incentrata sul sostegno ai movimenti di destra – ha sostenuto un drastico aumento delle sanzioni nei confronti del Venezuela. Prima, avevamo sanzioni molto più restrittive rivolte alle élite venezuelane che stavano compiendo movimenti ingiusti nel paese. E così Rubio propone sanzioni che ampliano drasticamente la portata in un modo che destabilizza l’economia venezuelana e ha un impatto sui venezuelani poveri, della classe lavoratrice e della classe media. Queste sanzioni sono state proposte nel 2017, e proprio nel 2017 abbiamo iniziato a vedere ondate di migranti lasciare il Venezuela e raggiungere il confine meridionale degli Stati uniti. Quindi penso che sia molto importante dire che, per poter arginare questa situazione, dobbiamo affrontare la nostra politica di sanzioni in America latina e specificamente nei confronti del Venezuela.
Penso anche che sia importante riconoscere che non vogliamo ondate massicce di persone che arrivano al confine meridionale degli Stati uniti, per ragioni di giustizia. Sono famiglie che non vogliono uscire di casa. Sono costretti a lasciare le loro case.
Se crediamo nel diritto di migrare, sosteniamo anche il diritto delle persone a restare.
Esattamente. È importante semplicemente riconoscere questo fatto. Non dobbiamo farlo in un modo che chiuda i confini e costruisca un muro, ma dovremmo riconoscere che in realtà si tratta di un problema. E parte di questo problema è dovuto alla politica statunitense. In secondo luogo, oltre alle sanzioni, dobbiamo fare i conti anche con il fatto che il Venezuela è un petrolstato. I petrolstati hanno la tendenza a generare autoritarismo e ciò crea questa rete di complicazioni.
Anche quando si parla della storia di Maduro, come di tutta l’America latina, vediamo un movimento di sinistra in ascesa, poi c’è l’intervento statunitense, che radicalizza il continente. In Colombia c’era Gaitan, un populista liberale. Quando Gaitan fu assassinato [nel 1948], Fidel Castro concluse che un percorso elettorale per la sinistra era impossibile.
E guardò anche al Guatemala e al colpo di stato sostenuto dalla Cia nel 1954.
Esattamente. È stato l’intervento statunitense, sia contro Salvador [Allende] che contro Gaitan, a radicalizzare ulteriormente una sinistra in ascesa. E così è successo con le elezioni venezuelae, dove il regime di Maduro visto l’enorme intervento degli Stati uniti, sia attraverso le sanzioni che con altri mezzi, ha deciso di bloccare le elezioni. Ad alcuni candidati non è stato permesso di candidarsi. Ci sono denunce di movimenti straordinari contro a soppressione del voto. Ciò è stato visto e giustificato come una risposta all’interventismo Usa. Ma queste azioni comunque si sono verificate e sono accadute. Ed è importante che la sinistra nordamericana lo riconosca e comprenda le sfumature e le specificità di ciò che sta accadendo.
In aggiunta, c’è il fatto che ho appena menzionato, ovvero che il Venezuela è un petrolstato. Ci sono boom e recessioni, come in qualsiasi settore. E quando il prezzo del petrolio scende, in un paese in cui dal 94 al 96% dell’economia dipende dal petrolio, inizia a soffrire drammaticamente.
Per tornare all’attualità, oggi la situazione si è in qualche modo stabilizzata in Venezuela a causa della guerra in Ucraina, dell’aumento del costo dei combustibili fossili e delle rimesse inviate dagli immigrati venezuelani dagli Stati uniti al Venezuela. Quindi si inizia a vedere una parte della situazione si stabilizza in qualche modo, ma il regime delle sanzioni è ancora in vigore. L’anno prossimo ci saranno le elezioni in Venezuela. Ed è importante dire che non tutti e tre gli altri leader di sinistra – Lula, Boric o Petro – hanno la stessa linea nei confronti del Venezuela. Hanno posizioni diverse e disposizioni diverse nei confronti di quel paese. Boric è molto critico su quelle che considera violazioni dei diritti umani in Venezuela.
Quando lo guardi da una prospettiva storica, è importante riconoscere le sfumature e la complessità di questo problema.
Sì, penso che sia importante. Castro, come hai detto, arriva a credere che sia impossibile intraprendere una via democratica al socialismo a causa di ciò che vede in Guatemala e in Colombia. E poi, quando Allende si trova sotto pressione nel periodo precedente al colpo di stato, Castro, con buone ragioni, lo avverte di ciò che sta per succedere. Gli Stati uniti hanno strutturato l’intera dinamica.
Esatto. Ed è questa dinamica che poi tanti nella destra statunitense additano come uno spauracchio. Lo stesso fanno gli statunitensi moderati, che sono incredibilmente importanti per una coalizione di sinistra. È stato addirittura rafforzato questo spauracchio rispetto al Cile. Stessa cosa nei confronti di Lula. Lula ha costruito una coalizione politica incredibilmente complessa per governare. Tutti e tre questi leader hanno vinto le elezioni, ma lottano con parlamenti in maggioranza conservatori. E penso che questa sia un’ulteriore dimensione con cui la sinistra nordamericana deve confrontarsi: non si tratta di un quadro bidimensionale e a prova di bomba. Hanno a che fare con dinamiche politiche straordinariamente complesse.
Quindi, quando il cittadino medio statunitense vede la rappresentazione dei movimenti latinoamericani come di «estrema sinistra», è importante dire che è l’intervento statunitense ad aver generato gran parte di quella reazione. Non è da lì che hanno iniziato, è dove si sono ritrovati, a causa della nostra storia di intervento in quelle aree.
Prima hai menzionato i dibattiti in America latina su come posizionarsi rispetto a questo ordine geopolitico sempre più multipolare. Viviamo in un momento di rinnovata rivalità tra grandi potenze. In primo luogo, qual è l’impatto sull’America latina e sul Sud del mondo più in generale di questa situazione, dalla guerra in Ucraina a quella che molti chiamano una nuova Guerra fredda con la Cina? Questi conflitti mettono i governi progressisti in una situazione difficile? E se è così, come possiamo, nella sinistra statunitense, spingere per una riduzione dei conflitti con Russia e Cina invece di intensificarli? Cosa possiamo fare per creare un ordine mondiale che sia più pacifico e giusto per i residenti delle grandi potenze, compresi noi, così come per le popolazioni del Sud del mondo?
È una delle grandi questioni geopolitiche del nostro tempo. In alcuni dei miei impegni, sia a livello nazionale che globale, io e molti altri progressisti, incluso il senatore Bernie Sanders, abbiamo messo in guardia su questo frame della Guerra fredda. È qualcosa che i repubblicani desiderano davvero. Da quando i repubblicani hanno preso la maggioranza alla Camera, ci sono stati voti praticamente ininterrotti sull’escalation della guerra e sulla Cina: condanne, risoluzioni, variazioni nei finanziamenti.
Per decenni abbiamo vissuto una Guerra fredda terminata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ma i cui fantasmi si sono perpetuati molto più a lungo. Abbiamo molti solchi istituzionali e politici in cui possiamo riallacciarci quando si tratta del frame della Guerra fredda. E se continuiamo a perseguire questo tipo di escalation con la Cina, non ci ritroveremo in una buona posizione.
L’America latina è molto sotto pressione perché non vuole che nessuna delle due parti abbia un’influenza indebita sulle loro vite e sul loro destino. Hanno affrontato decenni e decenni di intervento statunitense, che ha creato un’enorme quantità di scetticismo ogni volta che sono coinvolti gli Stati uniti, ma non cercano nemmeno la dipendenza dalla Cina o da qualsiasi altra potenza globale. Ciò che vogliono, e ciò che penso che gran parte dell’America latina abbia voluto dopo la colonizzazione, è la sovranità e l’indipendenza. Quindi c’è il desiderio di bilanciare in qualche modo le relazioni.
Se parliamo di realpolitik statunitense – ossia del modo in cui semplicemente difendere gli interessi Usa nella regione – penso che, probabilmente, l’interesse degli Stati uniti nella regione sarebbe anche quello di ricostruire quelle relazioni e cessare una posizione interventista. Non penso che l’atteggiamento interventista serva al nostro paese. Perpetua l’instabilità e perpetua un maggiore scetticismo che allontana ognuno di questi paesi dall’allineamento con gli Stati uniti, che è ancora importante sostenere per motivi di diritti umani ed ecologici, nella costruzione del consenso globale.
Siamo in una corsa contro il tempo quando si tratta della crisi climatica, e quanto più riusciremo a costruire quel consenso globale, tanto più potremo raggiungere i nostri obiettivi. Ciò include, tra l’altro, anche la Cina. Etichettare un altro paese, per non parlare di una superpotenza, come avversario, porta con sé molte implicazioni diverse. In questo mondo multipolare, penso che sia davvero importante comprendere i diversi incentivi di ognuno. Potrebbero esserci molti che non sono d’accordo – sicuramente ce ne sono molti – ma penso che questa situazione non dovrebbe essere aggravata.
Francamente, sono sicura che sia scomodo riconoscere il desiderio che un intero continente sia sovrano. Ma penso che dovremmo imparare dalle devastazioni di Kissinger e Nixon, così come del Plan Colombia e di molti altri, che impegnarsi in questo modo non ci arrecherà alcun vantaggio. Abbiamo il narcotraffico, abbiamo quantità straordinarie di violenza. Da dove pensiamo provenissero queste armi? Da dove pensiamo che provenissero questi paramilitari? Dobbiamo capire che questo approccio eccessivamente militarizzato è una profezia che si autoavvera quando si tratta di violenza.
*Alexandria Ocasio-Cortez è la rappresentante del 14° distretto congressuale di New York. Daniel Denvir è autore di All-American Nativism e conduttore di The Dig su Jacobin Radio. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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