Che fine hanno fatto i crimini fascisti?
Il «Giorno del Ricordo» istituito dalla destra per rievocare la tragedia delle foibe serve a nascondere la barbarie di quelli che davvero uccisero intere popolazioni solo per la propria appartenenza
«Non esistono martiri di serie A e vittime di serie B», affermava Matteo Salvini a Basovizza nel 2019, «i bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali». È un’affermazione condivisibile? Cosa si nasconde dietro questa retorica che appiattisce tutte le vittime e tutti i crimini? È normale provare empatia e sofferenza per ogni vita umana spezzata, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, ed è ovvio che i tre minorenni uccisi nelle violenze partigiane sul confine orientale meritano, singolarmente, altrettanto rispetto dei milioni di bambini vittime dei crimini nazisti. Tuttavia quella di Salvini è una dichiarazione pubblica che mostra la volontà di equiparare due fenomeni storici. Una volontà peraltro riaffermata in innumerevoli occasioni e da molti altri politici, dalla definizione delle foibe come «la nostra Shoah» alla creazione del mito di Norma Cossetto come «la Anna Frank italiana». Ma perché il paragone fra i crimini nazisti e quelli delle foibe non regge? Perché è davvero inaccettabile, dal punto di vista morale, oltre che storico e politico?
Le foibe sono un crimine di guerra, su questo non ci possono essere dubbi. Uccidere nemici inermi, dopo la cattura, al di fuori del combattimento e senza un giusto processo (come è spesso avvenuto in quelle circostanze) è sempre un crimine. Specie se ciò avviene alla fine di una guerra, quando si suppone che ci sia il tempo per giudicare i responsabili di reati commessi in precedenza, come avvenuto infatti a Norimberga, ma non (vale la pena ricordarlo) per i criminali di guerra italiani. Tuttavia, come sanno tutti gli storici, le vittime delle foibe non state uccise «solo perché italiane», a differenza di ciò che viene ossessivamente ripetuto nella vulgata politico-mediatica. Decine di migliaia di italiani combattevano nelle file dell’esercito partigiano jugoslavo, ovvero dalla parte di chi ha commesso quei crimini, e non hanno subito, ovviamente, alcuna violenza. Inoltre fra le vittime della resa dei conti condotta dalle forze jugoslave a fine guerra, gli italiani rappresentano tra il 3 e il 5%; gli altri sono jugoslavi (serbi, croati, sloveni, ecc.): tutti uccisi perché ritenuti fascisti, nazisti, spie, collaborazionisti o contrari alla conquista del potere da parte delle forze partigiane. I liberatori jugoslavi dunque se la prendono contro specifici nemici identificati in base all’appartenenza politica e militare, non nazionale. Dunque non vittime di un’identità, ma colpiti per la propria scelta di campo, in un’epoca di contrapposizione brutale in cui stare contro la Resistenza significava parteggiare per il nazismo e i suoi crimini.
In cosa si differenziano i crimini commessi da nazisti e fascisti? Innanzitutto sono avvenuti prima: sono loro che hanno portato la guerra, la violenza e l’orrore dei campi di sterminio in tutta Europa, inclusi i territori del nostro confine orientale. Ma soprattutto quelle violenze sono state davvero condotte contro interi popoli e intere categorie umane, a prescindere dalle scelte politiche o militari delle vittime. L’ideologia nazista prevede l’emarginazione, la ghettizzazione e infine l’eliminazione fisica di interi popoli e intere tipologie di individui. Certo, tra le vittime del nazismo ci sono anche antifascisti, partigiani e soldati di eserciti nemici, ma la stragrande maggioranza non viene uccisa per il suo agire o le sue scelte. Omosessuali, disabili, malati psichiatrici, rom, sinti, ebrei devono morire perché appartengono a una data categoria. Non c’è via d’uscita, non importa cosa fai o farai: dal neonato al novantenne, tutti sono destinati a morire, non per sbaglio o per eccesso di violenza, ma per una decisione ideologica preventiva. È questo l’orrore del nazismo e dei suoi crimini, definiti giustamente, a guerra finita, «crimini contro l’umanità». Coraggiosamente e a rischio della propria vita, combattevano contro questo orrore, tra gli altri, i partigiani jugoslavi.
Il regime fascista italiano non conduce una coerente politica genocidiaria. Tuttavia anche l’ideologia fascista identifica comportamenti sociali, razze e popoli da emarginare ed eventualmente eliminare. All’interno dei propri confini l’Italia fascista incarcera decine di migliaia di antifascisti (questi sì, identificati sulla base della loro attività contro il regime), ma anche jugoslavi di confine (i cosiddetti «allogeni»), omosessuali, prostitute, «asociali», sinti e rom. La maggior parte delle violenze fasciste sono però condotte oltre confine, in guerre coloniali o d’invasione. Come è logico, c’è chi prova a resistere a queste aggressioni e l’esercito italiano reagisce identificando l’intero popolo come nemico e agendo di conseguenza. In Libia nei primi anni Trenta vengono internati centomila civili; ne sopravvive la metà. In Etiopia muoiono, in seguito all’invasione del 1935, almeno 500.000 persone. In Albania, Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica, ovunque l’esercito fascista commette violenze contro le popolazioni locali, colpevoli di non subire passivamente l’oppressione straniera.
Ogni guerra è un crimine, si potrebbe obiettare, e porta con sé violenze che colpiscono anche i civili. Ma un conto è quando queste morti sono la conseguenza indiretta della guerra (ad esempio di un bombardamento contro obiettivi militari) o riguardano i combattenti dei rispettivi eserciti. Molto diverso è quando l’intero popolo è considerato nemico. Allora i bombardamenti diventano indiscriminati, la repressione colpisce tutti, i civili vengono colpiti volontariamente e consapevolmente.
L’esercito partigiano jugoslavo nel 1945 se la prende con gli avversari politici e militari. Non identifica un intero popolo come nemico perché sta combattendo per liberare il proprio paese, non ne sta invadendo un altro. Anche quando le forze jugoslave arrivano in Istria o a Trieste, quei territori sono considerati parte del proprio spazio nazionale, perché in effetti lì vivono centinaia di migliaia di jugoslavi (croati e sloveni, oltre a moltissimi individui con identità miste e fluttuanti). Completamente diverso è il contesto di una guerra coloniale o d’invasione, quelle condotte da fascisti e nazisti, dove è evidente, e dato per scontato dagli stessi occupanti, che l’intero popolo è contrario all’oppressione. E dunque l’intero popolo subisce rastrellamenti, ritorsioni, stragi.
In sostanza abbiamo di fronte tre casistiche storiche completamente diverse, originate da tre modalità d’azione e tre sistemi di pensiero, e che hanno effetti differenti, anche nel conteggio delle vittime. Il regime tedesco, guidato dall’ideologia nazista tra il 1933 e il 1945, conduce una campagna di eliminazione di interi popoli e intere categorie umane che porta alla soppressione di circa 10 milioni di persone. Il regime italiano, guidato dall’ideologia fascista tra il 1922 e il 1943, conduce guerre d’invasione identificando di conseguenza interi popoli come potenziali nemici e massacrando quindi non solo gli oppositori in armi, ma anche i loro connazionali di ogni età e genere, uccidendo così circa un milione le persone. I partigiani jugoslavi, guidati dall’ideologia comunista fra il 1941 e il 1945, conducono una guerra di liberazione del proprio paese e uccidono avversari politici e militari, talvolta fuori dal combattimento, non perché italiani o di qualunque altro popolo, ma perché hanno sposato le ideologie criminali di cui sopra, e talvolta hanno concretamente condotto crimini contro il popolo jugoslavo o contro l’umanità. Ovviamente fra le vittime ci sono anche individui colpiti erroneamente o per altre motivazioni, ma sono una piccola minoranza: la stragrande maggioranza è composta da uomini adulti che hanno scelto di combattere contro la Resistenza. I morti globali di questa resa dei conti sono circa 100.000 in tutto lo spazio jugoslavo, 5.000 al confine con l’Italia: le cosiddette «vittime delle foibe».
Non sta a me, in quanto storico, dare giudizi di valore o fare considerazioni morali. È del tutto evidente però che si tratta di fenomeni diversi, in termini di quantità e qualità, e diversamente andrebbero considerati anche dalla politica. In un’epoca che mette la vittima al centro del quadro, che dimentica facilmente i contesti e i valori dei protagonisti del passato, in che modo vengono quindi commemorati oggi questi crimini dalle nostre istituzioni?
Da circa vent’anni sono state istituite due giornate commemorative, quella della Memoria dei crimini nazisti e quella del Ricordo delle foibe. Tali celebrazioni sono simili nella denominazione, vicine nel tempo (27 gennaio e 10 febbraio) e hanno lo stesso identico peso formale. Ripeto per essere più chiaro: i crimini contro l’umanità commessi dai nazisti nelle logiche che sono state ricordate, e che hanno ucciso 10 milioni di persone, sono commemorati alla stessa stregua delle violenze condotte dai partigiani jugoslavi contro 5.000 persone, molti dei quali condividevano il campo nazista.
Nei discorsi istituzionali e nella propaganda mediatica sulle foibe si parla di «pulizia etnica», si afferma che le vittime sarebbero state uccise «solo perché italiane» e si ribadisce il paragone con la Shoah, ignorando al tempo stesso i crimini fascisti e nazisti commessi in precedenza in quello stesso territorio. Come credo sia ormai chiaro, tutto ciò è assurdo, offensivo, umiliante, di fatto «negazionista» o almeno enormemente «riduzionista» nei confronti della Shoah e dei crimini nazisti e fascisti. Per di più negli ultimi anni il giorno del Ricordo ha acquisito un’importanza politica addirittura maggiore rispetto a quello della Memoria. La Rai ha prodotto due film sul tema, se ne interessano programmi televisivi di ogni genere, se ne parla addirittura a Sanremo durante il festival dei fiori; politici di tutti gli schieramenti ne strumentalizzano la vicenda, enti pubblici di ogni livello intitolano strade, piazze, parchi, monumenti a Norma Cossetto o ai «martiri delle foibe»; il Ministero dell’Istruzione dirama circolari-fiume sul tema («Linee guida» di ben 90 pagine), i prefetti di tutta Italia chiedono alle scuole di insegnare la falsa «pulizia etnica» ai loro studenti e il Parlamento ha da poco approvato lo stanziamento di milioni di euro per incentivare la propaganda antistorica delle associazioni nostalgiche, finanziando «viaggi del ricordo» scolastici al confine orientale.
Non ci possono essere dubbi: nella nostra memoria pubblica le violenze dei partigiani a fine guerra hanno acquisito un peso molto maggiore dei crimini nazisti, e sono probabilmente oggi più conosciute e ritenute più rilevanti dall’opinione pubblica. Può sembrare assurdo e paradossale, ma è così. Eppure manca ancora un tassello, la beffa oltre al danno.
Che fine hanno fatto i crimini fascisti? Su questo semplicemente non esiste una memoria pubblica. Chi davvero uccideva intere popolazioni solo per la propria appartenenza, chi ha davvero ucciso «etiopi solo perché etiopi» e «jugoslavi solo perché jugoslavi», non viene nemmeno menzionato sui libri di scuola, non merita film, vie, parchi, lapidi né uno straccio di dichiarazione pubblica di condanna.
E dunque, in definitiva: si mente sulle reali motivazioni del crimine delle foibe per cercare di farlo passare come un crimine fascista; e intanto si ignorano i veri e propri crimini del fascismo, finendo per far passare i fascisti come innocenti e anzi vittime dei partigiani. Si dedicano energie politiche e risorse economiche straordinarie per diffondere tali falsità e si cerca in questo modo di fare percepire all’opinione pubblica le foibe come addirittura più gravi dei crimini nazisti e della Shoah.
Le implicazioni storiche, politiche e morali di queste scelte politiche sono evidenti e non dovrebbe nemmeno essere necessario sottolinearle. Qui, oggi, i rappresentanti della nostra democrazia ci stanno raccontando le ideologie del passato e i loro crimini capovolgendo la realtà e negando l’evidenza. In questa rappresentazione è facile identificare obiettivi politici di fatto eversivi verso lo stesso sistema democratico. Secondo questa rappresentazione il fascismo è un’ideologia innocente, l’esercito italiano in quell’epoca non ha commesso alcun crimine e «Mussolini non ha mai ucciso nessuno», come dichiarato almeno una volta da Silvio Berlusconi quando era capo del Governo. Dall’altra parte il nazismo ha ucciso, certo, ha commesso crimini terribili e innegabili; e tuttavia, secondo questa rappresentazione falsata, chi combatteva contro il nazismo (gli antifascisti) ha ucciso in maniera analoga, e forse anche peggiore. È questo il messaggio che ogni anno tra gennaio e aprile, dal giorno della Memoria alla festa della Liberazione, giunge all’opinione pubblica. Nazisti e antifascisti ugualmente criminali. Al punto che un assessore comunale di un grande città come Lucca può candidamente dichiarare che non è possibile intitolare una via a Sandro Pertini perché è stato un partigiano.
Se questi sono i criminali, chi sono invece «i nostri eroi» del passato, i cavalieri immacolati, senza macchie né crimini, coi quali ci dovremmo identificare? La risposta ormai pare ovvia, ripetuta ossessivamente e interiorizzata da buona parte dell’opinione pubblica. Se non fosse già qui, ci sarebbe da rimpiangere il fascismo…
*Eric Gobetti è uno studioso di Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia. Autore di documentari e monografie, è un esperto di divulgazione storica, viaggi e politiche della memoria. Sui partigiani italiani in Jugoslavia ha realizzato il film Partizani (2015) e il libro La Resistenza dimenticata (Salerno editrice, 2018).
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