
Chi rappresentano i Top Job europei
Di fronte all'avanzata in Europa delle destre estreme, le nomine ai vertici delle quattro posizioni chiave dell'Unione segnalano la risposta di natura liberista e antidemocratica del blocco dominante di «estremo centro»
I negoziati hanno innanzitutto svelato quale fosse il centro di gravità dei processi decisionali tra i 28 Stati membri dell’Unione Europea: l’obiettivo principale è stato essenzialmente il raggiungimento di un accordo tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron, processo del resto ampiamente mediatizzato. Tanto che i media hanno addirittura smesso di parlare della procedura classica di elezione del Presidente della Commissione da parte del Parlamento europeo attraverso il metodo degli Spitzenkandidaten dei vari gruppi politici; in un’Unione europea in crisi in cui l’estrema destra cresce pericolosamente, il blocco dominante dell’«estremo centro» (che trova i suoi alfieri al Parlamento europeo nei social-liberali del gruppo dei Socialisti e Democratici, nei centristi di Renew Europe, ex Alde, nei conservatori del Partito Popolare Europeo e, in qualche misura, anche nei Verdi) si sta organizzando per mantenere lo status quo senza farsi scrupoli di mantenere le apparenze democratiche. Così, la Presidenza della Commissione europea, formalmente eletta dal Parlamento in una votazione tra gli Spitzenkandidaten, è stata in realtà il sugello dell’accordo raggiunto nell’ambito del Consiglio europeo tra Angela Merkel e Emmanuel Macron. È vero che la ricomposizione politica tra i gruppi parlamentari S&D, RE e Ppe non è ancora completa e sta creando contraddizioni che potrebbero potenzialmente scatenare conflitti interni, e la stessa adesione del Gruppo dei Verdi al blocco dominante è tutt’altro che scontata; ma, in ultima analisi, è molto probabile che l’accordo voluto dal Consiglio europeo sarà adottato senza grandi sconvolgimenti.
Una diretta emanazione della costruzione europea neoliberista
L’accordo sulle nomine testimonia, non a caso, il fatto che l’Unione europea è un progetto al servizio del grande capitale, che schiaccia le classi lavoratrici in Europa come nel resto del mondo.
Ursula von der Leyen è stata nominata ed eletta presidente della Commissione europea, con il voto del parlamento il 16 luglio. Membro dell’Unione Cristiana Democratica Tedesca (Cdu), il partito conservatore di Angela Merkel, è stata ministro nei governi della Cancelliera dal 2005, dopo aver ricoperto incarichi ministeriali in Bassa Sassonia dal 2003. Era Ministro della difesa dal 2013, e come tale ha impegnato truppe tedesche nella guerra imperialista in Mali, guidata dalla Francia insieme ad altre forze militari europee, ha appoggiato il progetto di rafforzamento della Nato e lo sviluppo di una «difesa comune europea». Viene da una famiglia borghese della Germania settentrionale e ha sposato un membro della famiglia alto-borghese nobilitata von der Leyen: forse è per questo che non si è fatta scrupoli ad abolire una serie di prestazioni sociali per i ceti più vulnerabili. In Bassa Sassonia, il suo ministero ha abolito nel 2005 le indennità versate agli ipovedenti (reintrodotte, in misura ridotta, solo due anni dopo dal governatore che le è succeduto). A livello federale ha invece abolito gli assegni familiari versati alle famiglie più povere, in nome di una visione falsamente presentata come «femminista» che sostiene che le madri debbano lavorare ma non tiene conto delle condizioni di accesso al mercato del lavoro, nonostante queste ultime siano particolarmente deteriorate in Germania proprio per le donne e per i lavoratori non qualificati. Prima della candidatura europea, c’è stato un momento in cui si vociferava avrebbe potuto prendere il posto di Angela Merkel alla guida della Cdu. In ogni caso, c’è da scommettere che la signora von der Leyen difenderà in modo intransigente l’ordoliberismo economico nell’Unione europea, chiedendo alle classi popolari di stringere la cinghia per limitare i disavanzi e ridurre il debito pubblico, mantenendo al contempo stabili i tassi di profitto dei capitalisti.
Christine Lagarde, volto già molto noto della politica internazionale, è invece la proposta di Emmanuel Macron e Angela Merkel per il vertice della Banca centrale europea. Questa istituzione gode di una presunta «indipendenza», che non è altro che un modo per allontanarla dalla politica e limitare illusoriamente la sua azione alla sfera meramente tecnica. Ma la Bce è stata in prima linea nella crisi del debito pubblico greco quando si è trattato di imporre i diktat dei creditori ed è andata molto al di là dei limiti del suo mandato quando ha ricattato la Grecia durante il primo governo Tsipras, tagliando in particolare l’accesso del paese alla liquidità pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Syriza, del gennaio 2015, e facendo chiudere le banche greche una settimana prima del referendum del 5 luglio 2015. E da tutti questi passaggi la Bce ha peraltro, odiosamente, ricavato profitti.
Christine Lagarde è la persona giusta per questo posto, visto che dal luglio del 2011 guida il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Il Fondo ha costituito la Troika insieme a Bce e Commissione europea, salvando le principali banche europee dall’esposizione ai rischi che si erano assunti rispetto al debito della Grecia e facendo pagare il conto alla popolazione greca imponendo l’austerità e causando i disastri sociali e umanitari che tutti conosciamo. L’Fmi sembra ormai specializzato nella pubblicazione di testi che mettono in discussione l’efficacia delle sue politiche passate, sotto forma di articoli, «working papers» o rapporti di valutazione fatti a posteriori, che non impegnano in alcun modo l’istituzione. Tuttavia non dobbiamo lasciarci abbindolare: il Fondo rimane uno strumento cardine del progetto imperialista di espansione aggressiva del neoliberismo in tutti gli Stati del mondo. Sotto la guida di Christine Lagarde, l’austerità sostenuta dall’Fmi non ha peggiorato le condizioni di vita della gente soltanto in Grecia, ma anche in paesi come Haiti, Guinea, Egitto e Tunisia, dove i tagli ai servizi sociali o i sussidi per i beni di prima necessità spesso causano esplosioni sociali. In Sudan, per esempio, nel dicembre 2018 sono state proprio le misure di liberalizzazione economica promosse dall’istituzione rappresentata da Christine Lagarde ad accendere (ancora una volta) la miccia nel paese, innescando una grande rivolta popolare che ha dovuto affrontare la feroce repressione delle forze di sicurezza.
Christine Lagarde ha alle spalle 25 anni di carriera nel ricco studio legale internazionale Baker McKensie, di cui nel 1999 aveva preso la direzione, finché non assunse cariche ministeriali nei governi conservatori di Dominique de Villepin (sotto la presidenza di Jacques Chirac) e François Fillon (sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy) dal 2005 in poi. Durante la presidenza di Nicolas Sarkozy, e fino a che non è entrata all’Fmi nel 2011, Lagarde è stata Ministro dell’Economia e delle Finanze. È quindi nel corso del suo esercizio finanziario che le principali banche private sono state ricapitalizzate dopo la crisi bancaria del 2008, iniettando miliardi di euro di denaro pubblico in istituzioni finanziarie i cui dirigenti non si sono mai preoccupati delle loro responsabilità nella crisi. Parallelamente, il governo francese sta facendo pagare la crisi alle classi popolari, applicando l’austerità nei servizi pubblici o innalzando l’età pensionabile, nonostante il massiccio movimento di opposizione sociale nato nell’autunno del 2010. Proprio in quell’anno, in qualità di ministro delle Finanze della seconda economia dell’eurozona, è Lagarde stessa a chiedere, nel primo memorandum, che i tassi di interesse sui prestiti della Troika siano i più alti possibili. Ciò ha permesso alla Francia, per esempio, di accumulare nel solo periodo 2010-2013 circa 695 milioni di euro di utili sulle spalle della popolazione greca.
È anche in qualità di ministro dell’economia e delle finanze che Christine Lagarde ha avallato l’arbitrato a favore di Bernard Tapie nella controversia tra lui e il Crédit Lyonnais, chiedendo che lo Stato (proprietario della «bad bank» creata per liquidare le passività del Crédit Lyonnais dopo il fallimento negli anni Novanta) pagasse 403 milioni di euro all’uomo d’affari. È stato dimostrato che dietro l’accordo ci fosse l’ombra della collusione. Per questo la Corte di giustizia francese, organo giudiziario il cui scopo è proteggere i ministri dai tribunali ordinari, ha dichiarato nel dicembre 2016 Christine Lagarde colpevole di negligenza. Ma la stessa è stata dispensata dalla pena finché la sua fedina penale resta intatta (!), in ragione, si è detto, della sua «personalità» e della sua «reputazione internazionale». Come a dire: Christine Lagarde gode di indefessa fiducia delle classi dirigenti a livello internazionale.
Nel bel mezzo della tempesta le due grandi potenze dell’eurozona stringono la presa sul timone dell’Ue, nominando da un lato una donna tedesca fedele ad Angela Merkel e alla Cdu, dall’altro una francese alfiere del neoliberismo mondiale. Il quadro di questo revival del potere centro-europeo si completata con una personalità che viene dal vecchio Benelux, Charles Michel, primo ministro belga dal 2014 al 2019, nominato presidente del Consiglio europeo. Nel 2014 Michel ha formato un governo di destra sostenendo un’alleanza tra il suo partito liberale e i democristiani fiamminghi, ma anche e soprattutto con la destra nazionalista fiamminga di Bart de Wever, la N-VA. Questo partito di estrema destra difende una politica conservatrice a favore del capitale e contro il lavoro, e promuove politiche razziste, in particolare con il pretesto di una presunta difesa di valori presentati come «europei» come i diritti delle donne e quelli delle persone Lgbt; diritti di cui in realtà il partito si fa beffe. Lavorando a stretto contatto con i datori di lavoro belgi, il governo di Charles Michel ha perseguito molte politiche antisociali dopo aver sconfitto un movimento sociale combattivo nell’inverno 2014-2015, come l’innalzamento dell’età pensionabile, lo smembramento del diritto del lavoro e l’approvazione di riforme fiscali a favore del capitale.
Il governo di Charles Michel non si è fatto scrupoli a giocare con la paura e il senso di insicurezza dopo gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e ha dispiegato nelle strade soldati e veicoli corazzati, seguendo una politica antiterrorismo dalla logica decisamente opaca, che peraltro non è servita a prevenire gli attentati del 22 marzo 2016 a Bruxelles.
Inoltre, nominando Jan Jambon al Ministero dell’Interno e Theo Francken alla Segreteria di Stato per l’Asilo e l’Immigrazione, entrambi esponenti del N-VA, il governo di Charles Michel ha perseguito politiche di odio e di razzismo. Per esempio collaborando con i servizi del dittatore sudanese Omar Al-Bashir (poi rovesciato da una rivolta popolare esemplare) per rimandare i migranti sudanesi in cella a Khartoum, dove li aspetta la tortura. Oppure criminalizzando i cittadini solidali che accolgono i migranti. Le politiche anti-migrazione di questo governo hanno portato alla morte di Mawda, una bambina curda di due anni, uccisa dalla polizia in un inseguimento per fermare il veicolo in cui si trovava con la sua famiglia e altri migranti. È stato proprio il N-VA a far cadere il governo Michel nel dicembre 2018, per contrarietà al «Patto di Marrakech», il noto trattato Onu sulla migrazione, non vincolante e molto poco ambizioso. Tutto ciò è avvenuto proprio in un momento in cui l’opposizione al Patto di Marrakech stava radunando l’estrema destra più abietta, e soprattutto ha permesso al N-VA e al Movimento riformatore (MR) di Charles Michel di mobilitare nuovamente i rispettivi elettorati per le elezioni della primavera 2019, che hanno consegnato un successo maggiore all’organizzazione di Bart de Wever, Jan Jambon e Theo Francken piuttosto che a quella di Charles Michel. Con la N-VA che rimane al primo posto nelle Fiandre e il partito Vlaams Belang (alleato di Matteo Salvini e Marine Le Pen) che avanza pericolosamente al secondo posto nel parlamento fiammingo, i risultati delle elezioni in Belgio hanno finalmente dimostrato che, lavorando con la N-VA per più di quattro anni, Charles Michel ha fatto da sponda all’estrema destra. Mossa paradossale per un un rappresentante di quello stesso blocco dominante che, sulla scia di Macron, si presenta come l’unico baluardo contro l’estrema destra in Europa.
Tra l’altro, nel periodo di governo provvisorio in attesa delle elezioni, nella prima metà del 2019, il governo di Charles Michel si è distinto per la sua totale sordità rispetto allo spettacolare movimento ecologista di massa che ha attraversato il Belgio e mobilitato decine di migliaia di giovani entrati in sciopero per denunciare l’inazione di fronte al disastro ecologico in corso.
L’ultimo tassello del patto del Consiglio europeo prevede la nomina di Josep Borrell, del Partito socialista spagnolo e già ministro degli affari esteri del governo di Pedro Sánchez, alla carica di Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (per dirla più semplicemente, capo della diplomazia europea). Mettendo un social-liberale a ricoprire questo ruolo Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno cercato di equilibrare la distribuzione delle posizioni all’interno del blocco dominante europeo, visto che le prime tre posizioni sono state attribuite a personalità di sensibilità liberale e conservatrice. L’altro elemento di compensazione è rappresentato dal fatto che Borrel è un politico della periferia meridionale dell’Europa, il che compenserebbe le nomine di tre personalità di spicco del zona centro-europea. La realtà è che il Partito Socialista spagnolo è pienamente in linea con il progetto neoliberista europeo, e questo «equilibrio» non ha altro effetto che legittimare l’accordo tra Emmanuel Macron e Angela Merkel.
Per quanto riguarda l’approccio di Josep Borrell agli affari esteri, dobbiamo ricordare la sua recente visita in Niger nel giugno 2019. A parte l’indignazione dell’opinione pubblica spagnola per la scelta di presentarsi con abiti che ricordavano quelli dei coloni europei in safari, il viaggio era in tutto e per tutto in continuità con la politica estera dell’Ue e dei suoi Stati membri, avendo coniugato questioni di sicurezza, migrazione e problemi demografici con la sfida dello sviluppo del continente africano. Di fatto, Borrel ha confermato la politica di esternalizzazione delle frontiere dell’Ue e il dirottamento degli aiuti allo sviluppo su esigenze di sicurezza e repressione. Anche a lui si deve, inoltre, il supporto del governo spagnolo al tentativo di colpo di stato di Juan Guaidó in Venezuela, un paese in cui lo Stato spagnolo ha importanti interessi economici, soprattutto in conseguenza della sua storia imperialista (ad esempio, BBVA Provincial, la filiale venezuelana di una delle principali banche spagnole, è la terza banca più grande del paese). Il 26 gennaio 2019, tre giorni dopo che Juan Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela, i governi spagnolo, francese, tedesco e inglese hanno lanciato un ultimatum al presidente in carica Nicolás Maduro intimandogli di indire nuove elezioni entro otto giorni, pena il riconoscimento di Juan Guaidó come legittimo presidente del Venezuela. Finora questo tentativo di ingerenza non ha prodotto il rovesciamento di Nicolás Maduro, ma testimonia comunque il fatto che le principali potenze dell’Ue sono disposte a difendere i loro interessi in modo autorevole non solo all’interno dell’Unione, come dimostra l’esperienza greca del 2015, ma anche al di fuori dei suoi confini.
Costruire un’alternativa anticapitalista, democratica e internazionalista
Diversi editorialisti e osservatori hanno salutato in questo accordo il fatto di rispettare la parità di genere, presentando le nomine come una piacevole ventata d’aria fresca e come la sanzione definitiva dell’«impegno degli europei per i valori della parità di genere». Lo ha scritto Le Monde il 3 luglio 2019, che ha aggiunto che «essendo da sempre impegnate in favore dei diritti delle donne, [Ursula von der Leyen e Christine Lagarde] stanno rendendo la parità di genere la normalità». È indispensabile denunciare questo tentativo di recupero del femminismo ai fini di legittimare un progetto politico antidemocratico, diseguale e razzista, in cui le donne sono tra le prime vittime. A questo proposito concordiamo pienamente con le parole di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser nel loro libro Femminismo per il 99%, che meritano di essere citate:
«Nella primavera del 2018, Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, ha informato il mondo che “staremmo molto meglio se metà dei paesi e delle aziende fossero gestiti da donne e metà delle case fossero gestite da uomini: non possiamo ritenerci soddisfatte fino a quando quest’obiettivo non sarà raggiunto”. Esponente di punta del femminismo delle donne in carriera, Sandberg si era già fatta un nome (e un bel gruzzolo) esortando le donne manager a “farsi avanti” nelle stanze dei consigli di amministrazione. Da ex capo del personale di Larry Summers – Segretario del Tesoro degli Stati Uniti d’America, l’uomo che ha deregolamentato Wall Street – Sandberg non si è fatta scrupolo di suggerire alle donne che la strada maestra verso l’uguaglianza di genere passa attraverso il successo ottenuto con la tenacia in questo mondo di affari. Quella stessa primavera uno sciopero femminista militante ha paralizzato la Spagna. Assieme a cinque milioni di manifestanti, le organizzatrici della huelga femminista lo sciopero femminista di 24 ore, hanno rivendicato una “società libera dall’oppressione sessista, dallo sfruttamento e dalla violenza”, invitando alla “ribellione e alla lotta contro l’alleanza tra patriarcato e capitalismo che ci vuole obbedienti, sottomesse e silenziose”. Mentre il sole tramontava su Madrid e Barcellona, le organizzatrici dello sciopero dichiaravanoo al mondo: “Incrociamo le braccia l’8 marzo e interrompiamo ogni attività produttiva e riproduttiva. […] Non accettiamo condizioni di lavoro peggiori di quelle degli uomini o di essere pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro”. Queste due voci rappresentano sentieri opposti, un bivio in cui si trova il movimento femminista. Da un lato, Sandberg e quelle della sua sorta vedono il femminismo come l’ancella del capitalismo. Vogliono un mondo in cui uomini e donne della classe dominante condividano equamente il compito di gestire lo sfruttamento sul posto di lavoro e l’oppressione nella società. Si tratta di una visione strabiliante di pari opportunità di dominio, per cui si chiede alle persone comuni, in nome del femminismo, di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un drone di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli in una gabbia ai confini col Messico. In netto contrasto con il femminismo liberale di Sandberg, le organizzatrici della huelga feminista chiedono la fine del capitalismo, ossia di quel sistema che genera padroni, costruisce confini nazionali e produce droni per sorvegliarli. Di fronte a queste due visioni del femminismo ci troviamo davanti a una biforcazione e la nostra scelta comporta conseguenze straordinarie per l’umanità. Un sentiero conduce a un pianeta devastato, in cui la vita umana è così impoverita da diventare irriconoscibile, o forse addirittura da non essere più possibile. L’altro sentiero porta a quel mondo che da sempre fa parte dei sogni più nobili, dell’umanità: un mondo giusto, in cui ricchezza e risorse naturali sono condivise da tutti, in cui libertà e uguaglianza sono premesse, non aspirazioni. Il contrasto non potrebbe essere più marcato. Ma quel che rende la scelta più difficile è il fatto che non esistono vie intermedie. Dobbiamo questa carenza di alternative al neoliberismo, una forma di capitalismo finanziario, altamente predatorio, che ha dominato il pianeta negli ultimi quarant’anni. Dopo aver avvelenato l’atmosfera, irriso ogni pretesa democratica, teso fino al punto di rottura le nostre società e degradato le condizioni di vita della vasta maggioranza, questa forma di capitalismo ha alzato la posta in gioco per ogni lotta sociale, trasformando ogni timido tentativo di conquistare riforme modeste in battaglie all’ultimo sangue per la sopravvivenza. In queste condizioni, il tempo degli eterni indecisi è scaduto e le femministe devono prendere una posizione. Continueremo a inseguire la “pari opportunità di dominio” mentre il pianeta brucia? O riusciremo a immaginare la giustizia di genere in forma anticapitalista, andando oltre l’attuale crisi, verso una nuova società?»
Come Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, sosteniamo con forza la seconda opzione, quella di rompere con un sistema capitalistico mortale basato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Nell’Unione europea ciò significa disobbedire alle istituzioni e ai trattati che impongono il neoliberismo usando la leva del debito (la Grecia è stata un laboratorio per esperimenti che sono destinati a ripetersi altrove, nel caso una nuova crisi minacci gli interessi delle classi dirigenti) e uccidono ogni anno migliaia di migranti. Le politiche neoliberiste Impoveriscono le popolazioni e stigmatizzano i migranti, facendo così il gioco dell’estrema destra di Matteo Salvini e Marine Le Pen. L’estrema destra che non propone un superamento del capitalismo, ma una via d’uscita autoritaria dalla crisi che rafforza lo status quo a favore delle classi dominanti nazionali.
Perciò la questione non è solo rompere la camicia di forza dell’austerità antidemocratica dell’Unione europea, ma anche tagliare i ponti con le classi dirigenti locali e nazionali, e riunire le classi popolari sulla base di un progetto per una società democratica ed egualitaria in grado anche di preservare l’ecosistema. Ciò significa cercare di costruire fin da subito forti mobilitazioni sociali per sconfiggere l’offensiva del capitale contro il lavoro e delegittimare l’Unione europea in una prospettiva antirazzista e internazionalista. È ciò che propone la rete ReCommonsEurope, che mira ad avviare discussioni con tutte le forze della sinistra emancipatrice, per stabilire un orientamento strategico comune.
*Nathan Legrand è un militante belga e fa parte del Comitato internazionale per l’annullamento dei debiti illegittimi (Cadtm). Questo articolo è stato pubblicato su cadtm.org. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
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