
Contro la guerra sui nostri corpi
Dal 20 al 27 novembre diverse manifestazioni hanno attraversato le strade di Roma, dal Transgender day of remembrance, alla manifestazione nazionale e all’assemblea di Non Una Di Meno
Il 25 novembre è stata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il 25 novembre del 1960 nella Repubblica Dominicana, furono uccise tre attiviste politiche, le sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo, dopo essere state rapite, stuprate, torturate e infine strangolate e buttate da un dirupo dagli agenti del Servizio di informazione militare. Nel 1981, durante il primo incontro femminista latinoamericano e caraibico svoltosi a Bogotà, si decise di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne e poi, nel 1991, il Center for Global Leadership of Women (Cwgl) avviò la Campagna dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, proponendo attività dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani. Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne ufficializzando la data scelta dalle attiviste latinoamericane e istituzionalizzandola con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999.
Questa giornata, per quanto possa esser stata pensata con volontà di sensibilizzazione, porta con sé molta retorica. Non basta la pubblicizzazione di immagini immediatamente associate alla violenza sulle donne – dai lividi, alle scarpette rosse – limitata a un giorno e a una funzione sostanzialmente edulcorante e assolutoria. Manca una critica socialmente diffusa della violenza su donne e soggettività non conformi; una critica che problematizzi il rapporto tra violenze e reti di gerarchie e oppressioni materiali e culturali, utili a preservare lo stato di cose presenti, dove il potere è maschio, bianco, cis etero, abile. Nondimeno, manca anche la conoscenza degli strumenti che già sarebbero a disposizione delle vittime: secondo l’indagine Istat del 2018 «Gli stereotipi e l’immagine sociale della violenza», il 64,5% della popolazione consiglierebbe a una donna che ha subito violenza da parte del proprio partner di denunciarlo e il 33% di lasciarlo. Solo il 20% la indirizzerebbe a un centro antiviolenza e solo il 2% le direbbe di chiamare il numero 1522, il servizio pubblico di sostegno alle vittime di violenza.
Quest’anno è stato introdotto l’obbligo di stilare un piano antiviolenza nazionale con cadenza triennale, finanziato ogni anno con cinque milioni di euro, è stato attivato un osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sono stati decisi dei requisiti minimi per il finanziamento dei centri antiviolenza e dei centri per uomini maltrattanti. Ciò non toglie che sia stato fatto ben poco per promuovere l’indipendenza economica e sociale delle donne, che è un passo fondamentale nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, come sottolinea il rapporto di ActionAid «Diritti in bilico».
Ci sono nessi inscindibili tra la mancata accessibilità alle risorse materiali e culturali, l’esclusione di dal pieno godimento dei diritti civili e sociali e le diverse forme della violenza – che possono essere problemi e limitazioni, violenza strutturale, culturale e diretta e che partono da atteggiamenti e convinzioni, microaggressioni ed espressioni verbali dannose, fino ad assalti fisici e uccisioni. Emerge come necessaria la disponibilità ad ampliare un ragionamento collettivo che parte dalle soggettività che vivono queste violenze, piramidali e stratificate nelle loro molteplici e più o meno immediatamente visibili forme. Con le parole di Bell Hooks in Elogio del margine: «Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo ‘sicuro’. Si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza». Questa comunità è scesa in piazza a Roma il 26 novembre, muovendosi in corteo da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni, e si è riunita nell’assemblea nazionale di Non Una Di Meno domenica 27 novembre a Roma Tre.
Migliaia di soggettività hanno attraversato le strade di Roma e si sono prese il loro spazio a pochi giorni dal Transgender day of remembrance (commemorazione delle persone transgender uccise) lo scorso 20 novembre, che ha visto manifestare assieme i movimenti Lgbtqia+ e i movimenti femministi contro le violenze personali, collettive e istituzionali subite dalle persone trans, con un approccio radicato nei princìpi anticlassisti, antirazzisti, antifascisti, non etero-normati e aconfessionali.
Lo sguardo che questi movimenti propongono è interdisciplinare e intersezionale. Questa prospettiva consente di guardare l’insieme delle differenze che compongono le molte soggettività coinvolte e permette di trovare punti di intersezione, preservando la pluralità e unendo diverse lotte, anche apparentemente lontane. Si converge, per questo, per altro e per tutto, come ci hanno insegnato Stati genderali e Gkn.
Questo approccio ha attraversato anche la manifestazione transfemminista che ha tinto di fucsia le vie della Capitale il 26 novembre, con la partecipazione di molte associazioni, organizzazioni e attivistə, tra cui: i nodi di Non Una di Meno di Roma, Milano, Marche, Genova, Carpi, Brescia, Trieste, Cagliari, Napoli, Bologna, Torino, Pisa, Firenze, Reggio Emilia, Modena, Treviso, Padova; Centri anti violenza femministi e transfemministi; e molte altre realtà intervenute nel corso della manifestazione, come Obiezione respinta, Stati Genderali e Gkn. La manifestazione è stata scandita da moltissimi interventi, performance e momenti simbolici, come il grido muto di «rabbia e gioia» dedicato in particolare a Daniela «Mimo» Carrasco, l’attivista violentata e uccisa in Cile. Un altro passaggio importante è stato scandito dal suono delle chiavi agitate in aria, come simbolo di uno strumento di difesa, che stringiamo tra le mani quando attraversiamo strade non sicure per difenderci dal rischio costante di assalti sui nostri corpi e come simbolo dello spazio domestico, territorio dove la violenza raggiunge i suoi apici, celata dall’invisibilità di ciò che sta dietro le quattro mura ed è socialmente costruito come spazio privato.
Molti sono stati i temi trattati durante gli interventi, connettendo violenza di genere, rapporto tra diritto civile e sociale, carovita, guerra e crisi climatica. Ognuna di queste problematiche colpisce soprattutto le donne, le persone Lgbtqiap+, le persone migranti e precarie.
Opporsi sistemicamente a tali forme di violenza significa opporsi a una guerra che è anche una guerra combattuta sui nostri corpi. Le guerre in Ucraina e sui vari fronti di Afghanistan, Kurdistan, Palestina o Yemen, coinvolgono tutte e aprono a violenze, lutti, stupri e distruzione che riducono queste soggettività a campo di battaglia, che si resti o che si fugga. Durante la manifestazione è a lungo risuonato il grido «Jin Jiyan Azadì» (Donna Vita Libertà), che è il grido con cui le combattenti kurde del Rojava hanno sfidato e vinto le orde del Califfato Nero e resistono alle aggressioni dell’esercito turco e dei suoi alleati jihadisti per difendere il confederalismo democratico. Importante l’intervento di Maria Edgarda Marcucci, autrice di Rabbia proteggimi. Dalla Val di Susa al Kurdistan. Storie di una condanna inspiegabile, che ha combattuto nelle Ypj, le unità di protezione delle donne curde, a sostegno del progetto politico del confederalismo democratico del Rojava e che ha recentemente scontato la condanna a due anni di sorveglianza speciale, a partire dal maggio 2020, con forti limiti alla sua libertà di espressione e nei diritti civili fondamentali, giudicata tramite una disposizione di epoca fascista, creata per silenziare il dissenso. Eddi ha ricordato che, lo scorso 14 settembre, Mahsa Amini è stata portata via dalla Polizia Morale mentre si trovava a Teheran perché indossava l’hijab in modo scomposto. Da Saqqez, si è accesa la rivolta contro l’obbligo del velo per estendersi alle altre città del Kurdistan. Questo episodio di rivolta delle donne iraniane ha rimesso al centro l’autodeterminazione come terreno di conflitto e di trasformazione, per le donne, la vita, la libertà e all’interno di una lotta che oltre che intersezionale è internazionalista.
Questi scenari toccano ogni ambito del sociale e del politico, ma anche quel campo chiuso tra i confini delle case e delle relazioni, che è espressione della violenza strutturale contro le donne e le libere soggettività, non un fatto privato.
La guerra dichiarata ai nostri corpi implica un allargamento e una maggiore conflittualità anche contro il governo Meloni che, dietro il trittico normativo di Dio, Patria e Famiglia, attacca il welfare, il reddito di cittadinanza e ogni risorsa utile all’autodeterminazione. La scarsa accessibilità dell’aborto è simbolo emblematico di questo conflitto. Durante la manifestazione Obiezione respinta ha riportato alcune delle esperienze raccolte nella loro piattaforma – dove si trova l’unica mappatura delle strutture obiettrici in Italia – sottolineando «la gravità dell’obiezione in senso stretto, ma anche della mancanza di cure post aborto, della disinformazione e dell’impossibilità di scelta delle procedure che vogliamo adottare quando decidiamo di abortire». Si tratta di una violenza pragmatica e ancorata allo stigma morale e del dolore, poiché «l’aborto medico è una pratica semplice che può essere dolorosa ma è socialmente percepita solo come tale, mentre può essere anche serena e liberatoria».
Obres e altri gruppi pro choice hanno espresso la loro solidarietà «con chi lotta per l’autodeterminazione negli Usa, in Ungheria, in Polonia, a Malta e ovunque» sottolineando che ci sono«ogni anno nel mondo 25 milioni di aborti clandestini che provocano ospedalizzazione di 7 milioni di donne». Inoltre, «in Italia i consultori pubblici sono stati definanziati e numericamente ridotti a partire dagli anni Settanta, mentre i fondi pubblici sono stati direzionati verso strutture legate ai movimenti pro life come il progetto Gemma». L’attacco all’aborto sta vivendo un’accelerazione «che si ha in un momento di crisi economica e sociale che ci rende più ricattabili, mentre noi pretendiamo più finanziamenti ai consultori, ai centri antiviolenza e per l’educazione sessuoaffettiva nelle scuole. Vogliamo molto più della legge 194».
Questi nodi sono stati sottolineati anche durante l’intervento degli Stati Genderali, che hanno rimarcato «l’importanza di un accesso alla salute universale, alla cura, ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza e l’importanza della decriminalizzazione del lavoro sessuale, del diritto al lavoro e sul lavoro, del mutualismo, di maggiori risorse per tuttə, di un reddito incondizionato». Tutte queste tematiche sono state poi affrontate nell’assemblea nazionale di Non Una Di Meno (Nudm) domenica 27 novembre. L’assemblea si è svolta in due parti e su due nodi tematici. La prima è stata dedicata a come rispondere alla crisi economica, allo stato di guerra e a come instaurare nuove alleanze. Molti sono stati gli interventi, dai diversi nodi di Nudm al Collettivo di fabbrica della Gkn. La seconda parte si è concentrata sulle tematiche legate all’accessibilità dell’Interruzione volontaria di gravidanza e ai legami tra aborto e spazi di autodeterminazione. È emersa l’intenzione di strutturare un tavolo collettivo per portare proposte che rivedano strutturalmente limiti e possibilità legati alla legge 194.
L’impegno dei movimenti è quello di sovvertire le rigidità del presente e permettere una vita dignitosa, grazie a un lavoro che è personale e collettivo, che è sempre presente e costante, che porterà nuovamente in piazza, rivendicando bisogni, desideri e l’importanza del conflitto come strumento di liberazione: insieme siam partitə, insieme torneremo, non una di meno, non una di meno!
*Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. Si occupa di studi intersezionali e storia sociale del lavoro, con particolare attenzione alla storicizzazione del concetto di classe e alla storia del lavoro domestico.
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