Contro la legge Calderoli, oltre il centralismo
Il regionalismo differenziato del governo va fermato perché rafforza i poteri economici esistenti. Ma la campagna referendaria non va condotta a difesa dello Stato nazione
Scriviamo, mentre il referendum contro la legge Calderoli ha superato di slancio il mezzo milione di firme raccolte online, da due punti di vista segnati dai contesti in cui viviamo: la Sardegna e una terra di confine, il Litorale meglio conosciuto in Italia con il nome di Venezia Giulia.
Abbiamo sottoscritto il referendum per una ragione su tutte: il combinato disposto tra la possibilità di trattenere parte del gettito fiscale generato sul territorio per il finanziamento dei servizi e delle funzioni di cui si chiede il trasferimento attraverso le intese, e la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni sulla base di una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio. In sintesi, chi si è arricchito in questi decenni tratterrà maggiori risorse, chi è rimasto senza investimenti infrastrutturali e sui servizi, con una base produttiva debole e arretrata, resterà inchiodato alla sua condizione perché storicamente ha speso meno. In questo modo si cristallizzano sul piano legislativo le disuguaglianze territoriali sulle quali si è fondata e costruita nei decenni l’Italia unita, rafforzando il processo storico di addensamento di infrastrutture, capitale umano e sociale, capacità istituzionale, sistemi produttivi e reti di imprese nel cuore del Nord Italia. Un processo permesso dal centralismo statale e da dispositivi di colonialismo «interno» funzionali a uno sviluppo diseguale tra – pochi – centri e – molte e diverse – periferie, che hanno visto nella Sardegna sabauda un laboratorio anticipatore di ciò che in seguito sarebbe stato confermato con la «rivoluzione passiva» risorgimentale di gramsciana memoria.
Il disegno di legge costituzionale sul «premierato» non va visto in contraddizione con il regionalismo differenziato. Esso va inscritto in un una tendenza globale delle democrazie liberali che registrano un indebolimento progressivo del contrappeso parlamentare e un accrescimento dei poteri degli esecutivi (a tutte le scale, sia quella statale che quelle regionali e comunali) nel nome della governabilità. Un centralismo, dunque, che non entra in contraddizione con il regionalismo differenziato, ma che al contrario viene implementato da quest’ultimo. Con la legge Calderoli infatti si consoliderebbe giuridicamente una preminenza economica e politica dei centri di potere economico del Nord, mentre con il «premierato» si aumenterebbe la governabilità dello Stato, anche in funzione di un’inclusione differenziale e subalterna delle popolazioni del Sud e delle Isole, così come delle aree più interne e marginali del Paese, entro l’assemblaggio economico-politico del cuore dell’Europa.
I motivi sono squisitamente economici, e poggiano sul «liberi tutti» creato dall’assenza di politiche industriali a tutti i livelli: il cuore del Nord fa leva sulle sue istituzioni per restare agganciato al sistema produttivo tedesco, mentre le aree marginali e periferiche, soprattutto il Sud e le Isole, si devono accontentare della concorrenza al ribasso sulle economie dell’Est Europa e delle dinamiche estrattiviste, dal turismo di massa al land grabbing energetico, per le materie prime o i rifiuti speciali. Con la piena realizzazione del disegno del Governo Meloni, marginalità economica e marginalità politica si salderebbero definitivamente, di pari passo con un divario sempre più ampio tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale.
Il punto è, tuttavia, che questo scenario non è un futuro distopico, ma fa già parte della realtà di oggi. Sia la difesa ideologica dell’unità nazionale quale garanzia dell’uguaglianza sostanziale, sia la preoccupazione relativa all’incapacità dello Stato di operare politiche redistributive e di riequilibrio territoriale a causa del regionalismo differenziato non trovano riscontro nella realtà, per il semplice fatto che, a parte alcune brevi parentesi storiche, l’attuale assetto istituzionale non ha mai garantito nessuna delle due cose.
Le critiche difensive che emergono a piè sospinto nel campo delle opposizioni e delle Regioni governate dal centro-sinistra, oggi riunite sotto l’obiettivo del referendum, sono dunque fallaci. Il referendum costituisce sicuramente un’occasione importante per respingere un disegno istituzionale sbagliato e per assestare un colpo significativo al Governo Meloni, che lo ha elaborato. Risulta però altrettanto urgente ragionare di un’alternativa allo status quo che non merita affatto una battaglia conservativa.
Unità nazionale e Stato alla prova della contemporaneità
La difesa acritica dell’unità nazionale nasce da una lettura cieca rispetto alle contraddizioni storiche del processo di unificazione statale dell’Italia, non solo per il lontano passato di colonialismo «interno» che ha investito prima la Sardegna e poi il Meridione, ma anche per il già citato processo diseguale di concentrazione di capitale fisso e umano, infrastrutture e capacità istituzionale attivamente sostenuto dalle classi dominanti dello Stato.
Eccetto la parentesi dei due decenni keynesiani successivi al Dopoguerra, nei quali si sono attivate importanti politiche economiche che, pur con tante contraddizioni, hanno assottigliato la forbice tra i territori sui diversi livelli infrastrutturali, di servizi e di base produttiva – basti pensare alla Cassa del Mezzogiorno –, lo Stato ha sempre speso di più per il Nord Italia. Lo confermano i dati del Sistema dei Conti Pubblici Territoriali che, come ben rappresentato dagli studi dello Svimez, anche al netto della previdenza, mostrano come la spesa corrente pro capite in servizi e infrastrutture a sostegno della competitività del sistema privato, nel Sud e nelle Isole è storicamente inferiore di circa venti punti percentuali rispetto al Nord. È indubbio un certo grado di responsabilità delle classi dirigenti del Sud e delle Isole a Statuto Speciale, ancorate a una visione rivendicativa sul piano delle risorse ma ampiamente colpevoli di malgoverno e sottoutilizzo dei poteri a disposizione, ma ciò non può distogliere dal punto focale: l’unità nazionale non è stata complessivamente uno strumento progressivo sul piano economico e democratico, ma ha confermato e rafforzato disuguaglianze territoriali e sociali.
La seconda argomentazione resta ancorata a una visione romantica e superata dello Stato-Nazione, immaginandolo ancora come lo strumento principale per la riparazione delle disuguaglianze sociali e territoriali. Se già la crisi economica del 2008 aveva assestato un duro colpo, è con la pandemia e la guerra in Ucraina che si è prodotto uno scarto storico negli assetti del capitalismo globale e nel ruolo dello Stato. La pandemia, provocando il rallentamento dei vari anelli delle supply chain – le catene di approvvigionamento, produzione e distribuzione globali –, ha introdotto prepotentemente tra le priorità il reshoring e il nearshoring delle produzioni. La guerra, invece, ha alimentato la necessità di un «disaccopiamento» delle relazioni commerciali tra Occidente e Russia. Non si tratta di grandi novità nella storia del capitalismo, che ha sempre presentato forme organizzative e tensioni largamente influenzate dalla sovranità politica.
A differenza del recente passato, tuttavia, in gioco non c’è un nuovo assetto bipolare, bensì un conflitto multipolare e «centrifugo» che non ha esclusivamente come base la territorialità statuale. Gli Stati, pur essendo degli attori in questo processo, vengono attraversati e ricomposti in virtù di nuove territorialità determinate da elementi quali Zone Economiche Speciali, corridoi logistici, distretti finanziari ed enclavi estrattive: sovranità territoriali non legittimate democraticamente ma capaci di comando politico, produzione giuridica e indirizzo economico, che si assemblano e concorrono con quella statuale. Lo Stato, in posizione subalterna rispetto a questi assemblaggi, è chiamato a una riorganizzazione dei suoi poteri, con un rafforzamento del potere esecutivo centrale, l’utilizzo di autorità private per la gestione di settori specializzati, l’integrazione delle logiche del capitale nella gestione della cosa pubblica.
Questa ridefinizione in chiave capitalistica dello Stato, se per i paesi egemoni del multipolarismo in formazione significa la possibilità di giocare un ruolo maggiormente strategico, tanto da far parlare di «capitalismo politico», nella maggioranza dei casi implica una perdita di incisività sul piano delle politiche redistributive e di regolazione sullo sviluppo economico e produttivo, proprio nel momento in cui i contraccolpi sociali ed economici del trentennio neoliberista si fanno più drammatici. Così, all’interno di ogni Stato, si accrescono fratture geo-economiche fra «città globali» e periferie, tra hub e hinterland.
A fronte delle trasformazioni globali del capitalismo e della pluralizzazione delle fonti di sovranità, la difesa di una preminenza dello Stato quale principale agente redistributivo e di contrasto alle disuguaglianze risulta superata e non più adeguata al raggiungimento dell’obiettivo che, per forza di cose, dev’essere raggiunto su scale più alte di quella statale, come ad esempio quella europea.
La fine della specialità?
Dalla riforma del Titolo V della Costituzione operata dal centrosinistra all’inizio del millennio, si è assistito a un processo di delimitazione delle competenze regionali con uno sviluppo della competenza esclusiva dello Stato in alcune materie strategiche come la politica estera, i rapporti con l’Unione europea, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Competenza che, ad esempio, oggi, grazie al decreto 199/2021, permette una transizione energetica centralizzata, sbilanciata a sfavore del Sud, delle Isole e delle aree interne e marginali e a favore della speculazione privata, sacrificando una qualsiasi forma di co-determinazione dei territori nell’ottica di un modello energetico democratico, socialmente giusto e micro-impattante. Al contrario, a conferma di quanto affermato in precedenza, non c’è stato uno sviluppo della lettera m) del secondo comma dell’articolo 117, concernente la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relativi ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nondimeno, la legge delega 42/2009 sul federalismo fiscale, improntata alla perequazione e al riconoscimento delle differenti esigenze territoriali, è rimasta inattuata, vittima della crisi delle finanze pubbliche.
A seguito della riforma del Titolo V, due sono state le principali critiche mosse da chi oggi rivendica la necessità di un ritorno a maggiori poteri centralizzati. La prima è che il meccanismo delle competenze concorrenti tra Stato e Regioni ha determinato una sequela di conflitti di attribuzione e ricorsi che ha reso farraginosi e incerti i meccanismi decisionali; una situazione oggettivamente complicata, la cui responsabilità però non viene attribuita all’architettura stessa di quella riforma, bensì alle Regioni che dimostrerebbero eccessivo protagonismo e litigiosità nell’avocare a sé spazi decisionali. La seconda critica deriva dal fatto che questi ultimi due decenni sono stati anche quelli in cui più si sono approfonditi i processi di aziendalizzazione e privatizzazione di alcuni servizi pubblici, in particolare della sanità: spesso viene proposto un rapporto di causa-effetto tra regionalizzazione dei servizi e loro progressiva aziendalizzazione e privatizzazione, correlazione che, tuttavia, è tutta da dimostrare. Una tragica controprova che nega questo rapporto diretto è data dal sistema sanitario calabrese: commissariato, ovvero gestito centralmente direttamente dal Ministero della Salute, ormai da 14 anni, non è purtroppo migliorato qualitativamente, né è diminuita la quota di spesa sanitaria privata, che anzi è passata dal 18,3% del 2013 al 19,6% del 2022.
Il comma 2 dell’art.11 della legge Calderoli, che prevede che le disposizioni della legge si applicano anche nei confronti delle Regioni a Statuto Speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano, certifica l’esaurimento sostanziale delle specialità, che verrebbero indebolite sul piano della forza giuridica essendo modificate nei contenuti e nelle modalità da una legge ordinaria e non da una legge costituzionale. Il paradosso è dunque che ora l’ordinamento speciale, legittimato all’origine da una differenza storica, geografica, culturale e linguistica che impone politiche differenti per garantire l’uguaglianza in seno alla Repubblica, è costretto a una rincorsa dell’iniziativa governativa a favore di alcune Regioni ordinarie.
Dalle Regioni a Statuto Speciale e da tutti i movimenti e le forze politiche e sociali che rintracciano i limiti di una battaglia tutta sulla difensiva a difesa di uno status quo centralista, può nascere un’opposizione alla legge Calderoli di natura federalista e redistributiva sul piano dei poteri e delle risorse, capace di contrapporre al modello centralista «differenziato» proposto dalla destra al governo un modello federalista fondato sull’autogoverno, sulla cooperazione e sulla solidarietà tra territori.
Autogoverno e autodeterminazione non sono parole di destra
D’altronde concetti, e soprattutto pratiche, legati all’autogoverno e all’autodeterminazione hanno fatto parte della «cassetta degli attrezzi» del movimento operaio e del pensiero socialista fin dall’inizio della sua storia. Senza scomodare i tanti movimenti anticoloniali del XX secolo che hanno unito la liberazione nazionale a quella sociale, esercitando il diritto all’autodeterminazione, anche nel nostro Continente possiamo rintracciare teorie ed esperienze eretiche rispetto a un’egemone declinazione centralista delle battaglie per l’emancipazione sociale.
Osvaldo Gnocchi Viani, ad esempio, promotore nel 1882 del Partito Operaio Italiano e fondatore, alla fine del secolo, delle prime Camere del Lavoro, metteva al centro della sua azione politica i principi del «far da sé solidaristico» e il comunalismo federalista, contro la visione di derivazione bismarckiana della «scuola della riforma sociale per opera dello Stato». Gnocchi Viani suggeriva, viceversa, che le leggi non dovevano essere concepite per sottrarre spazi, materie, possibilità al «far da sé» degli operai, bensì per «togliere ostacoli», per agevolare l’esercizio dell’autogestione operaia dei problemi e degli interessi degli operai stessi.
Sebbene nel campo socialista italiano la visione politica di Gnocchi Viani sia stata in seguito sconfitta nei fatti da quella di Filippo Turati basata proprio sul modello «tedesco», essa in qualche modo sopravvisse anche negli anni successivi soprattutto nelle esperienze dei primi Sindaci socialisti, eletti democraticamente dopo il superamento della nomina prefettizia degli stessi nel 1889. Emblematico, ma non isolato, da questo punto di vista è il caso di Andrea Costa, che a Imola prima come Assessore alla pubblica istruzione e poi come Sindaco contribuì alla costruzione di uno di quei «contromondi socialisti» che si contrapponevano allo Stato centrale, liberale e monarchico. Una stagione che è stata definita di «municipalismo popolare».
Imola fu il primo Comune italiano a guida democratica e socialista: in quel periodo venne riordinato il prelievo fiscale rendendolo più progressivo, e l’amministrazione si impegnò nel rafforzamento del sistema scolastico, anche attraverso scuole serali e domenicali e accrescendo le borse di studio. In seguito, attraverso due referendum, nel 1906 e nel 1912, vennero create le aziende comunali dell’energia elettrica e dell’acqua. A Imola, così come altrove, si iniziarono a inventare le prime istituzioni del welfare su base locale, non soltanto per sopperire alle forti lacune dello Stato centrale, ma anche perché era sulla scala locale e più nello specifico municipale che si poteva costituire quella forma organizzativa, prossima alla classe operaia, che permetteva di realizzare concretamente l’autogestione di quei servizi. Fu a partire da queste spinte che nel 1903 venne varata dal Governo Giolitti la legge sulla cosiddetta «municipalizzazione» dei servizi locali.
Più tardi l’Antonio Gramsci «maturo», nella lettera per la fondazione de L’Unità del 1923, prospettò la nascita di una Repubblica federale degli operai e dei contadini al posto dello Stato unitario. Un’opzione sviluppata nelle Tesi di Lione del 1926 e in quelle di Colonia del 1931, da parte del Partito Comunista d’Italia, secondo il quale per «soddisfare le aspirazioni delle masse lavoratrici», la rivoluzione proletaria avrebbe dovuto costituire «repubbliche socialiste e soviettiste del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna», dando «alle minoranze nazionali il diritto di disporre di sé stesse sino alla separazione», per liberare «tutte le popolazioni coloniali dall’oppressione dell’imperialismo italiano».
Qui c’è il Gramsci attento al Partito Sardo d’Azione, nell’ambizione di spostare a sinistra le masse contadine. Ma c’è anche il Gramsci delle Note sulla Questione Meridionale e, più tardi, degli studi sui gruppi subalterni nei Quaderni, che mettono al centro l’importanza di una piena adesione alle peculiarità politiche, sociali e culturali insite ai diversi territori per la fuoriuscita dalla subalternità e la realizzazione di una piena «autonomia integrale» delle masse operaie e contadine. Una traiettoria politica dismessa dal PCI dalla «svolta di Salerno del 1944» al V Congresso di Roma del 1945-46, dove il partito si dichiarò contro ogni opzione federalista nel nome dell’unità nazionale così difficilmente conquistata con la Resistenza, immaginando al contempo le timide forme di autonomia regionale che sono giunte sino a oggi.
Nonostante la traiettoria dello sviluppo istituzionale della Repubblica Italiana non si sia di troppo discostata dall’impostazione centralista del suo predecessore, anche nella storia di alcune delle più importanti lotte emancipatrici del Dopoguerra si possono riscontrare le tracce di un autonomismo – inteso non nell’accezione datagli dagli Statuti speciali, ma in senso lato – che, più che essere teorizzato e affermato esplicitamente, si è prodotto nella pratica. Pensiamo ad esempio alla rivoluzione basagliana che portò, sul piano nazionale, al superamento delle strutture manicomiali con la Legge 180/1978. Una vicenda nata in periferia, tra Gorizia e Trieste, grazie a un processo politico che seppe sfruttare, approfondire, mettere in crisi gli spazi pur risicati di autonomia a livello provinciale – all’epoca gli Ospedali Psichiatrici erano, per l’appunto, Provinciali. Il conflitto mosso dentro e contro l’istituzione totale del manicomio fece leva, tra le altre cose, sul fatto che una parte rilevante del sistema di potere manicomiale, non solo quello politico-amministrativo, ma anche quello scientifico-disciplinare, si collocasse alla stessa scala del territorio, individuato come il contesto d’azione dove promuovere un modello di salute inteso non come mera assenza di malattia, bensì come rapporto positivo tra l’individuo e l’ambiente fisico e sociale che lo circonda. Lo smantellamento dell’istituzione totale del manicomio venne così operata in favore di un sistema di salute territoriale, decentrato, volto a favorire l’autonomia e la capacità di far da sé del malato, dentro la sua comunità di riferimento. Studiando la storia dell’esperienza basagliana, dunque, si ha la netta impressione che una gestione centralizzata e non delegata alle Province del sistema manicomiale avrebbe reso quell’istituzione meno permeabile al cambiamento e, in generale, più complessa l’emersione di quel processo, che fu di vera e propria innovazione dal basso.
Tornando a oggi, sono diverse le istanze legate al contrasto degli aspetti più degenerativi dello sviluppo neoliberista che sottendono richieste legittime di maggiore autogoverno a livello locale. Il caso della turistificazione di grandi e piccoli centri in tutto il Paese è emblematico: si tratta di un fenomeno globale, i cui effetti tuttavia investono in maniera articolata e differenziata i contesti locali, i quali si misurano con la sfida di dover tutelare la propria – peculiare – urbanità, ovvero le caratteristiche costitutive delle città e dei territori, che vanno dall’accessibilità dell’abitare all’integrità del patrimonio culturale e paesaggistico, dall’erosione determinata dai flussi turistici di massa. Mentre in quasi tutta Europa i Comuni sono messi nelle condizioni di poter regolare, limitare fortemente, o addirittura vietare del tutto, gli affitti brevi nelle aree dove la pervasività di piattaforme estrattive come AirBnB sta mettendo seriamente in crisi la vita in comune, in Italia questa possibilità ancora non c’è. Una gestione iper-centralista della materia impedisce agli Enti Locali di disegnare politiche di limitazione del fenomeno adattate alla specificità di ogni contesto, dove spesso le tendenze mutano anche all’interno della singola città, da quartiere a quartiere. La richiesta del gruppo Alta Tensione Abitativa di colmare un vuoto normativo con una regolamentazione nazionale che affidi ai Comuni la possibilità di limitare la diffusione incontrollata delle locazioni brevi è, a tutti gli effetti, una richiesta di maggiore autonomia, intesa come autogoverno democratico dei territori e delle comunità di fronte allo strapotere dell’estrattivismo turistico.
Dal basso e dall’alto, oltre lo Stato-Nazione
Con questo contributo abbiamo voluto evidenziare come, sia in una prospettiva storica che in relazione ai più recenti sommovimenti globali, alcune delle qualità solitamente attribuite allo Stato-Nazione appartengono a una visione idealizzata più che alla realtà. Questa constatazione rafforza le ragioni della contrarietà a un disegno istituzionale che non fa altro che assecondare le dinamiche di produzione della disuguaglianza tra territori, ma allo stesso tempo suggerisce la necessità di aprire una discussione pubblica, ampia e diffusa, una nuova fase costituente per l’autogoverno che ridisegni il rapporto tra Autonomie locali, Regioni e Stato in una prospettiva paritaria e non gerarchica, improntata a un federalismo cooperativo fra Regioni, interno fra Regione e Enti Locali, e a livello macro-regionale al di là dello Stato.
Assieme alle palesi contraddizioni insite nello sviluppo storico dello Stato italiano, serve inoltre affrontare in maniera altrettanto laica le nostre diversità: siamo un paese che contiene comunità – che possiamo chiamare anche popoli – dotate di una propria differenza storica, culturale, linguistica che motiva la possibilità di autodeterminarsi, riscrivendo democraticamente il proprio patto costituzionale con lo Stato – come in origine per gli Statuti speciali – o superandolo scegliendo nuove forme di sovranità, a maggior ragione a fronte dello sviluppo storico diseguale e delle trasformazioni contemporanee del capitalismo e degli Stati.
Oltre – o forse ancora prima – del diritto all’autodeterminazione, però, suggeriamo che sia giunto il tempo di uno sviluppo politico, prima ancora che giuridico, di soggettività sempre più autonome rispetto ai propri Stati-nazione, dentro un quadro europeo che va anch’esso ripensato nell’ottica di comunità politica plurale, confederale e solidale, anziché mera comunità di diritto tra Stati.
Per fare tutto ciò è però necessaria un’alleanza politica continentale dei margini territoriali che promuova un superamento dal basso e dall’alto degli Stati-Nazione, sempre più inadeguati ad affrontare le disuguaglianze sociali e territoriali, la crisi climatica così come quella migratoria e la transizione multipolare in atto. Le nuove forme di autonomia non possono infatti che andare di pari passo con un’integrazione solidale a livello continentale sul piano delle politiche redistributive – dalla fiscalità al welfare –, della normativa sul lavoro, delle politiche industriali sui settori strategici, e di altre policies oggi delegate ai singoli Stati, anche sul piano dei rapporti esterni nel mondo multipolare. Solo così si può conciliare un governo della prossimità consono con le proprie esigenze e peculiarità storiche, culturali ed economiche, con l’abbattimento delle tante disuguaglianze salariali, reddituali e, in definitiva, di cittadinanza, che striano territorialmente l’Europa.
Può sembrare un progetto eccessivamente ambizioso e quasi utopico, ma Pino Ferraris scriveva, nell’introduzione al suo libro Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, che «quando la maison institutionnelle minaccia di crollare e i saperi dell’ordinaria amministrazione non bastano più, nasce l’esigenza di riportare alla luce i disegni e i progetti, i calcoli e i modelli dei costruttori, di capire le logiche architettoniche discusse e realizzate, di conoscere i materiali utilizzati dai fondatori. Ogni crisi di rifondazione chiama ed esige il recupero del punto di vista genetico». Questa è per noi l’altezza della sfida se si vuole affrontare la campagna referendaria in posizione d’attacco e non di mera difesa.
*Danilo Lampis, laureato in Scienze Filosofiche, lavora come insegnante precario e progettista sociale. È vicesindaco di Ortueri (NU) e co-portavoce di Sardegna chiama Sardegna. Riccardo Laterza, laureato in Urbanistica, lavora presso l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia. È Consigliere Comunale di Adesso Trieste, per cui è stato candidato Sindaco nel 2021.
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