Contro la retorica reazionaria del fango
Contro la Superlega, in difesa delle proprie rendite di posizione, ci sono l'Uefa e gli inventori del calcio spezzatino televisivo che ha buttato i tifosi fuori dagli stadi. È nostro alleato chi fa calcio popolare non chi millanta bei tempi mai esistiti
È finito il calcio, è finito tutto. Sono arrivati i ricchi, i padroni, e si sono portati via il pallone. È questa la nouvelle vague sentimentale che circola in questi giorni in risposta alla notizia della nascita di una Superlega calcistica, cui parteciperanno solo i migliori club europei. In realtà non so se il calcio sia davvero finito, quello di cui sono certo però è che non finirà mai questa stucchevole retorica nostalgica e reazionaria, funzionale solo ai ricchi e ai padroni. Come tutte le retoriche, come tutte le nostalgie.
Andiamo con ordine. Questo tipo di discorsi si sono sentiti ripetere negli anni almeno sessanta volte, tante quanti i tentativi della Cia di assassinare Fidel Castro, eppure il pallone è sempre lì, che rotola, indifferente ai piagnistei. E anzi coinvolge intorno a sé sempre più persone, che forse saranno più stupide degli intelligentissimi nostalgici che ai loro tempi era tutto più bello, anche il calcio, e però il pallone lo amano. A modo loro. Beati loro.
Che il calcio è finito lo abbiamo sentito dire a fine Ottocento, con il primo grande aumento del prezzo dei biglietti dovuto a un interesse sempre maggiore per questo nuovo spettacolo così facile da giocare e da replicare. E poi pochi anni dopo quando è stato introdotto il professionismo, e signora mia, quanto era bello quando si giocava per passione e non per soldi. E siamo ancora nel diciannovesimo secolo, pensate un po’.
E poi il calcio è finito quando la Nazionale italiana festeggiava i Mondiali e le Olimpiadi con la divisa nera e il saluto romano, quando Giuseppe Meazza andava sulle prime pagine dei rotocalchi circondato da fiammanti auto sportive e bellissime fanciulle, pubblicizzando prodotti per lui e per lei. Altro che Beckham o Cristiano Ronaldo, dei pivelli al confronto, qui stiamo parlando di Giuseppe Meazza, eroe fascista, cui è intitolato il più iconico stadio italiano.
E siamo ancora al periodo tra le due Guerre Mondiali, ed era già tutto finito. Ed era un calcio che i nostalgici di oggi, quelli intelligenti, quelli del profumo dell’erba e del calore del fango, mica quelli stupidi della playstation e della televisione, non conoscevano neppure perché non erano ancora nati, che infatti loro ne rimpiangono addirittura uno successivo, nato quando in realtà il calcio era già finito da un pezzo però.
Il calcio poi è finito negli anni Sessanta dello scorso secolo, quando per la prima volta è stato trasmesso in televisione. Per non parlare di quando poi è finito davvero, ma davvero eh, quando a trasmetterlo sono state le televisioni a pagamento. Però sono già gli anni Novanta, e nel frattempo il calcio era finito un sacco di altre volte.
Era finito quando era stato istituzionalizzato il calciomercato, quando sono arrivati gli sponsor sulle magliette e poi quelli personali per i calciatori, quando Paul Breitner si rasava la sua iconica barba per pubblicizzare un rasoio e quando l’Argentina usava il pallone per magnificare la sua feroce e sanguinaria dittatura: Mario Kempes segnava, alzava le braccia al cielo, e intanto i cadaveri di una generazione venivano gettati nell’Oceano dai militari.
Il calcio continuava a finire e intere generazioni si succedevano spostando sempre un po’ più in là il certificato con la data di morte. Il fango, la strada, le pozzanghere, la pioggia, il gioco non erano più uno stile di vita alternativo al potere, ma la rivendicazione reazionaria di un passato puro e meraviglioso, intonso. Un’età dell’oro la cui data si doveva però spostare sempre un po’ più in là, come il certificato di morte del calcio.
Perché i bei tempi non sono mai esistiti. Il calcio nasce come prodotto dell’industria culturale, ha una sua funzione economica ed ideologica cui ha sempre obbedito. E perché la nostalgia di un tempo pacificato, senza contraddizioni, senza rotture, è un sentimento fottutamente fascista, senza andare a scomodare Walter Benjamin o Furio Jesi.
Il calcio è un prodotto di massa, una merce che si adatta allo spirito dei tempi e ai rapporti di forza esistenti, come l’arte, la musica, il cinema. Lo spettacolo si evolve secondo l’evoluzione dei modi di produzione. Nasce industriale e diventa fordista, cresce postfordista e si fa neoliberale. Oggi è finanziario. Alla faccia di tutti quelli che ne decretano la morte.
Nel 1992 nascono la Premier League e la Champions League, e le campane a morto suonano furenti, come oggi, più di oggi. Eppure il suo valore si moltiplica, per dieci, cento, mille. I diritti televisivi passano nel giro di trent’anni da una manciata di milioni a decine di miliardi, l’audience da internazionale si fa globale. Lo si gioca ovunque, lo si guarda ovunque. Alla faccia che era finito.
Negli anni Zero del nuovo millennio, quando oramai il calcio era finito tante di quelle volte che non si riesce più a contarle arrivano gli emiri, gli sceicchi, gli oligarchi, e poi negli anni Dieci i fondi d’investimento finanziari, e pensate un po’: finisce di nuovo. Che belli i tempi in cui i padroni del pallone erano bravi e buoni, come i capitalisti di una volta che creavano i reparti confino e facevano sparare ad altezza uomo contro contadini ed operai, ah che bei tempi. Oggi no, oggi i padroni sono brutti e cattivi.
Si farà la Superlega? Non lo so. Probabilmente qualcosa succederà. Secondo il report della Deloitte Football Money League 2021 i venti maggiori club europei l’ultimo anno hanno generato, nonostante la pandemia, un fatturato di 8,2 miliardi. Tutte le altre squadre messe insieme non arrivano alla metà. Nel calcio esiste de facto una separazione economica, sociale, sportiva tra le prime tre quattro squadre dei grandi campionati e tutte le altre. È sempre esistita, ora si è polarizzata. Come nelle altre attività, viviamo una fase monopolistica del mercato.
E quindi a nuovi modi di produzione corrispondono nuove vesti, e la Superlega, se e quando partirà, sarà solo l’ennesimo passaggio. Non l’ennesima fine. Anche la Premier League fu la nascita di un’associazione privata, con i club che uscirono dalla Football League per la disperazione dei puristi e dei nostalgici che dichiararono, con cognizione di causa, che quella volta il calcio era finito davvero. Solo che trent’anni dopo la Premier League è il campionato più bello e più visto nel mondo, mannaggia.
La Champions League fu creata dall’Uefa, non era proprio un’associazione privata anche se tale poi si è rivelata. Giocano sempre gli stessi, vincono sempre gli stessi, ma forse non era così anche la vecchia Coppa dei Campioni? Forse sì. E se oggi la Superlega nasce senza l’appoggio dell’Uefa, che è una delle maggiori associazioni a delinquere legali che operano sul mercato, che differenza fa? Dobbiamo essere nostalgici anche della vecchia criminalità organizzata capitalista? Sarebbe curioso.
Perché ecco, io me la farei anche una domanda su chi sono i miei compagni di viaggio in questa rivendicazione nostalgica di bei tempi mai esistiti e di un calcio che non c’è mai stato. Contro la Superlega ci sono l’Uefa, i grandi giornali, le televisioni private, gli inventori del calcio spezzatino televisivo che hanno buttato i tifosi fuori dagli stadi preferendogli gli spettatori, i vip, gli influencer. Sui social si sono scatenati presidenti e primi ministri che negli ultimi due anni hanno chiarito come sia più importante il Pil dei loro paesi rispetto alla salute dei loro cittadini, che sono morti sacrificati sull’altare della produttività e della concorrenza. Bella gente insomma.
La Superlega avrà bisogno di nuove e diverse piattaforme di fruizione, che probabilmente taglieranno fuori questi vecchi arnesi vetusti che certo non protestano per il bene comune, ma per salvare le loro rendite di posizione. Saranno piattaforme online probabilmente, che ingloberanno tutto un vecchio sistema mediatico che non sarà più in grado di servire il potente di turno e leccare i giusti culi.
I miei compagni di viaggio sono quelli che del fango, della strada, delle pozzanghere, della pioggia e del gioco fanno uno stile di vita alternativo, contro i modi di produzione capitalisti e la retorica dominante. Le ragazze e i ragazzi del calcio popolare, dell’inclusione, della partecipazione, del divertimento.
Il conflitto si sviluppa sempre insieme, in modo collettivo, sulle punte più avanzate di un sistema di sviluppo, mai da soli nelle retroguardie, piangendo per quello che non c’è mai stato. Il calcio si cambia infilandosi nelle sue aporie, ribaltando la sua retorica fallace e fallocentrica, facendo esplodere le sue mille contraddizioni, non rimpiangendo i bei tempi mai esistiti.
Oppure si possono sventolare striscioni che dicono no al calcio moderno, dimostrando di voler consapevolmente ignorare che il calcio nasce moderno, e di arrendersi quindi alla battaglia per cambiarlo. O ancora peggio si possono gridare slogan in cui si sostiene che il calcio è nato nel popolo e poi è stato rubato dai padroni, come se i ricchi studenti di Eton e Oxford della metà del diciannovesimo secolo fossero popolo, o come se fossero popolo tutti i padroni e dittatori che lo hanno sempre utilizzato per la loro gloria. Che noi di gloria ne abbiamo vista molto poca, solo le botte e le diffide ci siamo presi, a pensarci bene.
Si può fare così. Si può dire che oggi con la nascita della Superlega il calcio è finito per davvero, davvero, davvero, che i padroni ce lo hanno rubato, lo hanno ucciso. E allora produciamo l’ennesimo certificato di morte. Si può fare tutto, invece di storicizzare sempre, come diceva Fredric Jameson, si può falsificare la storia: inventando bei tempi mai esistiti, rivendicando la nostalgia del fango. Alla faccia di una realtà che è troppo complessa per essere racchiusa in beceri slogan reazionari.
*Luca Pisapia, giornalista, ha collaborato con La Gazzetta dello Sport e con il Fatto Quotidiano, e attualmente con il manifesto. È autore di Gigi Riva. Ultimo hombre vertical (Milieu) e Uccidi Paul Breitner (Alegre Quinto Tipo).
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