![](https://jacobinitalia.it/wp-content/uploads/2020/01/iraq_jacobin_italia-990x361.jpg)
Contro le guerre presenti e invisibili
Chi reclama la pace deve uscire dalle trappole geopolitiche, riconoscere i massacri già in corso e prendere atto che da tempo in tutto il mondo ci sono nuovi movimenti per fermarli
L’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani ha riattivato dibattiti e iniziative contro la guerra anche in Europa e negli Stati uniti. Queste iniziative sono sorte anche al di là delle dinamiche che si sono poi sviluppate nella regione mediorientale e di quello che potrà succedere in quella stessa area. Al di là in due sensi: da una parte le mobilitazioni e dichiarazioni in Europa e Stati uniti si sono quasi sempre concentrate sulle politiche dei rispettivi paesi e in particolare contro l’avventurismo del presidente statunitense; dall’altra quanto è avvenuto in questi anni in Medio Oriente, quanto accade in queste settimane e quanto potrà accadere alle popolazioni di quella regione appare davvero secondario nelle parole e nei pensieri di chi ha organizzato e/o partecipato a quelle mobilitazioni.
Nell’ultima settimana sono state davvero molte le manifestazioni e gli appelli a manifestare, negli Usa e in Europa. La coalizione statunitense Answer ha anche lanciato l’appello The People of the World Say: No War With Iran! per una giornata mondiale di mobilitazioni il prossimo 25 gennaio.
Naturalmente ci sono state mobilitazioni diverse tra loro, sia dal punto di vista geografico che politico – compresi i deliranti appuntamenti in Italia e in altri paesi europei in cui si celebrava il generale Soleimani come eroe della guerra al terrorismo (sic) e patriota antimperialista.
Senza arrivare a questi estremi, al confine tra propaganda sovranista e collaborazioni rossobrune, l’insieme delle principali manifestazioni hanno comunque messo al centro delle parole d’ordine l’opposizione alla guerra possibile. Questo ha significato da una parte concentrare l’attenzione sulle evidenti e criminali politiche statunitensi e del presidente Trump senza comprendere le attuali e concrete strategie in atto anche di altre potenze, regionali e globali, in quell’area; dall’altra non vedere o sottovalutare (e quindi non dare dignità e attenzione) le guerre reali che sono già in corso in Medio Oriente: in particolare alla guerra che ogni regime sta conducendo contro il proprio popolo e le mobilitazioni interne – oltre che agli interventi diretti e indiretti che stanno conducendo non solo gli Usa, ma anche Turchia, Russia e Iran. Tutto questo sembra sparire davanti al pericolo di una guerra globale, magari con qualche ventilato rischio di utilizzo dell’arma atomica.
Anche in Italia ci sono state diverse manifestazioni, talvolta davanti a basi militari o in territori profondamente segnati da servitù belliche e militarizzazione da lunga data. E anche in Italia le principali associazioni e organizzazioni nazionali (sindacali e non) stanno discutendo le iniziative per il prossimo 25 gennaio. Queste iniziative sono le prime con una certa diffusione (anche se ancora poco partecipate) dopo la crisi del movimento contro la guerra in corso da ormai oltre dieci anni. Non è questo il luogo per analizzare le ragioni di quella crisi (se qualcuna/o volesse gettare uno sguardo al passato, rimandiamo a questo intervento). Certamente il movimento contro la guerra si è dovuto scontrare con reali difficoltà e con una crescita dell’interventismo militare e dell’utilizzo della guerra come principale strumento di politica estera, oltre che con lo stillicidio di attentati terroristici che sono stati corollario di quelle guerre, in un asimmetrico gioco di specchi all’infinito tra i vari soggetti che hanno promosso le guerre e chi le ha vissute sul proprio territorio.
Ci sono due elementi che si ripropongono anche oggi. Da un lato il movimento si è diviso ed è entrato in crisi di fronte alle politiche del «governo amico» (Prodi 2006/2008 – ma qualcosa di simile era già avvenuto a fine anni Novanta assolvendo l’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema dalla sua personale guerra contro Belgrado da lui stesso chiamata di «difesa avanzata»). Oggi non ci pare ci sia questo rischio – anche se nessuno sembra chiedere conto al governo Pd-M5S del promesso decreto per fermare la vendita di armi alla Turchia. In quella fase del movimento mancò anche la capacità di affrontare le quotidiane politiche di guerra, la relazione tra politiche sociali e politiche militari, la crescita dell’interventismo delle forze armate italiane e l’aumento delle spese militari e del commercio bellico.
L’altro elemento che oggi torna prepotentemente è l’incapacità di quel movimento nel suo insieme di comprendere la novità epocale rappresentata dai tentativi rivoluzionari nella regione araba (e non solo) e degli intrecci ambigui e drammatici tra le varie potenze globali e regionali nel fare di tutto per sotterrare quei tentativi anche con il ricorso alla repressione militare interna prima, e poi alla guerra dispiegata contro le popolazioni civili. Una cecità, voluta o semplicemente accettata senza vergogna, che ha fatto voltare le spalle a qualsiasi esperienza non fosse catalogabile dentro la falsa alternativa «regimi contro jihadismo» – con la significativa eccezione nei confronti del movimento curdo.
Come è successo anche in passato, è stato delegato alle Ong e alla cooperazione internazionale il compito di intervenire per alleviare il dolore della guerra, di sostenere materialmente e psicologicamente le vittime dei conflitti – quasi mai ponendo la questione politica della relazione con i soggetti concreti che quei conflitti li vivono.
Di quale «guerra possibile» parliamo dopo che in Siria in questi anni ci sono stati oltre 500 mila morti e dieci milioni di sfollate/i? Di quali «rischi» parliamo di fronte al quotidiano stillicidio di morti nelle piazze irachene, iraniane, siriane, dello Yemen e così via – di cui sono responsabili quei regimi e tutte le potenze regionali e globali che agiscono in quell’area?
Il mondo non è lo stesso del 1991 e nemmeno del 2003. Non capirlo e limitarsi ad alzare la testa di fronte a qualsiasi trovata d’ingegno di Trump è miope, se non una totale debacle del senso stesso di un movimento contro la guerra.
L’ha scritto molto chiaramente e molto bene Sara Manisera, parlando della necessità di una diversa narrazione, differente e contraria a quella «narrazione geopolitica priva della ‘dimensione umana’. L’insopportabile narrazione della maggior parte di commentatori e analisti fatta di scontro/escalation/tensione/polarizzazione. Di bianco e nero. Dove le sfumature e le complessità vengono appiattite e cancellate».
Partendo da questa consapevolezza, servirebbe la ripresa di un movimento contro la guerra che sia allo stesso tempo di solidarietà attenta, anche critica ma generosa verso i tentativi rivoluzionari, le mobilitazioni sociali, le rivolte contro dittature e sfruttamento. Un movimento quindi totalmente esterno alle logiche geopolitiche e capace di tenere insieme l’opposizione alle politiche militari del nostro paese e delle alleanze politico-militari di cui fa parte, in costante relazione con i movimenti pacifisti e contro la guerra di altri paesi e soprattutto con le mobilitazioni popolari per la giustizia e contro ogni dittatura e le potenze che le sostengono.
Il rientrare – sempre provvisorio – della crisi armata tra Usa e Iran non ci pone di fronte ai rischi di una guerra globale, che non abbiamo mai davvero vissuto in queste settimane. Questo ci potrebbe permettere – prima ancora di organizzare manifestazioni con piattaforme magari complete ma piuttosto burocratiche e decisamente poco appassionanti – di provare a mettere in rete tutte e tutti quelle e quelli che hanno voglia di iniziare un percorso nuovo, differente dalla costruzione di piattaforme rivendicative che non incidono né sulle scelte politiche né sulle coscienze e le relazioni sociali; una rete che provi a distruggere la narrazione geopolitica e che provi a fare passi avanti rispetto all’analisi della situazione e soprattutto alla conoscenza delle realtà sociali che si stanno mobilitando – facendo circolare e diffondendo racconti, ascoltando le donne (sono sempre di più) e gli uomini che danno vita a nuove realtà sociali e politiche, alle loro proposte, attivando pratiche di sostegno reciproco, uscendo dalla logica per cui (parafrasando il grande filosofo Vujadin Boskov) «guerra è quando America spara».
* Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.