
Convergenze sul Delta del Po
Conversazione con Wu Ming 1 sul suo ultimo libro. La crisi climatica che consente all’Adriatico di riprendersi le terre bonificate, l’ossessione del fascismo per i fluidi, il ruolo delle cospirazioni e l’importanza di comunità che si ritrovano
All’inizio de La grande cecità (Neri Pozza, 2017) lo scrittore indiano Amitav Ghosh racconta del giorno in cui, girando un angolo di strada, evitò per un pelo un tornado e si salvò per il rotto della cuffia, e si dice: «In un romanzo una scena così sarebbe sembrata implausibile». Non a caso l’unica eccezione letteraria – esclusa ovviamente la saggistica – che ha affrontato il tema del cambiamento climatico è la fantascienza, perché lo stravolgimento in atto va oltre ciò che il discorso mainsntream considera «realistico».
Da qualche anno Wu Ming 1 ha provato a raccogliere la sfida di Ghosh, la sua denuncia della rimozione del cambiamento climatico da parte degli scrittori, mettendo in piedi un progetto, Blues per le terre nuove, che parte dal basso ferrarese, il paesaggio artificiale in equilibrio precario in cui Wu Ming 1 è nato, per raccontare il cambiamento climatico e immaginare forme di lotta dentro quel cambiamento. Da questo progetto è nato anche il collettivo Moira Dal Sito, il cui romanzo Quando qui sarà tornato il mare è uscito per Alegre nel 2020.
Gli uomini pesce di Wu Ming 1 è un romanzo complesso, con vari macroargomenti e diversi piani temporali su cui si snodano la resistenza, la strategia della tensione degli anni Settanta, la pandemia di Covid e infine la crisi climatica. Sulla copertina di prova c’era un uomo con la testa di pesce, su quella definitiva c’è invece il Delta del Po, più precisamente le valli di Comacchio. Sono tra i luoghi d’Europa più investiti dalla crisi climatica, sconvolti soprattutto da siccità e alluvioni, fenomeni che i media tengono separati ma sono strettamente collegati.
Si può dire che il Po è il vero protagonista de Gli uomini pesce?
Sì, o meglio: protagonista è il territorio creato dall’ultimo tratto del Po, la bassa pianura plasmata dal fiume, dalle sue rotte, esondazioni, deviazioni. Nel corso dei secoli, in quelle zone, il ramo principale del Po si è spostato sempre più a nord, in una serie di «eventi estremi», come si dice oggi, che hanno ridefinito il territorio, creando zone umide, un mondo palustre, o meglio, vallivo, perché quelle zone umide da noi si chiamano «valli». Alcune erano di acqua dolce, altre di acqua salmastra, perché era un mondo di ambigui scambi tra fiume e mare.
In gran parte le zone umide furono delimitate, regolate e trasformate in valli da pesca e da caccia. Infine, tra gli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento, furono bonificate, e con la forza delle pompe idrauliche si impose la grande agricoltura capitalistica, di fatto generando un proletariato rurale – i braccianti – la cui sindacalizzazione e politicizzazione di massa, come spiega Guido Crainz nel suo Padania, non ebbe corrispettivi nel resto d’Europa. Al tempo stesso, ci si ritrovò con un territorio fragile e sempre in bilico, sempre a rischio di tornare sommerso. È un territorio che ha una storia unica, peculiare, diversa da quella del resto d’Italia. È sempre stato uno strano laboratorio, dove svariati fenomeni si sono presentati prima o in maniera più netta, più radicale.
Basta pensare allo squadrismo agrario, che è un’invenzione dei grandi proprietari terrieri che vivevano a Ferrara e avevano con le campagne un rapporto che è stato definito «coloniale». Costoro stavano perdendo parte del controllo sulle loro proprietà, sui rapporti di produzione. Nella provincia il movimento bracciantile era molto forte, case del popolo spuntavano come funghi e il socialismo conquistava sempre più potere politico, municipio dopo municipio. La zona tra Ferrara, Rovigo e il mare era una delle zone più rosse d’Italia. Per capirci: nel 1919, Giacomo Matteotti, segretario della Camera del lavoro di Ferrara, fu eletto deputato nel collegio di Ferrara-Rovigo.
La soluzione invocata e trovata dagli agrari fu lo squadrismo, e come regista dell’operazione fu scelto Italo Balbo. Che fece distruggere camere del lavoro, case del popolo, sedi di partito e di cooperative, fece uccidere sindacalisti e antifascisti. Nel frattempo il governo decise di sopprimere il collegio elettorale Ferrara-Rovigo, che fu smembrato e diviso. Ferrara fu accorpata a Bologna, e nel risultante collegio, alle elezioni del 1921, tra gli eletti alla Camera ci fu Mussolini. Rovigo fu invece accorpata a Padova, dove Matteotti fu rieletto nel 1921 e, contro tutto e tutti, nel 1924, l’anno in cui fu ucciso.
Dunque, è un territorio in cui si sono giocati sorti collettive importanti, ed è un territorio segnato da un’agitata dialettica tra terra e acqua, dove i confini tra le due erano – e sono – continuamente rinegoziati, dove permane il conflitto, perché di norma l’acqua viene sloggiata da un luogo ma poi erompe in un altro e infine torna dov’era prima.

Oggi, dove apparivano quelle grandi zone umide appaiono campi da un orizzonte all’altro, terra emersa, asciutta. Ma appunto, è apparenza, perché se non ci fossero delle macchine – ottanta impianti idrovori e quattromila chilometri di canali – che operano tutti i giorni per mantenere quel territorio emerso, di pioggia in pioggia una vasta parte di provincia tornerebbe sott’acqua. E ci rimarrebbe, perché quel suolo è sotto il livello del mare. L’acqua in eccesso viene sollevata e immessa in canali che poi la fanno defluire nell’Adriatico, cosa che però è sempre più difficile perché l’Adriatico si sta alzando.
Ed è proprio questo il punto: l’Adriatico si sta alzando. Noi abbiamo un territorio che si abbassa sempre di più, che viene tenuto emerso per il rotto della cuffia, e intanto nel corso di questo secolo l’Adriatico si alzerà di un metro e passa – stima secondo me ancora cauta – e dunque entrerà per chilometri e chilometri, e il territorio in cui sono nato e cresciuto finirà sott’acqua.
È stata questa la molla, questo lo scatto che ho sentito nella testa nel 2017, quando ho deciso di raccontare le terre da cui provengo e a cui sono sempre rimasto legato. Terre che sono diventate un estremo avamposto, un hotspot della crisi climatica dove sta accadendo di tutto, si è visto con le recenti alluvioni, che hanno colpito la parte meridionale del Delta, la pianura ravennate.
C’è un’immagine che uso sempre, quella della parentesi. Io sono nato e cresciuto dentro una parentesi. Poco prima che io nascessi, ampie porzioni di pianura ferrarese erano ancora sott’acqua. Le ultime bonifiche, infatti, risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta. Io sono cresciuto in uno scenario di terra emersa che ho dato per scontato. In realtà era così da pochissimo tempo, dall’equivalente geologico di uno schiocco di dita, e tra un altro schiocco di dita – snap! – sarà di nuovo sott’acqua. Questa parentesi mi è sembrata, anche e soprattutto sotto l’aspetto letterario, poetico, un’immagine molto potente.
A proposito della retorica delle bonifiche, sappiamo che sono la grande gloria del fascismo che «ha fatto anche cose buone». Nel tuo libro a un certo punto contrapponi la fluidità richiamata dagli uomini pesce all’asciutta rigidità della psicologia tipicamente fascista. A un certo punto un personaggio del tuo romanzo cita il sociologo Klaus Theweleit e la sua esplorazione della psiche fascista in cui spiega appunto che il fascismo predilige i corpi asciutti, solidi, con confini certi, non sopporta il fluido. L’ho trovato un aspetto molto affascinante, ce lo spieghi meglio?
Il linguista cognitivista George Lakoff la definirebbe una metafora primaria, che però non vale per tutte e tutti. Un esempio di metafora primaria che chiunque di noi ha scolpita in testa è: alto = meglio, basso = peggio. Dipende da esperienze che facciamo molto presto nella vita, da bimbi. Quando piangiamo, la mamma ci prende in braccio, cioè ci innalza. Quando impariamo a camminare, ergo a innalzarci, ai primi passi che facciamo i genitori ci applaudono, ci gratificano. Quando cadiamo, invece ci facciamo male. Nelle nostre sinapsi si fissa una metafora primaria che sta alla base del nostro pensiero e del nostro linguaggio, per cui alto è bene e basso è male: «Come sei caduto in basso»… Anche quella isolata da Theweleit, cioè liquido = informe = male, solido = contorni e confini netti = bene, è una metafora primaria, ma per Theweleit informa soprattutto il pensiero dei fascisti, e va chiarito che lui vede nel fascismo la politicizzazione dello sviluppo psicologico incompleto del maschio e del suo rapporto problematico con l’eros e con la donna.
Ovviamente, parecchi maschi hanno problemi di quel genere, non per questo appartengono a gruppi fascisti. Ma il fascismo trasforma gli elementi di questo quadro psicologico in autentici pilastri del proprio immaginario, della propria ideologia. Theweleit ha scritto un’opera monumentale in due volumi, Männerphantasien, uscita in tedesco nel 1977. In Italia è stato tradotto solo il primo volume, edito dal Saggiatore col titolo Fantasie virili, da tempo fuori catalogo.
Theweleit ha lavorato per anni sugli scritti autografi dei fascisti tedeschi, quindi non solo dei nazisti, ma di appartenenti a varie correnti del fascismo tedesco emerse durante la Repubblica di Weimar. Ha studiato i diari di guerra di combattenti nella Prima guerra mondiale, spesso erano i corrispettivi dei nostri Arditi, uomini che poi fecero parte dei Freikorps, le milizie che uccisero Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, dopodiché aderirono al fascismo tedesco. Altri documenti sono gli epistolari, le lettere che costoro scrivevano alle famiglie, poi i memoriali e le autobiografie che scrissero negli anni di Weimar o del nazismo. Theweleit ha visto che c’erano ricorrenze, figure che tornavano sempre uguali, così ha cominciato a isolarle e classificarle, e il risultato è questo: per te, fascista, il nemico è sempre liquido, fluido, perché la fluidità parla della tua psiche incompiuta. Tu hai bisogno di una corazza, Theweleit lo chiama «carapace». Servono una pelle dura e un fisico scolpito, temprato, per proteggerti, e per evitare che i liquidi che contieni, e che dicono la verità su di te, possano colare fuori.
Questa ossessione per l’asciutto, per i confini netti tra i corpi, è fondamentale nella mentalità fascista e quindi il nemico è per forza tutto ciò che, spesso per il solo fatto di esistere, minaccia quei confini, ergo tutto ciò che è fluido, senza contorni fissi, in continuo cambiamento. Non a caso tutte le metafore usate dai fascisti per definire il nemico rimandano sempre all’informe e al liquido, al fangoso, al colloidale, e in definitiva alla putrefazione, cioè al momento in cui il corpo perderà i propri contorni. Ora, tutto questo si traduce in un determinato rapporto con la donna.
Il peggior nemico del combattente fascista non è il partigiano, ma la partigiana. Essere ucciso da una donna in combattimento è lo scenario peggiore, l’incubo supremo. Le partigiane che i nazisti incontrano avanzando verso est, in Ucraina e in Russia, li fanno andare fuori di testa. Trovarsi contro una donna in armi è uno sfregio, un affronto, uno schifo. Ogni volta che ciò accade nascono leggende, si forma tutto un repertorio di immagini relative a queste donne. Ne emerge la figura che Theweleit chiama la «puttana rossa».
«Puttana» anche perché associata a una libido incontrollata, a un’intollerabile libertà dei fluidi. Perché la donna, nell’immaginario del fascista, è associata ai suoi fluidi, che la rendono misteriosa: la lubrificazione della vagina, il sangue mestruale, il liquido amniotico… Aggiungiamoci la trasgressione delle aspettative, del ruolo socialmente assegnato: una donna in armi, una partigiana. Qui diversi confini saltano, diventano sfuggenti, e il fascista sbarella.
Il territorio anfibio del Delta, dove i confini tra terra e acqua sono labili, io lo racconto come l’incubo del fascista. Io non credo si sia affermata per caso la centralità delle bonifiche – in quel caso, soprattutto dell’Agro Pontino – nell’immaginario e nella propaganda del fascismo. C’erano zone sfuggenti, reami liquidi, mondi palustri che la virile azione del regime ha prosciugato, così oggi sono terre asciutte, con delimitazioni nette, dove acqua e terra hanno spazi e ruoli ben definiti.
Nelle valli deltizie l’occupante nazista è a disagio, si muove male. E invece come si muove il partigiano? Dalle mie parti la resistenza è stata peculiare, molto diversa da quella combattuta in montagna o in città. Nel Delta la guerriglia fu anfibia, i partigiani operavano in vaste distese d’acqua interrotte da atolli, argini, dossi. Il mezzo di locomozione era la barca, barche leggerissime dal fondo quasi piatto, tipiche di quelle zone dove l’acqua è pochissimo profonda. Le usavano, ad esempio, i pescatori di frodo, i cosiddetti «fiocinini», abituati a sfuggire alle guardie vallive, perciò depositari di saperi pratici che tornarono utili nella guerra partigiana.
Questa guerriglia è stata raccontata molto meno di altre. La racconta un grande romanzo del Novecento, L’Agnese va a morire di Renata Viganò, dove però il territorio rimane indistinto, non ci sono toponimi, in fondo non c’è geografia. Questa resistenza poco raccontata io ho voluto riprenderla in mano perché il suo essere anfibia è anche il suo essere ambigua. Non ambigua politicamente, ovvio, ma ambivalente nel suo apparire, sempre sul limite tra visibile e invisibile, sulla soglia della spettralità, perturbante.
Nel libro è sorprendente la scelta dell’io narrante femminile, cosa difficile per uno scrittore maschio, ma anche la centralità che hanno la corporeità e l’erotismo, cosa rara nella produzione Wu Ming. La famiglia Nevi protagonista del libro è completamente matrilineare, attraversata con forza dalle questioni di genere e anche dalla tematica queer. Come mai hai scelto di usare questo punto di vista e rendere centrale la tematica del corpo?
La scelta di ambientare il piano temporale «portante» del romanzo nell’estate del 2022 è legata alla questione ambientale e climatica. In Nord Italia, in realtà in tutto il mondo, quello è stato il momento in cui ci si è accorti che il cambiamento climatico stava subendo accelerazioni, e che i processi erano meno lineari di quanto apparissero nei modelli usati fin lì. Nel 2023 ci sono state le grandi alluvioni, ma prima c’è stata una siccità lunghissima, attanagliante, mesi e mesi in cui le campagne erano arse, gli alberi morivano a migliaia, i fiumi erano in secca, l’acqua era razionata in val Padana, nella pianura veneta, nella pianura friulana…
L’altro motivo è che volevo mostrare come eravamo messi come corpo collettivo nel momento in cui l’Italia aveva già mezzo piede fuori dalla pandemia. Eravamo ancora in stato d’emergenza, ma la percezione diffusa era che il peggio fosse passato, e, quasi senza darlo a vedere, da mesi si stavano ritirando i provvedimenti, uno dopo l’altro. Non era più obbligatorio il green pass ecc. Però eravamo ancora tutti «così, percossi, attoniti», per dirla col maestro. Feriti, lacerati, traumatizzati. Le nostre relazioni erano scombussolate, quando non gambe all’aria, perché nel biennio pandemico si sono troncate amicizie e collaborazioni, famiglie si sono divise, per non dire di tutte le coppie scoppiate… Soprattutto, la maggior parte delle persone aveva ancora un rapporto titubante col proprio corpo, dopo due anni di quella dimensione che definisco ipocorporeità, scarsa presenza dei corpi, perché molti modi di usare il corpo erano proibiti, soprattutto durante i confinamenti. Dopo due anni così, il rapporto col corpo era incerto, c’erano acciacchi dovuti all’inattività fisica, e c’era assenza di eros, per ovvie ragioni. Volevo fotografare quel momento, e per farlo mi serviva collocare l’azione in un punto preciso.
I malesseri post-pandemici li ho riversati nel corpo della protagonista, Antonia. All’inizio del romanzo è messa male, tanto che va a vedere il Po in secca e pensa: sono così anch’io. È in una condizione di corporeità sofferta, negata. Su tutto questo calano l’angoscia climatica, poi il dolore per la morte di suo zio Ilario, infine lo sbigottimento per via di quello che della vita di Ilario comincia ad affiorare, i segreti che lui aveva mantenuto per tutta la vita. Insomma, ho messo Antonia nella peggior condizione di partenza possibile, perché Gli uomini pesce doveva essere anche la storia del suo riscatto, del suo ritrovarsi, del riconquistare il proprio corpo parte dopo parte, in maniere imprevedibili, in circostanze assurde.
Ci sono molti rimandi diretti tra questo libro e Ufo 78 (con tanto di personaggi che ritornano) e con il ragionamento che hai fatto ne La Q di Qomplotto, ossia la critica al ratiosuprematismo, all’approccio che si confronta con alcune convinzioni surreali spiegandone la fallacia logica e scientifica, senza guardare i nuclei di verità da cui provengono e i bisogni a cui rispondono quelle stesse fantasie. Ne Gli uomini pesce il richiamo a soggetti alieni o fantastici permette di riuscire a resistere a oltranza e a immaginare nuove forme di lotta. Usi due parole che mi hanno colpito e che – dimmi se sbaglio – mi sembrano alludere alle pratiche necessarie per tenere insieme impegno e incanto. Una è distrigato, usata per intendere il movimento con cui uno dei personaggi sfugge alla «cattura» da parte delle fantasie di complotto. L’altra è convergenza, che, credo non a caso, è anche la parola d’ordine proposta dalla lotta del Collettivo di fabbrica Gkn.
In ferrarese, quando si vuol dire a qualcuno di affrettarsi, di sbrigarsi, si dice «Dstrìgat!», cioè districati, levati dall’intrico. Vuol dire sbrigarsi, ma vuol dire anche farla finita con qualcosa, liberarsi di una situazione. «Am son dstrigà» vuol dire mi sono sbrigato, ma anche: ne sono uscito. Per estensione, si usa anche in forma transitiva, per intendere la completa liquidazione, la totale eliminazione di qualcosa, ad esempio, scherzosamente, di una pietanza. «Dov’è il risotto che era rimasto?» «A l’o dstrigà mi!», cioè l’ho finito io, non ce n’è più.
Nel romanzo uso una forma intermedia, distrigare, che coincide con la forma che ha il verbo «di là da Po», in Veneto, ma a cui io arrivo italianizzando il ferrarese. La parola è pronunciata da un personaggio che proviene da Ufo 78, era uno dei protagonisti della veglia ufofila sul monte Quarzerone.
Lui ricorre a questo passato prossimo, «mi sono distrigato», per dire che si è liberato del cospirazionismo, cioè dell’abitudine a includere ogni accadimento in una fantasia di complotto. Prima ancora fa un ragionamento: negli anni Settanta io mi ero avvicinato a quel mondo, agli Ufo, al weird, al paranormale, alla fantarcheologia, per il bisogno di incanto. All’epoca questo interesse per i misteri non era ancora reazionario come è diventato in seguito. Era a suo modo parte di quella temperie, espressione di un desiderio di allargare gli orizzonti, dunque alludeva a una liberazione. Questa passione per i misteri, dice, noi la coltivavamo per lo stesso motivo per cui leggevamo la fantascienza, perché volevamo ampliare i territori del pensabile, dell’immaginabile.
Nei decenni successivi, invece, e dagli anni Novanta con una drastica accelerazione propulsa da Internet, quelle sottoculture si sono spostate sempre più a destra, si sono appesantite di connotazioni razziali e razziste, si sono ibridate con altre sottoculture molto più tetre e mefitiche. Oggi, afferma il personaggio, i discorsi che facevamo allora sono cambiati completamente di segno, e aggiunge: io la stavo seguendo, quella deriva, ma un amico – e qui nomina un altro personaggio di Ufo 78 – mi ha fatto aprire gli occhi, un giorno mi ha chiamato e mi ha detto papale papale: «Ma che cazzo stai facendo? Chi cazzo stai frequentando?», ed è grazie a lui che, conclude, «mi sono distrigato». Cioè si è emancipato dal pervertimento tossico della passione per i misteri, per il fantastico, per l’altrove, per un impulso che è umano e, di suo, non ha nulla che non vada.
È proprio il movimento che io mi auspico, nel senso del non buttar via il bambino con l’acqua sporca, cioè le fantasie di complotto insieme ai nuclei di verità intorno a cui sempre e comunque si sviluppano. Soprattutto, va detto che noi abbiamo bisogno di essere contro il potere. Queste fantasie di complotto pervertono – ed è la cosa peggiore che fanno – questo bisogno, lo portano a esiti grotteschi, ciò non toglie che a modo loro rispondano all’esigenza di contrastare l’andazzo di questa società, e di contrastarlo anche con l’incanto, con il visionario, con l’onirico, con la fantasia, con l’immaginario.
Quanto a «convergenza», è una parola che nel romanzo viene proposta per spiegare uno strano fenomeno avvenuto al termine di un’escursione nelle valli di Argenta. Antonia si rende conto che sta incrociando le traiettorie di persone che si conoscono tra loro. Ne rimane conturbata, si stupisce di tutte queste «coincidenze», come le chiama di primo acchito, ma il suo interlocutore dice che non sono coincidenze, ma convergenze, e le dice: se in uno stesso territorio ci sono persone con interessi e sogni simili o quanto meno adiacenti, giocoforza, prima o poi, i loro percorsi si incroceranno, spesso lo faranno in maniera effimera, ma a volte stabiliranno congiunzioni durature. Ci saranno sempre convergenze, e anche questo mi sembra un buon auspicio. Oltre al distrigarsi, la convergenza.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia. Wu Ming 1, membro del collettivo di scrittori il cui ultimo libro è Ufo 78 (Einaudi, 2022). Il suo ultimo libro da solista è Gli uomini pesce (Einaudi, 2024).
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