Corbyn: «Fermare l’assedio a Gaza è possibile»
L'ex leader laburista racconta la sua esperienza nei territori occupati, riflette sulla nuova composizione dei movimenti solidali con la Palestina, rievoca analogie e differenze con le lotte contro l'apartheid
Venerdì scorso, la dichiarazione del cessate il fuoco ha posto fine al bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza. Ma la pausa nella violenza non significa la fine della sofferenza dei palestinesi. Oltre ad aver ucciso 248 persone, i jet israeliani hanno distrutto le infrastrutture essenziali a Gaza, colpendo gli ospedali, l’elettricità e l’approvvigionamento idrico di questa zona densamente popolata, e Gaza continua a essere bloccata su tutti i lati. Durante lo scorso fine settimana, le forze israeliane hanno mantenuto l’assedio del distretto di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, e i coloni continuano ad attaccare la popolazione araba.
Le ultime settimane di attacchi israeliani hanno generato una massiccia resistenza da parte dei palestinesi, incluso uno sciopero generale, nonché manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo. L’ex leader del Partito laburista Jeremy Corbyn si è rivolto a entrambe le grandi manifestazioni a Londra, ognuna delle quali ha coinvolto oltre centomila persone. Lunedì ha parlato con David Broder di Jacobin dello sfollamento in corso dei palestinesi, del movimento di solidarietà internazionale e della necessità di fermare la vendita di armi a Israele.
Sabato alla manifestazione di Londra, hai detto che dobbiamo cogliere l’occasione per assicurarci che il cessate il fuoco sia qualcosa di più di una breve interruzione del ciclo di violenza, prima di essere di nuovo in piazza a protestare. Come possiamo farlo?
Il cessate il fuoco è ovviamente un passo utile: è meglio che sparare, di persone che muoiono e della distruzione che ne consegue. Ma non è altro che una breve cessazione delle ostilità: non c’è accordo di pace. La questione fondamentale deve ancora essere affrontata. Penso che molte persone non abbiano idea di cosa significhi vivere sotto occupazione in Cisgiordania. Lì, sei sotto costante sorveglianza, con posti di blocco militari che interrompono di continuo la tua giornata, le tue condizioni economiche sono povere e rischiano di peggiorare, e il futuro dei tuoi figli è piuttosto cupo.
Fino a quando gli Stati uniti e gli altri paesi diranno a Israele: «Sosteniamo qualsiasi azione tu scelga di intraprendere», nessun governo israeliano sarà spinto a raggiungere un accordo a lungo termine, per questo ci incamminiamo verso un nuovo conflitto. La mia proposta – non solo mia – è che l’enorme moto di sostegno alla Palestina delle ultime due settimane, che non vedevamo dall’operazione Piombo fuso del 2008-2009, serva a fare pressioni per il riconoscimento dello stato della Palestina, fermando gli insediamenti, ponendo fine all’occupazione e interrompendo l’assedio di Gaza.
Ci deve essere giustizia per i rifugiati. Ci sono decine di migliaia di rifugiati che non conoscono altro che la vita nei campi in Giordania, Libano e oltre. Ora siamo alla quarta generazione di rifugiati: sono nei campi da quando sono nato e l’occupazione della Cisgiordania è andata avanti dall’anno in cui ho lasciato la scuola. Quindi qualcosa deve cambiare e non cambierà a meno che il resto del mondo non sia forte nei confronti di Israele.
Si sente molto parlare degli «attacchi chirurgici» di Israele, mirati contro i militanti a Gaza. Ma qualche giorno fa ho parlato con una giovane donna di Rafah che ha descritto le bombe che cadevano sulle aree residenziali e, anche dopo l’interruzione dei combattimenti, la situazione umanitaria è disastrosa a causa del blocco. Hai visitato Gaza: puoi dirci cosa hai visto quando e cosa hai saputo della situazione in questo momento?
Come leader del Partito laburista negli ultimi cinque anni non sono riuscito ad andare, ma sono stato a Gaza parecchie volte. Quello che sento è la vivacità dei giovani che vogliono qualcosa di diverso. Una percentuale molto alta di loro è laureata e ha fatto studi post-laurea, e molti sono frustrati perché non c’è molto da fare, i tassi di disoccupazione sono molto alti ed è un posto densamente abitato. L’elettricità si spegne di continuo, c’è un cattivo odore perché le fognature non possono funzionare per mancanza di componenti o di energia, manca l’acqua dolce perché la falda acquifera è inquinata e così via.
Nelle scuole, mi dicono gli insegnanti, si tratta di gestire i livelli di tensione. Ho visitato una scuola elementare nella parte settentrionale della Striscia di Gaza e ho passato un po’ di tempo a parlare con gli studenti e con gli insegnanti. Se ti affacci vedi il recinto tra Gaza e Israele e la terra di nessuno tra due parti del recinto. In quello spazio ci sono mitragliatrici montate che sparano automaticamente se qualcuno tocca o supera la recinzione. Questo è il modo in cui crescono i bambini.
Quando la corrente si spegne, puoi guardare in alto verso Ashkelon e altri luoghi e vedere tutte le luci accese. È come un promemoria costante che ti ricorda che sei sotto assedio. Negli ospedali c’è la stessa tensione, con la carenza cronica di medicine e di quelle che negli ospedali di tutto il mondo sarebbero considerate forniture di base. Se qualcuno deve essere sottoposto a una seria operazione di emergenza o ha un cancro che non può essere curato negli ospedali di Gaza, deve affrontare la trafila di andare in Israele, spesso con lunghi ritardi. L’occupazione non è costituita dalle truppe che pattugliano le strade, ma da voli e droni che volteggiano a ogni ora.
Sono stato a Gaza anche come osservatore elettorale a Rafah. Quando stavamo visitando un seggio elettorale, si è aperto il fuoco e siamo dovuti entrare tutti. Dopo mezz’ora circa, ci hanno dato permesso di uscire di nuovo. Abbiamo chiesto cosa fosse successo, e sembrava che i soldati israeliani vicino al valico di Rafah avessero aperto il fuoco, senza necessariamente mirare a nessuno, solo per mostrare che erano lì, sapendo che ciò avrebbe disturbato le votazioni. Questo è il tipo di atmosfera in cui le persone vivono continuamente. La dott.ssa Mona El-Farra della Middle East Children’s Alliance calcola che il 70 per cento della popolazione presenta sintomi di stress certificabili dal punto di vista medico. Vivere lì è semplicemente orribile.
Il voto che hai appena citato si è tenuto nel lontano 2006; dopo molti anni di ritardo, questo sabato doveva essere il giorno delle elezioni, fino a quando in aprile non è stato nuovamente cancellato. Ma abbiamo assistito a impressionanti dimostrazioni di unità palestinese in Cisgiordania, Gaza e Israele durante le ultime due settimane: in particolare lo sciopero generale, e i palestinesi hanno avuto rilievo sui social media. Cosa bisogna fare per ottenere una rappresentanza palestinese più forte?
Ne parlavo con il mio amico Mustafa Barghouti la scorsa settimana. Ovviamente, le elezioni dovrebbero esserci; non c’è dubbio. È difficile dire come possa accadere, con l’attuale situazione militare. Nonostante il cessate il fuoco, ci sono ancora violenze nei confronti delle persone ad Al-Aqsa, ci sono ancora persone che vengono cacciate dalle loro case a Sheikh Jarrah e gli insediamenti avanzano. Ma tenere le elezioni sarebbe un modo per riunire le persone e darebbe un’assemblea molto diversificata.
Credo che nessuno debba sparare a nessuno. Barghouti mi ha fatto notare che, mentre a Gaza c’è stata resistenza militare con razzi contro Israele – la maggior parte dei quali non sono arrivati a destinazione – in Cisgiordania, c’è stata molta resistenza non violenta e manifestazioni. Il fatto è che vengono trattati esattamente allo stesso modo, con la sola differenza che in Cisgiordania ci sono carri armati israeliani che arrivano e distruggono le loro case, non aerei a reazione che arrivano dall’alto sempre distruggendo le case.
Hai parlato di pressione internazionale. Lunedì scorso è arrivata la notizia di una vendita di armi da 735 milioni di dollari a Israele. L’amministrazione Biden non ha cancellato nessuna delle scelte di Donald Trump, come l’apertura dell’ambasciata degli Stati uniti a Gerusalemme. Alcuni democratici della Camera, tuttavia, hanno condannato l’accordo sulle armi, in particolare Rashida Tlaib. Che speranze hai in un cambiamento nella politica, o almeno nel dibattito pubblico, sulle sanzioni militari, negli Stati uniti? E che dire della Gran Bretagna?
Trovo la risposta del presidente Biden davvero molto deludente. Ha un’enorme opportunità come presidente neoeletto, e l’atmosfera e il linguaggio che Kamala Harris ha usato dopo le elezioni e l’inaugurazione hanno suggerito un approccio diverso e la possibilità del riconoscimento dello Stato palestinese. Joe Biden ora ha detto che rifornirà Israele di tutte le armi e che continuerà a sostenerlo militarmente.
Penso che ciò che è diverso sia il livello di opposizione a quella politica e il sostegno al popolo palestinese in tutti gli Stati uniti. Sono rimasto colpito dal livello di mobilitazione in tutto il Midwest, in posti come Detroit, e dal numero di politici democratici che parlano con forza per la Palestina, come Bernie Sanders. Con i precedenti presidenti, tale sostegno era del tutto assente nel Partito democratico e in ampie fasce della società statunitense. Spero solo che i Democratici alla Camera, che hanno espresso la propria voce in maniera così limpida, continuino a esercitare pressioni sull’amministrazione Biden, affinché interrompa la vendita di armi e riconosca il diritto alla vita del popolo palestinese: di questo si tratta.
Ho sollevato la questione della vendita di armi al parlamento britannico, come ho sempre fatto nell’ultimo decennio. Ho chiesto al ministro l’assicurazione che le armi britanniche non sono state usate per bombardare Gaza. Non poteva darmi questa garanzia, perché non è in grado e non vuole dirmi per cosa vengono usate, quindi il sospetto è che le armi britanniche siano parte del bombardamento di Gaza. A sua volta, anche la Gran Bretagna importa armi da Israele e ha stretti rapporti anche in termini di addestramento militare. Nel 2019, sono stato attaccato per le mie preoccupazioni su questa relazione, e il Daily Telegraph – un giornale di destra – ha persino affermato che voler fermare questi rapporti era il motivo per cui non avrei potuto diventare primo ministro.
Benjamin Netanyahu è stato efficace nel trasferire la questione anche all’Iran: con gli «accordi di Abramo», alcuni degli stati del Golfo non sono più disposti a dare priorità al sostegno al popolo palestinese. Ma l’opinione pubblica in tutta la regione, in particolare i giovani, che sono la grande maggioranza, vede le cose in modo molto diverso. Rilevo un’unità molto maggiore tra gli stessi palestinesi e la disponibilità a lavorare insieme in futuro. Il piano di annessione di Trump non è completamente scomparso, ma è stato abbandonato per un po’ a causa della sua assurdità e illegalità. Ci sarebbero voluti più insediamenti in Cisgiordania come territorio annesso, distruggendo qualsiasi principio di uno stato palestinese.
A Londra, alle manifestazioni hanno partecipato più di centomila persone per due sabati consecutivi. Mentre in Francia il governo ha vietato le proteste filo-palestinesi e in Germania sono state fortemente criticate, sembra che in Gran Bretagna e negli Stati uniti la causa palestinese stia guadagnando maggiore visibilità. Allo stesso tempo, la denuncia del colonialismo degli insediamenti – forse anche legato a Black Lives Matter – sta prendendo piede. Vedi un cambiamento nella legittimità della causa palestinese?
I numeri a Londra non erano così alti da tanto tempo, probabilmente dalla guerra in Iraq. C’è stato un tempo in cui le manifestazioni per la Palestina avvenivano di concerto tra comunità politicamente impegnate e palestinesi, ma non venivano necessariamente raggiunte altre comunità. Black Lives Matter ha cambiato molte percezioni. La nostra manifestazione di sabato è stata enorme. Non ho potuto fare a meno di notare la grande varietà nella composizione della folla.
La persona che ha parlato prima di me era Barnaby Raine, un giovane attivista ebreo, e ha fatto una denuncia molto forte e corretta di tutte le forme di antisemitismo, sottolineando quanto sia divisivo. È stato acclamato dall’enorme folla e ho pienamente approvato ciò che ha detto. Il sostegno alla Palestina trascende le appartenenze di comunità e molti ebrei hanno partecipato sia a questo corteo che a quello della settimana prima all’ambasciata israeliana.
A Londra, c’è stata solo una piccola manifestazione a sostegno di Israele, alla quale ha partecipato, tra gli altri, l’attivista di estrema destra Tommy Robinson. E la protesta dei giovani ebrei che difendono i diritti dei palestinesi è stata altrettanto grande.
Sì, be’, sono stato felice di incontrare molte persone meravigliose alla manifestazione per la Palestina, che lottano per la giustizia in tutto il mondo. Quando ho introdotto il mio punto di vista sui rifugiati palestinesi parlando dei rifugiati in tutto il mondo e del modo spaventoso in cui l’attuale segretaria degli interni, Priti Patel, sta trattando i rifugiati – minacciando di inviare la Marina nella Manica per impedirgli di venire – penso che le persone abbiano capito benissimo che bisogna essere solidali con tutti i popoli. Nessuno si è mai lamentato del fatto che non stessi parlando solo della Palestina. L’attuale stato dei Rohingya, con 1 milione di persone in Bangladesh, ha orribili somiglianze con quello che è successo al popolo palestinese nel 1948.
Sia il rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem di gennaio che quello di Human Rights Watch del mese scorso parlavano di estrema segregazione ed esclusione equivalenti all’apartheid, un termine che ha iniziato a entrare molto di più nel dibattito pubblico. I lettori più giovani vorranno sapere, da attivisti come te che si sono opposti anche all’apartheid in Sud Africa, quanto si assomigliano i difensori di questi sistemi?
Sono stato coinvolto in attività contro l’apartheid dalla fine degli anni Sessanta in poi. Molte persone di centro e di sinistra hanno questa visione confusa che l’anti-apartheid sia stato un movimento brillantemente riuscito che ha unito tutti. Ma non è stato così. Molti si sono uniti solo alla fine. Alla fine degli anni Sessanta e Settanta, protestare contro l’apartheid nelle strade, nei centri commerciali, negli incontri in tutto il paese, non era un’esperienza facile. Contestando le squadre sportive sudafricane che venivano in Gran Bretagna, avremmo potuto subire insulti incredibili.
Quando l’African national congress (Anc) ha preso la decisione di concentrarsi su Nelson Mandela come figura di riferimento del movimento, è stato efficace e ha dato alle persone qualcuno con cui relazionarsi. Ma Mandela venne accusato da Margaret Thatcher in parlamento di essere un terrorista, e io ero presente quando l’ha fatto! Ancora una volta, i Tory alla fine accettarono il cambiamento avvenuto in Sud Africa e, come i governi di destra in tutto il mondo, fecero del loro meglio per imbrigliare l’Anc e assicurarsi che l’economia di mercato rimanesse operativa.
L’idea che l’anti-apartheid in Gran Bretagna fosse un enorme movimento popolare fin dall’inizio non è vera. Richiedeva persone incredibilmente dedicate e impegnate, capaci di ottenere un sostegno sempre maggiore nelle comunità e nei sindacati. Ero un fiduciario del British Defense and Aid Fund per le vittime dell’apartheid, che ha aiutato a raccogliere fondi per gli studenti neri sudafricani per frequentare le università in Gran Bretagna e altrove. Ci sono state molte iniziative del genere, e quello che vedo ora sulla Palestina è il modo in cui i sindacati sono giunti alla posizione di riconoscere la Palestina e lavorare con i sindacati palestinesi per costruire relazioni.
Potrebbe esserci un senso di compiacenza, vedendo il cessate il fuoco come un passo avanti. Il cessate il fuoco è avvenuto solo grazie alle manifestazioni, grazie alla pressione dei palestinesi all’interno di Israele e anche del numero – non enorme, ma significativo – di israeliani preoccupati per la direzione in cui sta andando il paese. Ma non è ancora abbastanza. Dobbiamo mobilitarci ulteriormente e più velocemente. Ho suggerito di organizzare una giornata internazionale per la Palestina: lo abbiamo fatto contro la guerra in Iraq, in oltre 600 città. Oggi sono sicuro che possiamo fare ancora di più.
*Jeremy Corbyn è deputato laburista eletto nel collegio di Islington North. David Broder è l’editor europeo di Jacobin e uno storico del comunismo francese e italiano. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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