
Cosa è andato storto con Corbyn
Andrew Murray, consigliere dell’ex leader laburista, ripercorre la parabola che ha portato la sinistra inglese ai migliori risultati della sua storia per poi entrare in crisi dopo la Brexit
Cinque anni dopo le dimissioni di Jeremy Corbyn da leader del Partito laburista, la sinistra britannica si trova in una situazione difficile. La ristrutturazione del Labour da parte di Keir Starmer, con l’espulsione o la sospensione di parlamentari e di un gran numero di attivisti, ha contribuito a cancellare l’eredità dell’era Corbyn e le politiche del suo nuovo governo, dal welfare alla politica estera, hanno enfatizzato la continuità piuttosto che una netta rottura con le precedenti amministrazioni dei tories.
Le rivolte anti-migranti e anti-musulmane dell’estate scorsa, l’ascesa del partito di estrema destra Reform Uk e il crollo dei sondaggi del Labour testimoniano l’ondata reazionaria sta attraversando la politica britannica. C’è sicuramente una certa resistenza da parte della sinistra: una manciata di indipendenti di sinistra, tra cui Corbyn, ora espulso dal Labour, ha conquistato alcuni seggi alle elezioni generali dello scorso luglio, anche a causa dell’impatto del movimento di solidarietà con la Palestina sulla politica elettorale britannica. Ma l’ondata populista di sinistra della fine degli anni 2010 si è oggi in gran parte dissipata.
Una delle figure di spicco del team di Corbyn è stato Andrew Murray, scelto come consigliere dal leader laburista all’inizio del 2018. Ex membro apicale del Partito comunista britannico, Murray, presidente di lunga data della Stop the War Coalition e funzionario del sindacato Unite, è anche autore di uno dei saggi post-mortem più incisivi sul fallimento del progetto Corbyn: il suo libro del 2022 Is Socialism Possible in Britain?
In un’intervista con Stathis Kouvelakis, Murray discute le lezioni dell’era Corbyn, lo stato attuale della sinistra britannica e le possibilità di ricostruzione.
La prima domanda riguarda la specificità del corbynismo e cosa lo caratterizza come un esperimento di più ampio interesse per la sinistra a livello internazionale. Nel tuo ultimo libro, sottolinei tre aspetti del corbynismo che lo rendono un marchio piuttosto atipico di socialdemocrazia. La prima è che Corbyn non è apparso come un parlamentare puro, ma piuttosto come l’incarnazione della politica della protesta di massa. La seconda è che la sua ascesa alla leadership ha permesso un’offerta programmatica che sosteneva una netta rottura con le politiche neoliberiste. E la terza è l’antimperialismo. Questa combinazione suona come un miracolo per chiunque abbia anche solo vagamente familiarità con la recente traiettoria della sinistra in Gran Bretagna. Come è stato possibile quel miracolo dopo decenni di arretramenti della sinistra, di spostamenti del partito laburista verso destra e della duratura eredità del blairismo?
Il fenomeno è stato totalmente inaspettato. Nel contesto immediato, è stato guidato da un’esasperazione all’interno dei membri del partito laburista per l’eredità del New Labour, da cui Ed Miliband, l’immediato predecessore di Corbyn, si era allontanato, ma non si era davvero staccato in modo deciso, in particolare sull’approccio al neoliberismo e sugli imperativi di disciplina finanziaria. I tre cosiddetti candidati mainstream che hanno combattuto nelle elezioni per la leadership del 2015 erano tutti molto tiepidi. Non hanno davvero rappresentato una rottura con l’eredità degli anni di [Tony] Blair e [Gordon] Brown, incluso Andy Burnham, che è stato probabilmente il migliore – penso che ora si penta di non essere stato più incisivo all’epoca. L’altro aspetto è che le qualità di Corbyn includono un’autenticità naturale, e c’è un «mercato» per questo tra la gente comune in un’epoca in cui tutti i politici sembrano essere fabbricati, un prodotto di spin doctor, focus group e istruzione da Oxbridge. L’autenticità di Corbyn in un certo senso trascende particolari posizioni politiche. Nigel Farage non è paragonabile a Corbyn politicamente, ma anch’egli sembra autentico, e ha il vento in poppa per queste ragioni.
Sia nel mio ultimo libro che in quello precedente, ho cercato di analizzare come ciò sia avvenuto. L’ascesa di Corbyn era, in effetti, seguita a decenni di sconfitte e marginalizzazione della sinistra nella politica britannica. In quegli anni, abbiamo assistito a movimenti di massa piuttosto che ad azioni parlamentari. Il più grande, rappresentato dalla mobilitazione contro la guerra in Iraq, in cui ero coinvolto, e i movimenti contro l’austerità dopo il 2010. Corbyn si è distinto molto di più in quei movimenti che prima come parlamentare, dato che era sempre stato ai margini del Plp [Parliamentary Labour Party]. Questo elemento è spesso trascurato ed è stato uno dei motivi per cui il Plp e l’establishment in generale si sono sentiti così minacciati da lui. Per loro, il Parlamento e le elezioni definiscono i parametri di una politica accettabile. L’idea di una pressione di massa da parte delle persone in piazza è vista come quasi incostituzionale.
Corbyn ha spesso detto che quando era leader voleva spostare il suo ufficio fuori dal Parlamento, in un altro posto a Londra, vicino alle stazioni ferroviarie di Euston o King’s Cross, così da essere in contatto con il Nord e la gente. Non l’ha mai fatto. Ma era visto come una minaccia ed è questo che lo ha spinto a una sorprendente vittoria nella competizione per la leadership, per la quale né lui né nessun altro era particolarmente preparato.
Per fare un paragone con i partiti di sinistra radicale nell’Europa continentale, dei tre elementi del corbynismo che abbiamo appena menzionato (proteste di massa, agenda antiliberista e antimperialismo), il più notevole è il terzo. I primi due si possono trovare in molte altre forze di sinistra, orientate verso i movimenti sociali e che sfidano le politiche liberiste, ma l’antimperialismo è stato ampiamente abbandonato dalla sinistra occidentale negli ultimi decenni, con la parziale eccezione dell’Europa meridionale.Come spieghi questa tendenza antimperialista non solo di Corbyn ma anche di un intero settore della sinistra britannica? Ne abbiamo avuto conferma di recente con le dimensioni del movimento a sostegno della Palestina, ma era già stato annunciato dalle dimensioni delle proteste contro la guerra in Iraq, a differenza della Francia, per esempio.
Sì, è in parte vero. L’imperialismo è più radicato nella cultura politica britannica che in quasi ogni altro posto in Europa, la Francia sarebbe la più vicina. Se si considerano solo gli ultimi venticinque anni, la Gran Bretagna, di nuovo con la Francia al secondo posto, è stata più aggressiva di qualsiasi altra potenza al mondo, seconda solo agli Stati uniti. Il motivo per cui abbiamo un movimento anti-guerra così duraturo in Gran Bretagna è perché ci sono sempre guerre. Abbiamo avuto la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, quasi la Siria, non proprio la stessa cosa ma anche nello Yemen, e ora il sostegno al genocidio in Palestina. Quindi, c’è sempre benzina sul fuoco. Ciò che rende questo orientamento antimperialista diverso da qualsiasi cosa abbiamo visto altrove è che altri movimenti di sinistra in Europa, come Syriza, Podemos, Die Linke o France Insoumise e altri, sono emersi come nuovi movimenti al di fuori del mainstream o in paesi che per lungo tempo hanno avuto una forte tradizione comunista. Mentre con Corbyn si è avuta l’acquisizione di un partito socialdemocratico di governo, che tradizionalmente si è orientato a destra e sempre pro-imperialista. C’è più di un parallelo con Bernie Sanders negli Stati uniti, anche se il Partito democratico Usa non è proprio come il Labour. Tuttavia, la resistenza a Sanders tra i Democratici ha il suo parallelo nella resistenza a Corbyn all’interno del Partito laburista.
Veniamo ora alle ragioni della sconfitta del corbynismo. Nel tuo libro ne sottolinei tre: primo, il livello di ostilità interna, in altre parole il fatto che il nemico principale fosse all’interno del suo stesso partito; secondo, la campagna feroce contro di lui basata su accuse di antisemitismo; e terzo, la Brexit. C’era un modo per contrastare tutto ciò?
Penso che era molto difficile. Il problema strutturale è che il Partito laburista, qualunque sia la sua costituzione nozionale, è fondamentalmente un partito parlamentare. I suoi parlamentari sono il luogo decisivo dell’autorità nel senso che nella storia del partito laburista non era mai stato fatto alcuno sforzo per dirigere il partito contro i desideri della maggioranza dei parlamentari.
Almeno l’80% dei parlamentari ha respinto Corbyn, con diversi gradi di veemenza e per diverse ragioni. Ad alcuni non importava, ma pensavano solo che non fosse eleggibile, altri erano totalmente contrari a lui per principio, ma alla fine, si sono tutti opposti a lui. Erano e sono in una sorta di relazione simbiotica con i giornalisti. Il meccanismo funziona così: rivelano oggi qualche assurdità off the record a un giornalista inserito in una lobby, questa esce sui giornali domani, la Bbc la riprende, e diventa verità nel giro di ventiquattrore. Poi tutti gli altri parlamentari iniziano a commentare: «Oh no! È orribile». I politici mainstream e i giornalisti mainstream lavorano in armonia. Non è una cospirazione, ma un processo organico. I parlamentari hanno cercato di lanciare un colpo di stato contro di lui nove mesi dopo la sua elezione. Sono stati sconfitti, ma non hanno mai smesso di cospirare contro di lui. Hanno anche lavorato a stretto contatto con l’apparato, che era stato fondamentalmente plasmato sotto Tony Blair.
Veniamo all’antisemitismo. Questa campagna di diffamazione e menzogne che ha preso di mira Corbyn e le persone attorno a lui è ormai familiare anche alla sinistra francese. Abbiamo visto lo stesso clamore ripetersi contro Jean-Luc Mélenchon e la France Insoumise dopo il 7 ottobre, a causa del loro sostegno alla Palestina. È anche notevole, come sottolinei nel tuo libro, che questo processo sia iniziato persino prima che Corbyn fosse eletto leader del Partito laburista, quando Ed Miliband ha espresso alcune critiche molto moderate a Israele. Anche questo ha causato scalpore nell’ala filosionista del partito. Quindi, pensi che questa campagna anti-Corbyn basata sul presunto antisemitismo sarebbe comunque avvenuta a causa delle sue posizioni sulla Palestina e, più in generale, del suo antimperialismo?
Un’opinione che ha ormai preso piede a sinistra sostiene che la sconfitta di Corbyn derivi da questa vicenda. Asa Winstanley ha scritto un libro intitolato Weaponising Anti-semitism: How the Israel Lobby Brought Down Jeremy Corbyn. Secondo me, è stato un fattore secondario perché ha giocato a favore dell’idea che fosse un leader debole. Ma a quel punto, molte persone erano semplicemente confuse al riguardo. Ovviamente alcuni credevano che fosse antisemita, ma penso che probabilmente non avrebbero mai votato per i laburisti. Per l’ala destra della comunità ebraica, qualsiasi critica a Israele è antisemita, quindi non voterebbero mai per i laburisti, che non rappresenterebbero in ogni caso una garanzia per la protezione di Israele quanto quella rappresentata dai conservatori.
Tuttavia, anche se non è stato un fattore importante nella sconfitta di Corbyn, ha prosciugato molta energia del suo team e della sua campagna. Ha provocato una sorta di danno morale, in parte dovuto anche all’incapacità di affrontarlo. Si può sostenere che è stata tutta una diffamazione, che non c’è alcun antisemitismo nella sinistra, che si tratta di un’accusa inventata dai nostri nemici. Non è esattamente questa la mia opinione, come scrivo nel libro. C’era un problema, e dovevamo discutere di come affrontarlo senza compromettere i nostri principi su Palestina e Israele. Ma alla fine, nessuna di queste cose è accaduta. Jeremy si è paralizzato per questa campagna. L’ha trovata molto dolorosa e lo ha fatto arrabbiare molto. È una caratteristica della personalità di Jeremy non rispondere mai agli attacchi personali contro sé stesso. Ha un approccio molto passivo e non pensa mai di essere in prima linea. Paradossalmente, se la tragedia di Gaza fosse accaduta mentre Corbyn era ancora leader, l’intero dibattito sull’antisemitismo sarebbe stato riformulato. Gaza ha costretto le persone a concentrarsi su questo problema e a rifletterci. Non dico che il problema sarebbe scomparso, ma lo avrebbe acuito in un modo che avrebbe potuto essere produttivo.
Non pensi che anche in quel momento sarebbe stato possibile organizzare un contrattacco organizzando voci ebraiche di sinistra a sostegno di Corbyn e di una posizione di principio sulla Palestina e sui diritti del popolo palestinese, una posizione che sarebbe stata, se non apertamente antisionista, almeno critica nei confronti di Israele e a difesa dei diritti dei palestinesi e del diritto internazionale?
Molte cose avrebbero potuto essere fatte e non sono state fatte a causa di questa paralisi. C’era un gruppo, Jewish Voice for Labour, che sosteneva Corbyn. Sfortunatamente, il loro radicamento nella comunità ebraica era molto debole. Erano principalmente – anche se non tutti – trotskisti di lunga data, e non sono mai stati realmente coinvolti nella comunità ebraica. Non tutti, ma alcuni di loro, hanno deciso di essere ebrei solo quando sono intervenuti per sostenere Corbyn. Hanno tutto il diritto di farlo, ma non erano molto plausibili come voce ebraica alternativa.
Veniamo ora alla Brexit. Sono d’accordo con te che è stato il fattore cruciale della sconfitta elettorale del Labour nel 2019. In generale, la sinistra in Europa ha considerato la Brexit come una mossa puramente reazionaria, razzista e di destra, forse un po’ meno in Francia, a causa dell’atteggiamento piuttosto critico di Mélenchon nei confronti dell’Ue, o in Grecia, a causa dell’esperienza del decennio precedente. Il tuo approccio sottolinea che la sinistra britannica, e in particolare la componente che sostiene Corbyn, condivideva illusioni liberali sul fatto che l’Ue fosse una specie di entità anti-nazionalista e progressista, e persino una garanzia di diritti sociali fondamentali. Quindi, l’opposizione all’Ue è stata lasciata a persone come Nigel Farage e a parte dei Tories. Ciò ha portato a una frattura all’interno della base laburista, con le circoscrizioni della classe operaia nel Nord e quasi ovunque fuori Londra che hanno votato a maggioranza per la Brexit, indebolendo così in modo decisivo la posizione di Corbyn. Penso che sia importante qui sottolineare come Corbyn abbia gestito il risultato del referendum del 2016, come questo abbia influito sulle elezioni del 2017 e come sia stato ribaltato da questa incessante campagna per un secondo referendum con l’esito che ora tutti conosciamo.
È stato il fattore critico e rispecchia ciò che sta accadendo in quasi tutti i paesi capitalisti della «prima ondata» in Europa e Nord America. C’è stata un’alienazione della sinistra dalle comunità della working class, che sopportano le conseguenze della globalizzazione capitalista. In alcuni casi, ci sono radici ancora più profonde. Le comunità che erano strutturalmente integrate nel movimento operaio non lo sono più e, in alcuni casi, non lo sono da decenni. Hanno visto la Brexit come un’opportunità per votare per il cambiamento. C’è sempre stato più euroscetticismo in Gran Bretagna che probabilmente nella maggior parte dell’Europa continentale. Ci sono probabilmente molte ragioni storiche per questo, tra cui lo sciovinismo e una divisione all’interno della classe dirigente britannica su questo tema.
Se si torna agli anni Settanta, quando ho iniziato a impegnarmi politicamente, il movimento operaio era in larga maggioranza contrario al progetto europeo per quello che era già allora, una struttura capitalista progettata per garantire il funzionamento dell’economia di mercato indipendentemente dall’intervento nazionale. Ma quando il movimento operaio è stato sconfitto qui in Gran Bretagna, ha visto la possibilità di un intervento da Bruxelles come una panacea. Questa era l’illusione, ma non era condivisa dalla maggior parte della working class. Secondo le statistiche disponibili circa due terzi di questa ha votato per la Brexit. C’è una spaccatura proprio lì tra i lavoratori che sono stati la base di massa del Labour per cento anni e gli elettori metropolitani più liberali che sono spesso, ma non del tutto, più di classe media. Persino i lavoratori neri o i lavoratori con un’eredità migratoria non erano tutti favorevoli all’Ue, come a volte viene presentato. Molti degli autisti di autobus neri nel sindacato di cui facevo parte, Unite, erano preoccupati della concorrenza degli autisti provenienti dai paesi dell’Europa orientale. Non era un quadro chiaro, ma questa spaccatura si esprimeva in modi diversi. Di nuovo, in modo più drammatico negli Stati uniti, appariva come una spaccatura tra l’élite liberale, delle due coste, e le zone centrali industriali. Ma è vero ovunque.
Jeremy era ben posizionato per cavalcare questa divisione, perché era davvero un euroscettico. Se non fosse stato il leader, sono sicuro che avrebbe votato per il Leave. Mi ha detto che in realtà ha votato per il Remain perché pensava che sarebbe stato disonesto agire diversamente. Ma è anche impeccabilmente liberal nei suoi atteggiamenti, come dimostrano la sua empatia per i migranti, il suo atteggiamento sui diritti umani e su tutte le questioni simili. Naturalmente, se fosse stato nella posizione di guidare la campagna Leave, sarebbe stata una storia molto diversa.
Ma per com’è andata, la gente non ha torto. Molte persone in Europa e in Gran Bretagna, considerano la Brexit come razzista perché guidata da Nigel Farage e Boris Johnson. Tuttavia, l’idea, egemonica, che tutti i 17,5 milioni di persone che hanno votato a favore siano razzisti o reazionari o a favore di un’economia deregolamentata ultra-liberista, è completamente falsa. In quest’ultimo caso, penso che siano stati in pochissimi a votare per questo motivo.
Jeremy non stava solo cercando di conciliare la posizione del Labour con le sue opinioni, ma stava anche guidando un partito che era culturalmente in larga parte orientato verso il Remain e stava cercando di vincere un’elezione con una parte dell’elettorato laburista che era altrimenti pro-Leave. Nel 2017, siamo riusciti a superare questo momento. Abbiamo semplicemente detto: «Rispetteremo il risultato del referendum, realizzeremo una Brexit ma sarà diversa da quella che sta facendo [l’allora primo ministro] Theresa May». Quindi, questo è stato sicuramente un elemento per far sì che le persone in quelle aree del Nord rimanessero a bordo [nelle elezioni del 2017].
Le prime discussioni che abbiamo avuto nel gruppo dirigente di Corbyn dopo il 2017 riguardavano tutte il fatto che dovevamo puntare agli elettori più anziani nelle aree working class abbandonate. Il motivo è che nel 2017 c’era un’opportunità. Perfino i parlamentari sono rimasti zitti per un po’ dopo quelle elezioni generali. Corbyn aveva fatto molto meglio del previsto, aveva la capacità di portare il partito dove voleva, ma non l’ha fatto. Ho proposto: dobbiamo provare a far passare la Brexit. Ciò avrebbe significato lavorare con Theresa May, che aveva perso la maggioranza nel tentativo. Sarebbe stato rischioso. Ma far passare quella linea ci avrebbe messo nella posizione migliore per concentrarci sul nostro programma interno e avanzare alle prossime elezioni generali.
Jeremy non lo fece. E siamo scivolati in una politica che andava esattamente nella direzione opposta. Ma nel 2017 non c’è stato alcun movimento di massa per un secondo referendum. Sembrava una cosa marginale. Ciò che i Remainer volevano era una cosiddetta «soft Brexit», non pensavano davvero che fosse possibile invertirla. Ma nel vuoto causato dalla mancanza di iniziativa da parte del Labour e, cosa più grave, dall’incapacità del governo Tory di far passare la Brexit, è nato questo movimento di massa per un secondo referendum. Questo è stato il primo movimento di massa pro-Ue nella storia della Gran Bretagna. Ci sono state grandi marce. Nella maggior parte di esse c’erano probabilmente elettori laburisti, e questo ha semplicemente spaventato la leadership. C’erano anche petizioni online per un secondo referendum e si poteva verificarne il numero in qualsiasi circoscrizione. Jeremy osservava la crescita – 8.000, 10.000, 15.000 – a Islington North [il seggio di Corbyn].
Quindi, siamo arrivati al punto in cui, entro il 2019, non ci si poteva muovere senza creare davvero un problema. Tuttavia, John Trickett e io abbiamo prodotto documenti in cui sostenevamo che se fossimo andati contro il secondo referendum, cioè se avessimo ripetuto sostanzialmente la posizione del 2017, avremmo perso voti a favore dei Verdi o dei Liberali, ma non molti seggi, perché i seggi che avremmo potuto perdere erano a Londra, Manchester o Brighton, dove si avevano monumentali maggioranze laburiste.
Jeremy in realtà è riuscito a trascendere tutto questo, finché non siamo arrivati al problema della Brexit. Ha parlato di un programma socialdemocratico radicale che aveva tanto senso nelle vecchie aree industriali quanto nella Londra interna, che è il suo ambiente naturale. Aveva la capacità di colmare questa spaccatura tra l’elettorato metropolitano e quello tradizionale della classe operaia, molto più di Kamala Harris o chiunque altro. Ma la Brexit lo ha fatto inciampare.
Ora parliamo della strada che la sinistra dovrà percorrere in Gran Bretagna. A che punto siamo dopo la vittoria di Starmer? Mi sembra una specie di vittoria di Pirro, con una quota di voti e un’affluenza molto limitate, il che spiega sia perché la popolarità di Starmer stia già calando, sia perché Corbyn è stato rieletto come parlamentare indipendente, insieme ad altri. E si discute della possibilità di creare un nuovo partito, o almeno un nuovo spazio politico a sinistra. Altri sostengono che bisognerebbe restare nel Labour Party e combattere lì. Cosa ne pensi? L’obiettivo dovrebbe essere un nuovo spazio, o cercare di ripetere il «miracolo» del 2015?
Non credo che il miracolo del 2015 possa ripetersi nel tempo, se mai lo farà. Abbiamo appena avuto un sondaggio d’opinione che mostra che il Partito laburista è ora al terzo posto, dietro non solo ai conservatori, ma anche dietro a Reform UK. I conservatori e Reform UK, entrambi sotto una guida di estrema destra, hanno ora ottenuto il 50% dei voti. Naturalmente, mancano quattro anni e mezzo alle elezioni generali, ma ci stiamo muovendo verso un punto di svolta in cui Reform UK diventerà improvvisamente molto credibile. Probabilmente saranno le elezioni gallesi del 2026, se non prima, in cui potrebbero strappare molti seggi laburisti, e ciò costituirà una sorta di svolta nella credibilità.
La situazione è così disperata per il Labour che mi chiedo se il corbynismo sia stato in realtà l’ultimo sussulto del laburismo. Corbyn ha creato un entusiasmo di massa attorno al Partito laburista e nel 2017 ha ottenuto il 40% dei voti. Dal 1970, il Labour ha ottenuto il 40% o più solo tre volte: due volte sotto Blair e una volta sotto Corbyn. È stato un risultato enorme, ha dato nuova vita al Partito. Starmer ha dedicato tutta la sua leadership a consumare di nuovo quella vita. Il Partito laburista è ormai politicamente svuotato. È stato eletto con un voto misero. Nessun governo britannico è stato mai eletto con una quota di voti inferiore. All’inizio della campagna elettorale, ho scritto che avrei scommesso con chiunque che il Partito laburista avrebbe ottenuto meno voti sotto Starmer di quanti ne avesse ottenuti Corbyn nel 2017. Ma non avrei mai pensato che avrebbe ottenuto ancora meno voti di quanti ne avesse ottenuti Corbyn nel 2019. La quota di voti era leggermente più alta, ma solo a causa della Scozia, dove si applicavano dinamiche diverse.
Cosa significa questo per il futuro? Ora c’è una polarizzazione tra un centrismo neoliberista, neoimperialista e in bancarotta e un crescente populismo di destra. L’unico problema per i populisti di destra è che sono divisi tra i conservatori e il Reform UK. Non c’è un modo semplice per superarlo, ma non è impossibile che ci riescano. Al momento non c’è un polo di sinistra. Dalla Seconda guerra mondiale, la distanza dei partiti a sinistra del Labour in Gran Bretagna è stata abissale. Solo il Partito Comunista ha avuto un impatto elettorale, e anche quello solo per poco tempo. Gli altri tentativi sono stati tutti un disastro di false partenze e iniziative fallite. Nessuno di loro, nemmeno all’inizio, ha avuto solide figure politiche. George Galloway con Respect ha rappresentato un po’ un’eccezione, ma era solo.
Ci sono i cinque parlamentari indipendenti a cui hai fatto riferimento. Sfortunatamente, sono tutti uomini. Quattro di loro sono musulmani, quindi non sono tipicamente rappresentativi dell’elettorato o dell’intera classe operaia, ma è da lì che si parte. C’erano diversi altri candidati che hanno ottenuto ottimi risultati nelle elezioni generali, sono stati quasi eletti o hanno avuto un buon impatto, come Andrew Feinstein che si è candidato contro Starmer nel suo seggio. Ci sono più di cento consiglieri delle autorità locali che hanno lasciato il partito laburista a causa di Gaza o solo perché quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Quindi, lì c’è una base. Ciò che manca al momento è il catalizzatore che possa unire tutto. Non c’è un leader ovvio. Jeremy è un simbolo, ma le sue capacità di leadership, qualunque esse fossero, sono esaurite. Ci sarebbero state possibilità nei sindacati, ma non al momento. Penso che debba venire dai cinque: hanno la legittimità di essere eletti e hanno tra loro alcuni leader piuttosto efficaci, persone carismatiche.
A ciò si aggiungano i sette parlamentari laburisti sospesi dal partito [tra cui John McDonnell, Rebecca Long-Bailey e Zarah Sultana] perché hanno votato contro il limite massimo di due figli per i sussidi, che è un limite al numero di figli per cui si può richiedere il sussidio se si è in povertà. Sono stati tutti rimossi dal whip (il segretario parlamentare), il che significa che, allo stato attuale delle cose, non possono più essere candidati nel Labour. Ovviamente, potrebbero essere reintegrati prima delle prossime elezioni generali. Se si alleano con i cinque, sarebbe l’inizio di qualcosa di credibile e fattibile.
C’è anche un enorme movimento di solidarietà con Gaza, che non è affatto scemato dopo ventitré manifestazioni nazionali in oltre tredici mesi. È davvero straordinario. C’è una risorsa di movimento che, se presa in mano, può aprire una nuova possibilità.
*Andrew Murray è un ex consigliere di Jeremy Corbyn e autore di Is Socialism Possible in Britain?: Reflections on the Corbyn Years. Stathis Kouvelakis è un ricercatore indipendente in teoria politica. Membro del comitato centrale di Syriza dal 2012 al 2015, è stato candidato per MeRA25-Alliance for Rupture alle elezioni generali greche del maggio 2023. Questo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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