
Da Montblanc sfruttamento di lusso
La lotta di lavoratori e lavoratrici e solidali contro il ricatto messo in campo della griffe della moda di praticare la delocalizzazione selvaggia nella Piana fiorentina
Fuori dal circolo dove è stata convocata l’assemblea del Sindacato unione democrazia dignità, per fare il punto sulla vertenza Montblanc, parcheggiata in bella posta c’è una camionetta della polizia con un’intera squadra celere, ingaggiata a spese della collettività senza apparente motivo, se non quello di trasmettere la sensazione opprimente della prospettiva che rischia di aprirsi con l’ennesimo Decreto sicurezza del governo Meloni.
All’interno invece una sala gremita, che non riesce a contenere la partecipazione di lavoratori, lavoratrici, attiviste e solidali del sindacato di base, fra cui anche operai del Collettivo di Fabbrica ex-Gkn. L’alta partecipazione si spiega non solo con il bisogno di essere aggiornati sugli ultimi sviluppi di una lotta campale, iniziata nella Piana toscana nel 2022 e diffusa poi in molte città europee; ma viene anche dall’indignazione per quello che è stato definito un «Daspo sindacale», un precedente pericoloso per tutte le lotte e in generale per la tenuta democratica e sociale.
L’incontro si apre con la buona notizia sul ritiro del ricorso d’urgenza presentato dalla nota griffe della moda al Tribunale di Firenze, in cui si chiedeva la prescrizione di qualunque forma di manifestazione, promossa dal sindacato Sudd Cobas, ad almeno 500 metri di distanza dal proprio negozio in via Tornabuoni, vetrina del lusso nel centro storico del capoluogo toscano, pena il pagamento di 5.000 euro di multa.
Alcuni esponenti della sinistra cittadina avevano definito «inaccettabile l’utilizzo di strumenti di ordine pubblico a danno della dignità di chi lavora». E infatti la vicenda Montblanc, con il «Daspo sindacale» contro i Sudd Cobas, diventa il simbolo di un capitalismo sempre più spregiudicato, che rivendica la supremazia della libertà d’impresa e della reputazione commerciale sui diritti sindacali, ovvero il primato della massimizzazione del profitto sull’ordinamento democratico e costituzionale.
I rappresentanti del Sudd Cobas parlano di «sbornia di ipersicurezza che le multinazionali percepiscono grazie alle politiche portate avanti da questo governo, con un’idea classista della città e dello spazio pubblico in cui i ricchi rivendicano il loro diritto esclusivo ad alcuni pezzi di città».
«Se una richiesta del genere dovesse essere accolta saremmo di fronte a un precedente pericolosissimo – avevano denunciato referenti del sindacato di base in una nota – Potrebbe produrre in futuro nuovi restringimenti degli spazi di democrazia e di agibilità sindacale, ben oltre la specifica vertenza. Per accogliere questo ricorso, bisognerebbe fare carta straccia di mezza Costituzione. Ai tempi del Ddl 1660, non è abbastanza per dirci: non accadrà. Ogni forma di espressione di dissenso pacifica è sotto attacco e questa potrebbe e dovrebbe essere l’occasione di fare convergere movimento operaio e lotta per il diritto alla città».
La denuncia è poi stata ritirata dalla stessa Montblanc, a fronte di una straordinaria risposta solidale, con un appello internazionale, che in poche ore ha raccolto 50 adesioni di organizzazioni italiane e 20 internazionali, oltre a un centinaio di adesioni individuali. Ma la vicenda non si chiude qui, non solo per la gravità del tentativo di limitare la libertà sindacale e anche la disponibilità delle vie pubbliche, ma anche perché Montblanc non ha comunque ritirato le denunce per danno di immagine, continuando a dirsi estranea a quello che succede nel suo indotto. Difficile far finta di non sapere cosa accade lontano dalle vetrine luccicanti del centro, quando la casa madre sa benissimo che quelle borse esposte in vetrina a migliaia di euro, ne sono costate appena 40; e che questo costo non può che essere giustificato da uno sfruttamento di lusso, fatto di turni di dodici ore, sette giorni su sette e con stipendi di poco superiori a 3 euro l’ora.
La protesta ha inizialmente riguardato una settantina di lavoratori e lavoratrici, di cui tredici iscritti al sindacato, in due ditte, inserite in un sistema di scatole cinesi di subappalti: Z Production ed Eurotaglio di Campi Bisenzio (Firenze), aziende mono-committenti per Montblanc, per cui producevano borse in pelle sotto la supervisione di un incaricato di Richemont, fondo finanziario con sede in Svizzera, proprietario della nota griffe, che continua a declinare ogni responsabilità sociale nell’ambito della propria filiera produttiva.
Dopo la firma dell’accordo sindacale di 8 ore per 5 giorni nel 2023 – sebbene si tratti di un istituto previsto per legge oltre un secolo fa e tuttora evidentemente disatteso – con contratti comprensivi di tutele per malattia e ferie; ecco la ritorsione al centro della vertenza per la riduzione delle commesse da parte di Pelletteria Richemont Firenze, che comunica la cancellazione del contratto di appalto alle due aziende fornitrici con validità da fine anno e un’immediata ricaduta produttiva già nel mese di marzo, quando il sindacato si attiva con uno sciopero e una trattativa per la continuità occupazionale e il ricollocamento all’interno della filiera. Di fatto però in estate la trattativa si interrompe, con l’azienda capofila che al tavolo di crisi sostiene il mantenimento della produzione sul territorio, senza però precisare dove. L’ipotesi iniziale è che la produzione sia stata trasferita in altri stabilimenti del territorio, dove continua la pratica di sfruttamento del lavoro a 12 ore per 7 giorni, senza alcuna garanzia su diritti e reddito. Una sorta di delocalizzazione interna alla Piana fiorentina, a pochi chilometri dalle due aziende fornitrici, con l’intento di proseguire il dumping sul lavoro e mantenere il prezioso bollino made in Italy. Quelli che invece si erano ribellati allo sfruttamento, si sono trovati davanti a un’ulteriore riduzione di reddito: le aziende infatti, rimaste senza commesse, sono ricorse in parte alla cassa integrazione e i lavoratori si sono trovati prima in «contratto di solidarietà» – di cui è stata inizialmente corrisposta solo la parte statale, mentre per quella aziendale sono state necessarie ulteriori mobilitazioni –, fino all’apertura della procedura di licenziamento per i sei lavoratori di Z Production iscritti al sindacato, rimasti assunti in azienda nonostante le vessazioni economiche. «Abbiamo fatto emergere il super-sfruttamento nella filiera – hanno dichiarato i referenti del Sudd Cobas – e smascherato la vergognosa delocalizzazione punitiva messa in atto contro la loro sindacalizzazione».
Dopo i picchetti fuori dalle aziende dei macrolotti industriali, anche per la reticenza delle istituzioni regionali; il sindacato di base ha deciso di salire sul palcoscenico buono del capoluogo toscano, con il presidio e l’accampamento di tende davanti al negozio in via Tornabuoni. Nella stessa giornata di «Convergenza europea ai negozi Montblanc», a fine ottobre 2024 il presidio è stato esteso ad altre città come Milano, Napoli, Roma, Bologna, Torino, Verona, fino a varcare i confini nazionali e raggiungere le boutique di Ginevra, Basilea, Zurigo, Berlino e Lione, estendendo la protesta con lo slogan Made in Italy? Shame in Italy, per chiedere la fine delle politiche antisindacali nelle aziende della filiera e la continuità di lavoro in caso di cambio di appalto, anche contro lo strapotere dei fondi finanziari, che nel caso di Richemont a fine 2022 aveva registrato utili per oltre 2,2 miliardi di euro.
La protesta ha portato il caso anche nel parlamento cantonale di Ginevra, dove ha sede la società Richemont e dove è stata presentata un’interrogazione con la richiesta di sospendere i benefici fiscali alla società, accusata di non rispettare i diritti dei lavoratori e non garantire la responsabilità sociale nella lunga catena dei subappalti del gruppo. Infine, a smuovere ancora di più le acque, Al Jazeera ha prodotto un documentario nel quale si dimostrano le responsabilità di Montblanc.
L’azione sindacale è iniziata su un piano locale, partita dalle «zone economiche speciali», che come isole pirata popolano l’atollo manifatturiero dei macrolotti industriali fra Prato e Firenze, e poi si è estesa a livello globale, fino ai centri del potere europeo e ai media internazionali. Di fatto ha smascherato la filiera dello sfruttamento predatorio, le delocalizzazioni interne, anche di tipo punitivo e l’ipocrisia di marchi come il made in Italy, che nonostante il prezzo finale del prodotto, poi evidentemente non certifica la qualità del lavoro.
La vertenza Montblanc ha portato in primo piano la responsabilità di filiera, punto nevralgico delle rivendicazioni artigiane verso committenti troppo potenti e disinteressati ad assumersi realmente gli oneri di condizioni di lavoro sostenibili, a fronte di scelte sui fattori produttivi spesso orientate all’approccio «usa e getta», nel quale i lavoratori e le lavoratrici sono considerate mere variabili accessorie.
D’altro canto però, la mobilitazione della classe lavoratrice e la solidarietà diffusa ha messo in vetrina il protagonismo operaio, di lavoratori stranieri che hanno tutto da perdere, dalle rimesse alle famiglie in patria fino al rinnovo del permesso di soggiorno, eppure lottano e, così facendo, dismettono le discriminazioni sulla propria origine e riscattano le iniquità dei ricatti, per loro e per chiunque viva del proprio reddito da lavoro.
Non a caso, proprio qualche giorno fa, il Procuratore a capo del Tribunale di Prato, Luca Testaroli ha sollecitato lavoratori e lavoratrici a denunciare ogni forma di sfruttamento, garantendo la possibilità di ricevere protezione e documenti di riconoscimento «per motivi di giustizia».
Senz’altro un cambio di paradigma delle autorità, dettato anche dall’esasperante estensione dello sfruttamento; che in questo modo tuttavia profila i lavoratori più come collaboratori di giustizia, invece di renderli protagonisti delle relazioni industriali. Una differenza non di poco conto, non solo in termini di coscienza di classe, ma anche a livello pratico con una certa inefficacia dei controlli rispetto al fenomeno «apri-chiudi» di molte aziende, che per sfuggire alle sanzioni, cambiano la loro ragione sociale. Un fenomeno che a settembre scorso aveva portato allo Strike Day diffuso in varie ditte manifatturiere del distretto pratese.
Quella che in una nota sul profilo social del sindacato di base viene a ragione definita una «prima vittoria» con il ritiro del ricorso da parte di Montblanc è, a detta degli stessi promotori, «una luce nel buio», che deve ora confrontarsi con altri due aspetti cruciali di questa vertenza: il confronto con l’azienda Richemont Firenze a un tavolo negoziale per farsi carico della responsabilità di filiera e le querele penali ancora pendenti su alcuni referenti del Sudd Cobas. «Sappiano che noi continueremo a fare il nostro lavoro – dichiarano referenti del Sudd Cobas – senza paura di pestare i piedi a qualche gigante».
*Valentina Baronti collabora con le testate indipendenti fiorentine Fuori Binario e La Città Invisibile ed è autrice del libro La fabbrica dei sogni (Alegre, 2024). Tommaso Chiti attivista e coordinatore regionale del progetto Antifascist Europe della fondazione Rosa Luxemburg, è laureato in Studi europei alla facoltà Cesare Alfieri dell’università di Firenze.
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