Dal Grillo qualunque al Conte dimezzato
Archiviata definitivamente l'era del populismo digitale, il M5S cerca una collocazione «progressista e indipendente». Con qualche tentazione dalla «sinistra conservatrice»
Partiamo da un presupposto. Il Movimento 5 Stelle che abbiamo analizzato, raccontato e (diciamocelo, senza troppi giri di parole) cercato, spesso purtroppo invano, di spostare sul terreno delle lotte non esiste più ormai da tempo. Avendone seguito l’evoluzione nell’arco di quindici anni e passo dopo passo, dagli albori dei MeetUp alla recente defenestrazione di Beppe Grillo, siamo in grado di indicare il giorno preciso della fine del M5S per come lo avevamo conosciuto. Si tratta del 9 febbraio del 2021, il giorno in cui Grillo invitò i suoi a entrare nella maggioranza che sosteneva il governo di Mario Draghi (cui concesse anche la patente di «grillino») in cambio dell’istituzione del cruciale ministero della transizione ecologica, che sciaguratamente venne affidato a Roberto Cingolani, sempre su indicazione del fondatore.
Chi ha ucciso il Movimento 5 Stelle
Ecco perché quando Grillo dice che è arrivato il momento di lasciare che il M5S si estingua non ha tutti i torti. O meglio: dice una mezza verità, perché è vero che il M5S delle origini non esiste più, ma l’ex comico genovese omette di ricordare che il colpo di grazia l’ha assestato lui. Quel M5S non è più tra noi e basta passare in rassegna i proclami originari che gli hanno consentito di diventare la prima forza del paese per averne conferma: la trasparenza via streaming, il divieto di alleanze in nome del né di destra né di sinistra, gli stipendi francescani, la centralità del feticcio digitale e della piattaforma Rousseau per prendere le decisioni, l’assoluto divieto di accedere ai finanziamenti pubblici.
Soprattutto, non esiste più il personale politico che ne ha accompagnato la scalata al potere. Da questo punto di vista, il parlamento ha aperto il M5S come una scatoletta di tonno: tutti i nomi che il cronista aveva faticosamente messo da parte in agenda dal 2013 al 2022 sono evaporati. Merita segnalare che nella maggior parte dei casi si sono riconvertiti all’attività di consulenza per i privati, altri invece hanno provato a riciclarsi in altre formazioni politiche. In pochi hanno accettato di tornare alle loro vite senza coltivare ambizioni nei palazzi, meno ancora si sono messi al servizio dei 5 Stelle come «semplici attivisti». Adesso, dopo le votazioni online che Grillo vuole maldestramente far ripetere esercitando l’ultima sua prerogativa, anche il tetto dei due mandati non esiste più. Giuseppe Conte è stato abile a usarlo e poi sbarazzarsene. Prima delle politiche del 2022 lo ha imbracciato come arma di propaganda e come espediente per falcidiare la classe politica precedente, quella cresciuta all’ombra di Gianroberto Casaleggio e Luigi Di Maio (grazie all’avvocato, nessuno si ricorda più di gente come Manlio Di Stefano o Angelo Tofalo, che recitavano da irreprensibili portavoce del popolo e che come molti altri hanno attraversato le porte girevoli che dall’attività politica conducono agli interessi economici privati). Solo una volta che lo stesso ex premier ha preso pieno possesso di una forza politica riscrivendone di suo pugno lo statuto e selezionando parlamentari a lui fedeli, ha proceduto a rimuovere una norma incompatibile con la necessità di radicamento e maggiore solidità organizzativa.
Le questioni di natura regolamentare, che hanno sempre un significato che dal metodo arriva al merito della posta in palio, vanno di pari passo a quelle di carattere esplicitamente politico. Anche qui bisogna considerare un presupposto che ci aiuta a evitare i facili schematismi che ci porterebbero fuori pista. Come si è visto a proposito dell’endorsement a Draghi, dietro lo scontro tra Conte e Grillo non c’è la contrapposizione tra il M5S «di lotta» e quello «di governo». La contesa non riguarda una presunta radicalità primigenia da ritrovare, in alternativa alla politica tradizionale. È vero che il M5S delle origini si era appropriato di alcune proteste e temi sociali: si pensi alla questione del reddito di cittadinanza, che insieme ai temi giustizialisti e anti-Casta ne ha caratterizzato l’identità. Ma ciò era accaduto non per organizzare lotte o diffondere i conflitti, ossia per costruire quei presidi sociali che sono condizione fondamentale della conquista di nuovi diritti. Esattamente il contrario: Grillo e Casaleggio vendevano soluzioni, la maggior parte delle quali tecniche (quando non del tutto tecnologiche) e, va da sé, «né di destra né di sinistra». Il fatto che l’architettura della mitologica piattaforma Rousseau non prevedesse l’azione orizzontale e la partecipazione ma servisse a costruire un flusso di comunicazione verticale che dalla base arrivava agli eletti ha a che fare con questa filosofia di fondo.
Il fallimento del tecnosoluzionismo
Qui arriviamo al dilemma che si ritrova Conte. Il passaggio dallo spontaneismo delle origini ai palazzi del potere si è dovuto confrontare direttamente con questo limite. Quando si è trattato di capitalizzare gli investimenti mediatici della legislatura del debutto in parlamento, quella trascorsa vistosamente all’opposizione, la classe dirigente grillina è arrivata al governo pronta ad applicare le formulette post-ideologiche che le hanno consentito di allearsi con quasi ogni forza dello spettro politico. In questo modo si spiega l’illusione di risolvere il nodo gigantesco delle politiche attive sul lavoro, che dovevano costituire l’altro corno del reddito di cittadinanza, con una app affidata a un misconosciuto professore italoamericano (il presto dimenticato Mimmo Parisi from Mississippi) o il clamoroso sfondone di Grillo di cui parlavamo prima: ha messo al timone della postazione nevralgica del ministero per la transizione ecologica un nuclearista legato alle industrie degli armamenti come Cingolani, presentandolo come una specie di inventore con il tocco magico. Tutto in nome, appunto, di quello che l’analista critico della sfera digitale Evgeny Morozov chiama soluzionismo. Ed è sempre per questo motivo che la stragrande maggioranza del ceto politico costituitosi nel corso dei primi dieci anni di grillismo si è presto riconvertito alle consulenze d’azienda, in barba ai potenziali conflitti di interessi. Il mantra di Gianroberto Casaleggio, che era un manager e aveva sfogliato qualche manuale di organizzazione del lavoro, era che non bisognava davvero coinvolgere la gente. Al contrario, l’obiettivo era «risolvere i problemi», individuare la chiave giusta. Il fulcro della sua piattaforma non stava a monte, in mezzo agli iscritti, ma a valle, dove bisognava raccogliere il consenso e gestirlo nel più efficiente dei modi.
L’idea che basti trovare la linea giusta, dosando pragmatismo e scaltrezza comunicativa, appare abbastanza illusoria. È la strada che ha intrapreso lo stesso Conte quando si è stabilito in forma più stabile nel campo progressista ma ha pensato di doversi smarcare il più possibile dalle scelte del Pd: questa tattica ha avuto soltanto l’effetto di produrre disorientamento tra gli elettori. L’ex premier pare esserne almeno consapevole quando ha messo l’accento sul meccanismo «partecipativo» (affidato ai tecnici della società di consulenza Avventura urbana) dell’assemblea costituente. Ora deve trovare la soluzione all’enigma paradossale del M5S: il partito che chiedeva voti in cambio di risposte nette e preconfezionate, per sopravvivere ha bisogno di sostenitori che non siano disposti a firmare deleghe in bianco. La politica, persino ai tempi dell’egemonia del modello aziendale e della crisi dei partiti, è anche organizzazione del consenso e discussione decentrata, radicamento sociale e formazione di quadri. Tutte cose che, al di là della retorica sulla democrazia diretta, non erano contemplate dal modello originario dei 5S. E questo è tutto ciò di cui Conte ha bisogno e che per l’orizzonte di Grillo è inconcepibile.
Da anni, ben prima che si insediasse la leadership dell’avvocato, nel M5S si parla di organizzare il livello territoriale, si distribuiscono cariche, si costruiscono organigrammi. Eppure non se ne viene a capo, come si evince dalle frequenti delusioni alle elezioni amministrative, quelle in cui il voto di opinione conta sempre meno perché pesano le relazioni di prossimità e l’attività riconosciuta nella sfera pubblica (e il loro lato oscuro: piccole clientele e favori che generano vincoli d’appartenenza). L’altro giorno, durante la kermesse che ha chiuso la consultazione online degli iscritti, Conte ha annunciato che nel M5S adesso esistono ben 330 gruppi territoriali, le indicazioni uscite dalla consultazione dovrebbero aiutare a formalizzarli e a dare loro risorse, è uscita anche l’idea che ogni carriera politica (una volta superato il tetto dei due mandati) debba partire dalla sfera amministrativa e che la scuola di formazione diventi strumento centrale nella costruzione di quadri consapevoli e identità condivise.
Ok, ma tutto ciò per fare cosa? Anche qui, bisogna assumere un minimo di prospettiva storica. Nel 2018, una volta fatto il pieno di voti e rastrellato consensi da ogni parte politica, in nome del tecnosoluzionismo Luigi Di Maio stipulò il contratto di governo con la Lega. L’idea era che si potesse concedere al ministro dell’Interno Matteo Salvini di agire indisturbato sul terreno di estrema destra del sovranismo e del securitarismo per riuscire ad applicare le proprie ricette su giustizia (la legge cosiddetta «spazzacorrotti») e protezione sociale (il «reddito di cittadinanza», il decreto cosiddetto «dignità»).
Il mix tra politiche di welfare e suprematismo e il minimo comun denominatore anti-Ue rimandavano più ai paesi del patto di Visegrad che a una forma di Socialdemocrazia 2.0. Il progetto abbastanza esplicito e ambizioso era quello di ridisegnare una terza politica attorno ai due pilastri di Lega e 5 Stelle, considerate (lo ha ribadito Marco Travaglio alla kermesse pentastellata) le uniche forze politiche che raccolgono voti liberi e di opinione. Non bisognerà mai finire di ringraziare la stoltezza politica di Salvini, che tra i fumi del Papeete e l’ebbrezza di sondaggi trionfali decise di staccare la spina al governo gialloverde. A quel punto, il M5S fece l’unica cosa che una forza liquida poteva fare: visto che la destra, in seguito al compromesso del Conte I, si stava riprendendo molti dei suoi voti e numerosi parlamentari grillini in transito, Luigi Di Maio optò per l’alleanza con il Pd, fino ad allora considerato il Partito di Bibbiano, la Qanon all’amatriciana. Questo passo gli avrebbe consegnato la definitiva consacrazione istituzionale: si fece piazzare alla Farnesina, ed è noto che il ministero degli Esteri è il trampolino di lancio per chiunque abbia ambizioni da premier.
Il riposizionamento, insomma, avvenne più per cause esogene che per spinte interne. Non si trattò di ritrovare la propria vera anima ma di adattarsi al mutato contesto. La stessa cosa accadde quando Di Maio organizzò la sua scissione in polemica con Giuseppe Conte: il M5S perse la sua anima moderata e centrista e l’ex premier si ritrovò con un drappello di parlamentari che avevano resistito prima alla rottura con la destra e poi al magnetismo moderato dell’Agenda Draghi. Il gran cerimoniere di questo passaggio è stato il professore Domenico De Masi, sociologo scaltro e accattivante, che non aderì né votò mai i 5 Stelle ma che si mise in testa, non senza (auto)ironia e con consapevole avventatezza, di trascinarli verso sinistra. Parola, quest’ultima, che Conte non vuole pronunciare più per motivi comunicativi che ideologici: la considera abusata, foriera di divisioni e vecchi conflitti. Preferisce definirsi «progressista». Così, in questa legislatura il M5S è approdato all’Europarlamento nel gruppo della sinistra radicale di The Left, dove ha dovuto sottoscrivere una serie di impegni programmatici e rinnegare i trascorsi a destra (l’alleanza con la Lega in Italia e quella con Nigel Farage a Bruxelles).
Il fascino pericoloso della sinistra conservatrice
Questo percorso pone Conte nella difficile condizione di doversi distinguere dalle altre forze di sinistra esistenti. Da questa necessità tattica e strategica deriva probabilmente la fascinazione per la sedicente «sinistra conservatrice» tedesca capitanata da Sahra Wagenknecht, unica leader ospite dell’evento fondativo del M5S di Conte al Palazzo dei Congressi. Quest’ultima nel suo intervento ha messo in guardia i convenuti dall’«immigrazione incontrollata». Interpreta uno sciovinismo che, ancora una volta, confonde gli interessi della classe con quelli della nazione, oltre a una tradizione di derivazione socialdemocratica che si basa sull’illusione di contenere gli animal spirits del capitalismo ripristinando la gabbia dello stato-nazione. Di sicuro, crea un certo sgomento sentir parlare di invasioni e flussi fuori controllo, il che significa condividere i presupposti narrativi della destra. Specie in un paese in cui la legge in materia in vigore da quasi venticinque anni porta la firma di Bossi e Fini, in cui l’estrema destra è al governo e quando non lo è stata il ministro dell’Interno si chiamava Marco Minniti.
Insomma, se è apprezzabile l’impegno progressista e indipendente di un Conte che pare avere abbandonato la velleità di diventare federatore di tutto il centrosinistra (così lo battezzò l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti) e che aspira a recuperare i consensi perduti nelle aree del paese abbandonate dalla politica in nome di maggiore giustizia sociale, si spera che il nuovo M5S non cada nella trappola reazionaria di considerare i diritti dei migranti e dei lavoratori di origine non italiana come alternativi e persino in competizione con quelli degli autoctoni. Ciò avrebbe davvero poco a che fare con ogni forma di progressismo.
*Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (Castelvecchi, 2012 e 2014) e Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo, 2015).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.