
Dalla post-politica all’iper-politica
Siamo passati dalla padella della fine della storia (e del trionfo degli automatismi tecnocratici) alla brace della disseminazione ossessiva e molecolare di discorsi che si proiettano in forme spettacolari e nel breve periodo
A metà del suo memoir Gli anni, Annie Ernaux disegna il panorama politico della metà degli anni Novanta:
Si diffondeva un clima d’escatologia politica. Si annunciava l’avvento di un «nuovo ordine mondiale». La fine della Storia era vicina, la democrazia si sarebbe propagata su tutto il pianeta. […] La parola «lotta» era stata screditata, quasi puzzasse di un marxismo ormai messo in ridicolo, il termine «difesa» designava innanzitutto quella dei consumatori.
Nata in una famiglia operaia nel 1940, alla fine degli anni 2000 la scrittrice francese era già diventata tra le più celebrate in patria. Uscita nel 2008, questa sua «autobiografia collettiva» sulla società francese del dopoguerra è apparsa poco prima del fallimento di Lehman Brothers. La traduzione italiana è arrivata nel 2015, quando il decennio «populista» si avviava al tramonto.
Il lavoro di Ernaux è la diagnosi di un mondo chiuso in cui le persone si sono ritirate nel privato e la politica è relegata in secondo piano e il potere l’hanno preso i tecnocrati. Quelli erano gli anni in cui Tony Blair sosteneva che opporsi alla globalizzazione era come opporsi al cambiamento delle stagioni, e in cui entrava nel dizionario tedesco il termine Alternativlosigkeit, «assenza di alternative».
«Non sapevamo dire se ci sentissimo più logorati dai media con i loro sondaggi, quanta fiducia le ispirano i seguenti personaggi, i loro commenti formulati con superiorità, i politici che promettevano di aumentare i posti di lavoro, tappare i buchi di bilancio – o dalle scale mobili della stazione sempre fuori servizio», scrive Ernaux.
Dopo dieci anni di disordini populisti, questa testimonianza appare oggi insieme familiare e inaudita. I processi di rapida individualizzazione e di declino delle istituzioni collettive diagnosticati dall’autrice non si sono più arrestati. Salvo poche eccezioni, la base dei partiti politici continua a erodersi. Le associazioni non hanno più guadagnato iscritti, le chiese non hanno più riempito i banchi di fedeli e i sindacati non sono resuscitati. In tutto il mondo, la società civile è ancora impantanata in una crisi profonda e prolungata, l’azione politica (o presunta tale) è monopolizzata dai flash mob, da Ong e da filantropie varie fondate su mandati democratici esili e basi associative inesistenti. La sociologa politica americana Theda Skocpol parla, giustamente, di una combinazione tra «teste senza corpo» e «corpi senza testa».
D’altra parte, difficilmente si ritrova tale e quale al giorno d’oggi quella miscela di diffidenza e apatia così caratteristica degli anni Novanta descritti da Ernaux. Il presidente Joe Biden è stato eletto con un’affluenza elettorale da record; il referendum sulla Brexit è stato il più grande voto democratico nella storia della Gran Bretagna. Le proteste di Black Lives Matter hanno organizzato eventi di massa, molti dei principali brand mondiali hanno indossato il cappello dell’uguaglianza razziale, adattando i loro marchi. Piattaforme come TikTok, YouTube e Twitter sono piene di contenuti politici: dai vlogger americani che recitano opuscoli socialisti fino agli influencer francesi di destra che urlano contro i rifugiati. Una nuova forma di «politica» avanza sui campi dell’Nba e della Nfl americane, nelle serie Netflix e nei modi in cui le persone si descrivono sui social.
A destra, molti sostengono che la società sia come sopraffatta da un affaire Dreyfus permanente, che avvelena le cene di famiglia, gli aperitivi tra amici e i pranzi di lavoro. I centristi, invece, finiscono preda della nostalgia per l’epoca precedente alla nuova iper-politica odierna, una nostalgia per la post-storia degli anni Novanta e Duemila, quando i mercati e i tecnocrati erano gli esclusivi depositari di ogni politica.
L’era della «post-politica» si è chiaramente conclusa. Eppure, invece di vedere risorgere la politica del ventesimo secolo, con la correlata rinascita dei partiti di massa, dei sindacati e delle lotte dei lavoratori, attualmente viviamo in una situazione che sembra aver saltato un passaggio.
Chi ha iniziato a fare politica nell’epoca della crisi finanziaria ricorderà bene la fase in cui non si poteva definire più niente come scelta politica, nemmeno le politiche di austerità. Oggi invece tutto è politico, e con accanimento. Tuttavia, nonostante selvagge passioni stiano superando e plasmando alcune delle istituzioni più potenti dell’Occidente (in particolare negli Stati uniti), sono pochissime le persone realmente coinvolte in quel tipo di conflittualità organizzata tra gruppi di interessi che definiva la politica nel suo senso classico novecentesco. Il sentimento antipolitico, inoltre, non è affatto diminuito. L’ibrido risultante si dimostra stimolante e allo stesso tempo esasperante, ma non ha prodotto la rinascita della politica di classe che la sinistra populista prospettava.
Per capire questo passaggio dalla post-politica all’iper-politica vale la pena allora riepilogare i tratti essenziali dell’interregno che ci stiamo lasciando alle spalle.
La politica dopo il 2008
L’era glaciale che aveva seguito il crollo del Muro di Berlino ha cominciato lentamente a scongelarsi. Da Occupy Wall Street negli Usa al 15M in Spagna alle mobilitazioni anti-austerity in Gran Bretagna, in tutto l’Occidente hanno cominciato a emergere movimenti che ancora una volta sollevavano lo spettro del conflitto tra interessi organizzati. Questi movimenti, tuttavia, non nascono nei regni formali della politica. La retorica del «né di destra né di sinistra» è stata talvolta descritta come antipolitica, ma ha senz’altro il merito di aver segnato la fine di un’era di consenso allineato.
Nell’esplosione populista sono proliferate le alternative organizzative al vecchio modello di partito di massa. Movimenti, Ong, multinazionali e società di sondaggi mascherate da gruppi politici come Extinction Rebellion o il Brexit Party offrono modelli più flessibili rispetto ai partiti della classe operaia di un tempo, percepiti come pachidermi sia dai politici che dai cittadini. Chi un tempo avrebbe aderito a un partito ora si può risparmiare di entrare in associazioni impersonali e dai tempi lenti, e i politici possono godere di un minor grado di opposizione rispetto ai congressi di partito.
Strane nuove forme hanno preso il posto del partito di massa. I cosiddetti partiti digitali, dalla France Insoumise e Podemos, a sinistra, a La République en Marche di Emmanuel Macron al centro o il Movimento 5 Stelle con collocazione politica amorfa promettono meno burocrazia, più partecipazione e politica orizzontale. In realtà, hanno per lo più concentrato il potere nelle mani dei loro fondatori. Il candidato dell’estrema destra francese Éric Zemmour va ai talk show dei millennial, mentre i politici olandesi tengono discorsi in streaming su Twitch. Come veicoli, i partiti stanno lentamente morendo o sono sostituiti da organizzazioni di quadri, mentre il resto del partito viene trasformato in una tribuna.
In Gran Bretagna, il Brexit Party è stato almeno più onesto. Si è affermato come un’azienda già prima delle elezioni del 2018 e poi ha continuato ad agire sulla scena come un partito serio solo nella misura in cui era vantaggioso per la carriera personale del suo leader Nigel Farage. Tutte queste organizzazioni rivendicavano radici in strati della società senza politicizzazione, ma nessuna di esse ha spinto i suoi sostenitori a intraprendere quello che potrebbe essere descritto come impegno politico classico.
Una forza trainante di questo nuovo movimentismo è stato senza dubbio l’opportunismo elettorale. Per la maggior parte dei partiti europei, la conversione recente al modello del movimento avviene sullo sfondo di un duplice declino, degli iscritti e dell’elettorato. Il Belgio è un esempio significativo di questa tendenza. I cristiano-democratici fiamminghi avevano 130.000 membri nel 1990, ora ne contano appena 43.000. Nello stesso periodo, i socialisti belgi sono crollati da 90.000 a 10.000 iscritti, il partito socialdemocratico tedesco è passato da un milione nel 1986 a poco più di 400.000 nel 2019, mentre i membri del partito laburista olandese sono scesi da oltre 100.000 nel 1986 a 41.000 nel 2021.
La storia è simile un po’ ovunque: l’ex partito di massa sopravvive come fornitore di politica (ciò che gli scienziati politici chiamano il «fattore di produzione» della democrazia), ma al suo interno è divorato da specialisti della comunicazione e burocrati. Nel suo romanzo Ernaux racconta che la sede del Partito socialista francese, che aveva votato nel 1981, nel 2017 è stata messa in vendita dopo il crollo verticale dei socialisti alle presidenziali.
Per certi versi la Gran Bretagna ha rappresentato un’eccezione alla regola. Con la leadership di Jeremy Corbyn il Partito laburista ha visto una crescita esponenziale degli iscritti, passati da poco più di 150.000 con il segretario precedente Ed Miliband ai quasi 600.000. Parliamo non di semplici sostenitori, ma di iscritti con diritto di voto, quindi in grado di incidere sulla scelta dei rappresentanti del partito, anche se magari non partecipano regolarmente alle riunioni di sezione. È chiaro che un tale processo di ripoliticizzazione pianta semi politici, tanto che persino i conservatori britannici si sono convinti a usare argomentazioni progressiste: Boris Johnson ora chiede esplicitamente un ritorno al «conservatorismo di una sola nazione», ovvero al tradizionale scetticismo dei Tory verso il libero mercato.
Anche il Covid ha contribuito a mandare in frantumi il consenso neoliberale. I governi di tutto il mondo occidentale si stanno avvicinando ai livelli di debito pubblico della Seconda guerra mondiale: da Singapore a Budapest, gli argini dell’austerità fiscale si sono rotti. Tuttavia, con l’eccezione della Cina, gli Stati hanno assunto un ruolo curiosamente duplice in questo processo. Le politiche di welfare del ventesimo secolo sono state un programma sperimentale di economia mista che andava di pari passo con lo sviluppo nazionale. Spronati dall’alleanza, fragile ma organizzata, tra mondo del lavoro e piccole imprese, gli Stati hanno investito in servizi pubblici a lungo termine, nell’elettrificazione delle aree rurali e nella costruzione di dighe, strade, ponti e infrastrutture. Nelle fasi più ambiziose di questo periodo storico, il denaro pubblico veniva speso per costruire beni pubblici con scarso coinvolgimento del settore privato.
Questa economia dei beni pubblici finora è stata completamente assente nella lotta al Covid. Invece la politica ha scelto di sostituire la mano invisibile del mercato con la mano invisibile dello Stato, arbitro che occasionalmente assiste i giocatori ma raramente partecipa al gioco. Nel frattempo, le forme di mobilitazione popolare che hanno storicamente stimolato la creazione di uno Stato sociale sono risultate discontinue e ostacolate dai quadri di partito.
Non sorprende che, sempre in Gran Bretagna, la controrivoluzione dell’attuale leader laburista Keir Starmer abbia messo nel mirino proprio i dirigenti: se il partito deve essere trasformato in un altro veicolo della politica di professione, allora gli iscritti vanno privati del loro potere, incentivati ad andarsene o espulsi. Il processo è ben avviato: oltre 150.000 persone hanno lasciato i laburisti britannici nell’ultimo periodo.
La lezione da trarre da tutto ciò, per i populisti di sinistra, è piuttosto amara. Mentre la maggior parte delle svolte a sinistra degli ultimi anni (da Syriza a Podemos alla France Insoumise) hanno cercato di esprimersi sotto forma di nuove organizzazioni, il corbinismo è stato probabilmente l’ultimo sforzo per rivitalizzare gli agonizzanti partiti operai del passato.
Il leader socialista fiammingo Conner Rousseau ha celebrato la «fresca atmosfera da start-up» che caratterizza il suo partito, vantandosi del numero di follower su Instagram. I partiti sono alla continua ricerca di social media manager e usano gli influencer per diffondere i loro messaggi. Macron ha invitato all’Eliseo due vlogger di YouTube. In ultima analisi, i nuovi partiti digitali e i movimenti che li hanno generati più che una negazione dell’economia postindustriale sono state sue dirette espressioni: altamente informali, effimeri, riuniti intorno a start-up o imprese mordi e fuggi. Non sorprende che i bassi costi di creazione di questi progetti siano eminentemente compatibili con gli stili di vita mobili della classe media connessa.
I cittadini globali costretti a vagare da un impiego a tempo determinato all’altro trovano più difficile costruire relazioni durature sul posto di lavoro, e trovano un ambiente sociale più affidabile nella cerchia più ristretta della famiglia, degli amici e delle amicizie online. La solidarietà è relegata tra due opposti, quello concreto della famiglia come fondo di garanzia personale e quello astratto dell’agorà digitale che ognuno di noi si costruisce su misura.
Questo elemento della scelta volontaria trova una chiara risonanza nel perenne stato d’animo contestatario divenuto endemico nella politica del mondo contemporaneo. All’apparenza le proteste di Black Lives Matter e di QAnon, come l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, sembrano avere poco in comune. In termini morali sono certamente due universi separati (il primo è un movimento di protesta contro la violenza della polizia e contro il razzismo, il secondo è ossessionato dal complottismo e dalla teoria falsa della frode elettorale negli Stati uniti). Dal punto di vista organizzativo, tuttavia, i due movimenti sono simili: non hanno elenchi di membri, hanno difficoltà a imporre la disciplina ai seguaci e non si formalizzano in organizzazioni. Come sciami vaganti, presentano ai loro aderenti due versioni speculari di eroismo individualista: diventare i guerriglieri antifascisti della zona autonoma di Capitol Hill, oppure l’agente segreto che svela una cospirazione oscura ordita da Washington.
Riprendendo il concetto elaborato da Deleuze e Guattari, il teorico politico Paolo Gerbaudo ha descritto i nuovi movimenti di protesta come «corpi senza organi». Serrati e muscolari, ma senza metabolismo interno, soggetti a una costante costipazione e impotenza. Non è una sorpresa vedere che una forma così fluida di autoritarismo, che consente ai presidenti di cancellare le elezioni e scavalcare i parlamenti, vada a braccetto con le economie di servizi stagnanti di oggi. Un’epoca di contratti di lavoro in continuo cambiamento e di lavoro autonomo sempre più diffuso non stimola legami duraturi all’interno delle aziende: negli ultimi anni, circa il 4% degli americani ha lasciato il lavoro per occuparsi ai propri investimenti in criptovaluta. Al posto del partito di massa è arrivata una curiosa combinazione orizzontale e gerarchica, con i leader che gestiscono il loro gruppetto di lealisti senza mai adottare una linea chiara o una disciplina di partito.
Questo tipo di leaderismo era già riconosciuto da autori come Elias Canetti nella sua opera Massa e potere, originariamente concepito nella Vienna tra le due guerre. Questo classico della saggistica politica è stato scritto in reazione alle grandi rivolte operaie degli anni Trenta. Il movimento operaio tra le due guerre provocò un’aggressiva controreazione di destra che prese la forma del fascismo, il cui punto d’arrivo alla fine è stata l’opposizione tra i due movimenti di massa organizzati del fascismo e del comunismo.
Più che una «massa» in movimento, le truppe di QAnon di oggi e le proteste contro le restrizioni della pandemia assomigliano a sciami: un gruppo che risponde a stimoli brevi e potenti, guidato da influencer carismatici e da demagoghi digitali e che ha la forza di indignare l’opinione pubblica, di pungere qua e là ma poco altro. Chiunque oggi può unirsi a un gruppo di Facebook simpatizzante di QAnon: sui social, del resto, il prezzo di adesione è molto basso e i costi di uscita sono ancora più bassi.
I leader possono naturalmente cercare di dettare una coreografia a questi sciami, usando tweet, apparizioni televisive, o reti di bot russi, ma questa coreografia non evoca alcuna organizzazione durevole. È un cambiamento decisivo ma molto instabile rispetto alla democrazia di massa dei partiti. Mentre i partiti del dopoguerra avevano una squadra affiatata di centrocampisti e difensori, i nuovi partiti populisti sono costruiti principalmente intorno ai fantasisti e ai centravanti. Come sottolinea Gerbaudo, gli «iperleader» contemporanei sono animali mediatici nati.
Non è chiaro come questo populismo sarà incanalato nella nuova era del protezionismo pubblico-privato. Di certo, più l’attività di «governo» viene delegata alle banche centrali, più la politica economica si basa su semplici trasferimenti di denaro e meno i socialisti hanno da offrire in quanto a filosofia alternativa («Vota con i tuoi dollari o euro», sembra essere il mantra del futuro). Finché le banche centrali potranno mantenere determinati livelli di consumo dei cittadini attraverso i trasferimenti di denaro, l’enorme divario di disuguaglianze, la cannibalizzazione dei servizi pubblici e il decadimento delle infrastrutture sociali potranno andare avanti indisturbati. Invece di rinvigorire lo stato di benessere del dopoguerra, la pandemia avrebbe potuto aprire la porta a un «progetto pubblico-privato disinibito», come ha scritto Adam Tooze. La corsa al vaccino è stata un monumento di questa impresa: lo Stato versa denaro mentre le aziende progettano e producono. È vero che questa potrebbe essere la fine del neoliberismo, ma è altrettanto vero che qualsiasi cosa verrà dopo rischia di essere ancora più confusa.
Eppure, la vera lezione dell’era «post-politica» è che non si può alla lunga escludere del tutto dalla sfera pubblica un minimo di riflessione sui fini collettivi. In mancanza di una rinascita delle organizzazioni di massa, questa riflessione può avvenire solo a livello discorsivo, sull’agorà mediatica: ogni evento viene esaminato per il suo carattere ideologico, produce controversie tra argomentazioni e campi sempre più chiaramente delineati sulle piattaforme social, amplificati da media di parte. È un processo che tende a politicizzare quasi tutto, ottenendo però ben pochi risultati. Possiamo definirlo come un periodo di transizione dalla post-politica all’iper-politica, o come il rientro della politica nella società. Tuttavia la nuova iperpolitica si distingue anche per un’attenzione specifica ai costumi interpersonali, per un moralismo accentuato e l’incapacità di pensare la dimensione collettiva della lotta.
Gran parte del mondo dei social appare quello che Mark Fisher definiva «stalinismo senza utopia»: un’etica ascetica con norme altamente giudicanti sull’impegno interpersonale, rigida applicazione di costumi tradizioni e astensione dal libertinismo (tutto ciò oggi è mediato dalle nuove piattaforme digitali), ma senza il calcolo utopico che giustificava la crudeltà del commissario del popolo o del funzionario sovietico.
In questo senso, si può dire che l’«iperpolitica» è quello che accade quando finisce la post-politica, qualcosa che assomiglia al gesto di premere furiosamente sull’acceleratore mentre il serbatoio è vuoto. La domanda su quello che la gente possiede o su che potere ha vengono ormai soppiantate dalla domanda su chi o cosa sono le persone, in un processo che sostituisce gli scontri di classe con un collage di identità e morali.
Niente di tutto ciò basta comunque a cancellare il fatto indiscutibile che la «post-politica» stia finendo. Si è spenta «l’escatologia politica» di cui parlava Ernaux nel 2008. Allo stesso tempo esiste una nuova iper-politica che sembra offrire una debole alternativa alla politica che ci era familiare nel ventesimo secolo. Ernaux lo riconosce alla fine del suo libro, quando invita i lettori a «salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più», mantenendo viva la memoria di un mondo che non può essere recuperato, ma che non è del tutto perso.
*Anton Jäger sta svolgendo un dottorato alla University of Cambridge sul populismo nella storia statunitense. La traduzione è di Riccardo Antoniucci
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