
Dante all’epoca della sua riproducibilità tecnologica
Il Dantedì del 2021 è stato segnato da una versione commerciale e brandizzata dell'opera dantesca. Vale la pena invece de-monumentalizzare Dante con ricerche che ne mostrino i lati più perturbanti
Il 25 marzo 2021, ho atteso tutto il giorno Chiara Ferragni e un suo minimo cenno per Dante: solo dopo, maxima mea culpa, ho capito che la coppia dei Ferragnez era impegnata con la nascita della seconda figlia, avvenuta due giorni prima. Quando ho scoperto che la secondogenita si chiama Vittoria, per un momento ho pensato che i due volessero citare un passaggio di uno dei testi più sofferti di Dante, la lettera VI, indirizzata ai fiorentini, bastione della resistenza contro l’imperatore. In una frase, Dante ricorda i precedenti storici di città che si sono ribellate e sono state schiacciate nel sangue; tra di esse, il caso più amaro è quello di Parma: Federico II costruì di fronte alla città, sotto assedio, una fortificazione in legno che chiamò Vittoria: sebbene nel 1248 i parmensi avessero distrutto la fortificazione, dopo due anni, essi vennero schiacciati – ottennero «dolore da dolore». La minaccia, contro la sua Firenze, è chiarissima.
Ma il passaggio – non l’unico – non è tra quelli canonici, certamente. In questo 25 marzo 2021, dei testi di Dante ha trovato cittadinanza più che altro un florilegio ristrettissimo, limitato a brani da antologia – Paolo e Francesca, la preghiera alla Madonna ecc.: la linea generale, che ha riempito le bacheche di Facebook, è quella dello «spammare un po’ di poesia» – tanto meglio se d’amore. Ma questo corto-circuito tra la figlia dei Ferragnez e il testo della violentissima lettera contro i fiorentini mi ha ricordato quanto Dante sia anche un complesso scrittore del conflitto, e quanto sia ingiusto ingabbiarlo in una visione così univoca e pacificata, che cancella la sua capacità di inventare il futuro e di definire progettualità politiche e culturali arditissime per il suo tempo.
Il 25 marzo 2021 si è celebrato il secondo Dantedì. Le prove generali di questo happening collettivo si erano tenute l’anno passato. Il primo giorno ufficialmente dedicato a Dante, deciso per decreto all’inizio del 2020 dal ministro Dario Franceschini, capitava poco dopo l’inizio del duro lockdown della prima ondata di pandemia di Covid-19. L’evento ci scuoteva mentre eravamo increduli: molte iniziative erano state cancellate e una serie di piccoli eventi venivano organizzati da istituzioni politiche ed educative. In molti sperimentavano con fatica, per la prima volta, come si faceva una diretta sui social e su altre piattaforme. Fu un evento di distrazione in un periodo di sospensione, ma si svolse in sordina, in maniera non eclatante: un felice diversivo rispetto alle immagini angoscianti delle file di salme nei camion di Bergamo. Il secondo Dantedì cade, invece, nel settimo centenario della morte del poeta. Se la pandemia ci ha oramai reso più pratici e disponibili alle iniziative on-line, era anche naturale che il numero di eventi aumentasse esponenzialmente, e che ne aumentasse anche la qualità.
In un acutissimo articolo su L’indice dei libri del mese, il dantista americano Justin Steinberg aveva segnalato, fra altre cose, che il centenario avveniva in momento poco propizio: la pandemia non è ancora dietro le spalle, e molti eventi sarebbero stati cancellati e trasposti sull’etere. Steinberg ne derivava – provocatoriamente – una certa soddisfazione, soprattutto per l’annullamento di eventi accademici che sarebbero stati celebrativi e insipidi. Tutto giusto, ma lo studioso non aveva previsto che ci sarebbe stato il Dantedì. È vero che iniziative più tradizionali sono state cancellate, ma difficilmente, senza il nostro impratichimento agli eventi on-line, si sarebbe potuto assistere a un tale profluvio di iniziative dantesche: maratone di lettura – praticamente dappertutto; mini lezioni di pochi minuti – ne ho fatte anch’io; pillole di commento sul testo dantesco, podcast di durata variabile, per non dire di eventi grandi e piccoli, organizzati dalla grande università, italiana e straniera, alla più piccola pro loco e biblioteca comunale. Una specie di grande sospiro dantesco, condito dalla lettura di Roberto Benigni in prima serata. Dante c’è, il mondo è dantesco.
Tutto bene, dunque? Visto dalla specola dei social e della circolazione dei contenuti on-line, è difficile trovare degli aspetti negativi. Ma è indubbio che abbiamo assistito a un momento fondativo e di passaggio. Sarà difficile, in un futuro auspicabile senza pandemia, non ripetere l’evento, una volta che, come Evento, è così ben riuscito. Il Dantedì sarà in modalità mista, ma il formato della celebrazione, seppure meno intensivo di quello sviluppato in questa occasione particolare, potrà essere cambiato? Non è azzardato pensare che non sarà così. E allora, a caldo, credo sia importante cercare di comprendere dimensioni critiche e implicazioni di questo fenomeno di diffusione di massa di una versione pop della trasmissione di Dante.
Partiamo da un aspetto che non andrebbe mai sottovalutato. Il Dante pop del Dantedì on-line è stato, oggettivamente, un monumento indiscutibile. Lo aveva già detto Stefano Jossa, unica voce critica rispetto all’unanime consenso, puntando a giusto titolo il dito su due grossi limiti dell’operazione. In prima battuta: ricordare Dante un giorno non serve a dimenticarlo tutto il resto dell’anno? Non si innesca un meccanismo parallelo a quello delle giornate della memoria, che concentrano in un giorno solo ciò che – ricordare e aiutare a ricordare – bisognerebbe fare ogni giorno? Gli esperti di Dante, gli insegnanti di letteratura non devono preoccuparsi, soprattutto, di leggerlo sempre, Dante? Tanto più che, come legame non tanto estrinseco alla giornata della memoria, resta anche il fatto che Dante viene ricordato soprattutto come vittima di una condanna ingiusta. E qui mi riallaccio alla seconda obiezione di Jossa: ma il Dantedì, oltre a essere uno spazio di presenzialismo, non è anche la base di una monumentalizzazione-mummificazione di Dante? L’operazione non è banale né tantomeno neutrale, perché l’eroicizzazione di Dante ha fatto parte di un pantheon identitario e nazionale prima come padre della patria rinascimentale, e poi addirittura nazionalistico (e protofascista) durante il Regime, quando nei manuali di scuola non ci si tratteneva dall’identificare il cinquecento, dieci e cinque (D X V), appunto, con il Duce.
In un saggio bellissimo, pronunciato alla radio di Montreal nel 1965, il filologo Gianfranco Contini reagiva anche a questa vulgata pericolosa affermando che, sì, la Divina Commedia era un testo impegnato, ma di un impegno di tipo «linguistico»; c’è da chiedersi come avrebbe reagito l’ex partigiano Contini al fatto che la giornalista che conduce la trasmissione della lettura di Benigni su Rai 2 affermi con commozione: «grazie Benigni, e grazie Dante di farci sentire italiani». Un nuovo Risorgimento e un nuovo nazionalismo? Sembra di sì, se è vero che addirittura il ministro Franceschini ha creduto alla bufale dell’attacco tedesco contro Dante travisando completamente un – certamente bruttino – articolo del critico Arno Widmann che invece affermava che il nostro maggior poeta si era ispirato e aveva trasformato esperienze di scrittura precedenti – niente che nessun manuale di scuola media si sogni nemmeno lontanamente di negare. E pensare che un tempo anche in queste parti d’Italia si era considerato Dante un mezzobusto da mettere tra gli eroi della Riforma protestante e della cultura tedesca…
Forse le cose sono un po’ più complicate. La dislocazione tra identità e cultura oggi non si gioca al di fuori del progetto politico neoliberale, e l’ipotesi che vi propongo è che questo centenario e questo Dantedì siano stati il teatro di una mutazione antropologica – per la ricezione di Dante, ma anche per i suoi interpreti. Sottopongo qui qualche appunto di verifica, sperando che non suoni solo come una provocazione.
Il primo elemento che mi pare significativo è lo spezzettamento dei contenuti dei testi danteschi in porzioni multimediali brevi e spesso riproducibili, dotati inevitabilmente di brand. Questo processo mi pare piuttosto nuovo rispetto a Dante, che è invece l’autore del canone scolastico per eccellenza. Mi spiego: l’appartenenza di Dante (come anche di Manzoni) ai testi che si leggono obbligatoriamente a scuola lo rende oggetto di una fruizione lenta, mediata, basata sul presupposto che questa specifica opera vada filtrata, spiegata, assimilata per essere compresa. Non credo di esagerare se affermo che questo Dante «della lettura lenta» sia un Dante molto diverso da quello che abbiamo visto performato nel Dantedì «da remoto».
Nel 1978 Cesare Cases scrisse un saggio celebre, intitolato Il poeta e la figlia del macellaio e dedicato all’insegnamento della letteratura. Il saggio uscì sulla rivista culturale della Nuova Sinistra Quaderni Piacentini ma venne ripubblicato negli anni Novanta. La disamina di Cases partiva dall’episodio raccontato dal poeta Hans M. Enzensberger nel 1977. La figlia del suo macellaio aveva preso un brutto voto perché a scuola le avevano contestato l’interpretazione di una sua poesia. Lo scrittore ne approfittava per invocare un metodo anti-scolastico, proponendo il momento della lettura come «atto anarchico», che permetta a chiunque di «sfogliare il libro, saltare passi interi, ricavare dal testo conclusioni che il testo ignora, arrabbiarsi con lui, dimenticarlo». Cases prende sul serio l’ipotesi, la mette al vaglio con esperienze di interpretazione collettiva realizzate in quegli anni – una, famosa, a Friburgo, sotto la guida dell’allievo di Contini, il frate Cappuccino Giovanni Pozzi, che metteva in campo la pratica della classe come comunità collettiva di interpretazione. Il punto di vista polemico di Cases, però, arriva più lontano. Il cuore problematico delle ipotesi di insegnamento «antiautoritario» non consiste nell’annullamento del ruolo di mediazione della docenza, ma nella cancellazione dello spazio di incontro/scontro con il testo. In questo spazio, in una processualità lunga e paziente, devono essere immessi elementi di contesto e strumenti di interpretazione. Il declino della Divina Commedia tra le letture scolastiche e la desuetudine dei giovani alla letteratura, secondo Cases, non deriva dall’autoritarismo della lettura che si pratica a scuola. Deriva dal fatto che, da una parte, i figli di papà non ne hanno più bisogno per vivere in società, e dall’altro dal fatto che le figlie dei macellai difficilmente possono conservare delle inclinazioni letterarie in un mondo dominato da un’offerta culturale irrespirabile, pervasa dai media. Cases invitava il giovane insegnante di lettere a far leggere, per intero, più libri possibile. A tutti, anche alle figlie del famoso macellaio. E sosteneva recisamente: «C’è sempre più verità attuale nella parola di Dante che in tutta l’industria culturale».
Se rivolgiamo la nostra attenzione al Dante del 25 marzo del 2021, troviamo in esso questa verità «attuale»? Difficile assentire. Come dicevo, esso è spezzettato e granulare. Certamente, può essere anche visto come una soluzione alla inappetenza dei giovani per la lettura, come avrebbe detto padre Giovanni Pozzi. Ma è vero? È banale affermarlo, ma il Dante pop del Dantedì è qualcosa che non ha a che fare con la lettura, né con la fruizione popolare di Dante. Il 25 marzo è stato ritrasmesso su Rai uno straordinario pezzo di televisione: l’intervista al custode della tomba ravennate che custodisce le ossa dantesche raccolta da Sergio Zavoli in occasione del centenario dantesco del 1965. L’anziano era rimasto in servizio dopo la pensione, per poter custodire queste tormentatissime spoglie – perdute per lungo tempo, nascoste dai frati in un’intercapedine per evitare che venissero riprese da Firenze: una storia appassionante che dimostra la problematicità dell’eredità di Dante – e racconta a Zavoli, con orgoglio e delicatezza, del suo lavoro di difesa del monumento dalle intemperanze e dagli scherzi dei visitatori più giovani. Se dovessi spiegare che cos’è il Dante popolare, mostrerei agli studenti questo servizio dedicato all’altro centenario dantesco, farei l’esempio di quest’uomo semianalfabeta che cita i versi di Dante a memoria, sulla scia di un mito reale che ha percorso la storia dai ciabattini della Firenze del Trecento ai cantori in ottava rima ancora attivi.
Quella cultura popolare si nutriva del mito-monumento, anche dei suoi aspetti identitari; ma a costo di sembrare un antimoderno, non posso non vedere in quella esperienza un elemento decentrato, che sfuggiva alla presa commerciale di brandizzazione di questo Dante del 2021. Un Dante compatibile, un brand fra gli altri, come è il Rinascimento invocato per Eataly e il Made in Italy in generale. Con una novità, che a mio parere è se si vuole ancora più dirompente: l’adesione totale (o quasi) degli studiosi (in particolare i più giovani) a questa fenomenologia culturale. Il dato andrà osservato con attenzione, per capire se e quanto esso costituisca una vera e propria mutazione antropologica e generazionale dello studioso di letteratura e del suo rapporto con l’industria culturale neoliberale.
Resta un problema, non piccolo, sullo sfondo. Quanto di Dante c’è in questo brand dantesco? Molto poco, direi. Ma soprattutto, mi pare che esso rischi di partecipare a una granularizzazione dei contenuti culturali – ne costituisce solo, in altri termini, una variante «dantesca» – che sono oggi non un ausilio ma una difficoltà e una minaccia rispetto alla trasmissione e all’incremento della capacità di lettura e di comprensione. Vale la pena, a costo di sembrare accademici, di continuare a de-monumentalizzare Dante con ricerche che ne mostrino i lati più perturbanti, anche distanti da noi ma decentrati; ed eventualmente di proporre questi percorsi come una sfida lunga e difficile, a scuola ma anche nei laboratori di lettura collettiva più avanzati. C’è più verità, attuale e inattuale, in questo Dante difficile che in tutti i brands neoliberali.
*Antonio Montefusco insegna letteratura latina medievale all’Università Ca’ Foscari. Ha curato Italia senza nazione (Quodlibet, 2019) e, con Giuliano Milani, Le Lettere di Dante (De Gruyter, 2020).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.