
Decostruire l’immaginario maschile della chiesa
Il caso di Anne Soupa, auto-candidatasi come vescova della diocesi di Lione, ha aperto in Francia un dibattito e una mobilitazione sul ruolo delle donne nella chiesa cattolica che potrebbe lasciare un segno
Il catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1577, non lascia spazio a dubbi:
Il Signore Gesù ha scelto uomini [viri] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile.
Il magistero chiarisce la natura puramente maschile dell’Ordinazione: tra le più recenti dichiarazioni che rendono definitiva l’indicazione basti ricordare la dichiarazione Inter Insigniores della Congregazione della Dottrina della Fede (15 ottobre 1976), la lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis (1994) di Giovanni Paolo II e il documento A proposito di alcuni dubbi circa il carattere definitivo della dottrina di Ordinatio Sacerdotalis (29 maggio 2018). La storiografia del rapporto tra il genere femminile e Chiesa esamina già da tempo fonti come la lettera di Papa Gelasio I (V secolo) o il Decretum Gratiani (XII secolo), mentre, a livello teologico, sono presi in considerazione gli Atti degli Apostoli e le lettere paoline. In generale, si considera la persistenza di una lettura antropologica della donna come «mas occasionatus», imperfetta quando non inferiore a livello fisiologico, morale e giuridico in virtù della gerarchia creazionale che la faceva emergere dalla costola di Adamo. Per arrivare a comprendere appieno la vicenda di cui è protagonista la teologa Anne Soupa è indispensabile fare alcuni passi nella storia.
Donne e ordinazione nel cattolicesimo
Il documento dell’ottobre 1976 del fu Sant’Uffizio è centrale: formulato dalla congregazione incaricata al più alto livello di definire le declinazioni corrette della fede, seguiva lo scambio del 1975 tra Paolo VI e l’arcivescovo di Canterbury Frederick D. Coggan. Nella Chiesa anglicana, infatti, era emerso il primo dibattito pubblico di alto livello in una dimensione ecclesiale nazionale e internazionale circa la possibile estensione dell’ordinazione alle donne. Tra le confessioni cristiane, sino agli inizi del Novecento, erano solo quaccheri, metodisti e alcune declinazioni di battisti ad accettare un sacerdozio femminile.
La Comunione anglicana aveva al suo interno dal 1930 un Anglican Group for the Ordination of Women to the Historic Ministry che si era riunito per la prima volta nel corso della Lambeth Conference of Anglican Bishops. Perché proprio nel Regno Unito? A Londra, sin dal 1913, la Church League for Women’s Suffrage aveva inserito le proposte del movimento suffragista nell’istituzione ecclesiale: dell’esecutivo della Church League erano parti attive Florence Canning, Constance Lytton, Emily Wilding Davison, le personalità più importanti del movimento, che era riuscito a costruire una inedita «intersezionalità ecclesiale» grazie al sostegno del teologo e sacerdote Clarence Hinscliff. L’esigenza di coniugare l’uguaglianza spirituale alla condivisione della sacra gerarchia era cresciuta nel contesto anglosassone, in particolare, negli anni Sessanta, grazie a pubblicazioni come Women’s Work in the Church of England. Il gruppo di pressione, poggiando su una rete sempre più vasta di vescovi e sulle attività del Movement for the Ordination of Women dai tardi anni Settanta, sostenne le ordinazioni sacerdotali femminili nelle Chiese episcopaliane in Canada e negli Stati uniti, anche in aperto conflitto con l’episcopato anglicano europeo. Frederick Coggan, che aveva cercato un parere da parte di Paolo VI in forza delle aspettative ecumeniche indotte dalla commissione congiunta di riconciliazione cattolico-anglicana nominata dalle due Chiese, dovette incassare la dura replica di Montini:
Vostra Grazia è naturalmente ben al corrente della posizione della Chiesa Cattolica su questa materia. Essa sostiene che non è ammissibile ordinare donne al sacerdozio, per ragioni veramente fondamentali. Queste ragioni comprendono: l’esempio, registrato nelle Sacre Scritture, di Cristo che scelse i suoi Apostoli soltanto fra gli uomini; la pratica costante della Chiesa, che ha imitato Cristo nello scegliere soltanto degli uomini; e il suo vivente magistero che ha coerentemente stabilito che l’esclusione delle donne dal sacerdozio è in armonia con il piano di Dio per la sua Chiesa. La commissione congiunta tra la Comunione Anglicana e la Chiesa Cattolica, che è stata operante sin dal 1966, ha il compito di presentare a tempo debito un rapporto finale. Noi dobbiamo con rincrescimento riconoscere che il nuovo corso preso dalla Comunione Anglicana nell’ammettere le donne al sacerdozio ministeriale non può mancare di introdurre in questo dialogo un elemento di grave difficoltà del quale tutti coloro che sono coinvolti nel dialogo dovranno seriamente tener conto.
La Chiesa poteva al massimo auspicare, come riportato in Inter Insigniores (VI) che «le donne cristiane prendano pienamente coscienza della grandezza della loro missione: il loro ruolo sarà oggigiorno determinante sia per il rinnovamento e l’umanizzazione della società, sia per la riscoperta, tra i credenti, del vero volto della Chiesa». Di quale ruolo si trattava, nel contesto dell’emersione di una radicalità femminista? Una radicalità, peraltro, cui non era estraneo il cattolicesimo: se la figura emblematica della prima «catto-femminista italiana», la biblista Elisa Salerno, aveva identificato nell’esegesi delle Scritture la chiave di volta per una trasformazione della lettura antropologica della donna e quindi del ruolo del genere nella Chiesa, la stagione conciliare aveva amplificato i contributi teologici delle donne e sulle donne. La presidente della St. Joan’s International Alliance, Magdeleine Leroy-Boy, aveva presentato alla commissione per l’apostolato dei laici una proposta pubblica per un diaconato aperto alle donne. Nel 1964 era stato pubblicato lo studio We won’t keep Silence Any Longer! Women Speak Out to Vatican Council II a cura delle giovani teologhe Theresia Münch, Iris Müller, Ida Raming, Rosemary Lauer e Mary Daly: una dura critica dell’antropologia di origine scolastica nel solco di Jean Daniélou, Yves Congar, Karl Rahner. L’italiana Adriana Zarri, autrice de La Chiesa nostra figlia (1962), apriva la sfida al clericalismo, mentre il 1964-1965 vedeva la partecipazione di 23 donne come uditrici al Concilio, che la storica Adriana Valerio ha chiamato Le Madri del Concilio. Mary Daly nel 1965 apriva la stagione feconda della teologia femminista, che trova una sua grande esponente in Elisabeth Schüssler Fiorenza. Gli anni Sessanta e Settanta, pertanto, avevano segnato l’apertura di un dibattito di un certo peso, in cui Paolo VI aveva marcato dure distanze. Nella preghiera dell’Angelus del 30 gennaio 1977, infatti, aveva distinto un «femminismo sano e religioso» da un altro «intemperante», che non riconosceva la distinzione naturale tra i sessi e la confondeva, a suo avviso, con un principio di subalternità: «disparità di funzione non comporta diversità di dignità nell’ordine oggetto della grazia, e quindi menomazione nella gerarchia della carità e della santità, dove la Donna, e Maria lo dimostra, può avere i primi posti, e non solo passivi, ma anche attivi nell’esercizio di tante virtù con larghissimo raggio benefico e sociale».
E Francesco?
Se Giovanni Paolo II ha precisato un quadro già dato, esiste una potenziale «diversità» del pontificato di Francesco? Bergoglio, pur confermando le indicazioni magisteriali, pare usare una certa prospettiva ecclesiologica scaturita dal Concilio per spingere nel senso di una declericalizzazione della Chiesa in cui, come riscontro, inserire una più forte presenza femminile dotata, stavolta, di concreto potere di gestione e co-decisione ecclesiale. Una sfida parziale e neanche facile, ma che almeno prende in carico una questione, pur confermando la continuità magisteriale. Come definisce Francesco il contributo delle donne alla vita della Chiesa? Una risposta interessante è nel discorso del 7 febbraio 2015 alla plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura sul tema Le culture femminili:
Sono convinto dell’urgenza di offrire spazi alle donne nella vita della Chiesa e di accoglierle, tenendo conto delle specifiche e mutate sensibilità culturali e sociali. È auspicabile, pertanto, una presenza femminile più capillare e incisiva nelle Comunità, così che possiamo vedere molte donne coinvolte nelle responsabilità pastorali, nell’accompagnamento di persone, famiglie e gruppi, così come nella riflessione teologica.
Oltre alle numerose nomine femminili ai vertici della Curia romana, uno snodo centrale dell’impegno pubblico di Francesco in favore delle donne pareva essere la commissione di studio sul diaconato femminile. Istituita la prima volta nel 2016 dopo un incontro con l’Unione Internazionale delle Superiori Generali, aveva concluso i suoi lavori nel 2019 con un sostanziale nulla di fatto, per poi essere istituita una seconda volta nell’aprile 2020 sotto la presidenza del card. Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila. Ben cinque sono state le donne coinvolte nella commissione sui dieci membri – atto di novità rispetto alla precedente composizione. Tra tali docenti, segnaliamo la francese Anne-Marie Pelletier, linguista di formazione, docente all’università Paris X e a Marne-la-Vallée, studiosa del Cantico dei Cantici ed insignita del Premio Ratzinger nel 2014. Pelletier aveva fortemente contestato l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che condannava la contraccezione ed apriva una faglia conflittuale con molte donne cattoliche: nella consapevolezza che il metodo pontificio non può che attestarsi su un paziente ed equilibrato discernimento, Pelletier individuava nell’incapacità di ascoltare, comprendere ed assumere la voce delle donne il nodo problematico dell’operato di Montini.
Lione: una dimissione diversa dal solito
Veniamo quindi alla vicenda che ha generato la candidatura di Anne Soupa. Nel marzo 2020 Papa Francesco accetta le dimissioni canoniche dalla direzione pastorale della diocesi di Lione del card. Philippe Barbarin. Il prelato era stato assolto il 30 gennaio in appello dall’accusa della mancata denuncia degli abusi sui minori compiuti da Bernard Preynant, ex sacerdote della sua diocesi. Pur avvenuti prima del 1991 e del suo insediamento canonico a Lione (2002), i fatti erano noti ai vertici diocesani e all’arcivescovo. È il senso del mancato ascolto da parte del prelato il punto di partenza di una battaglia legale che le vittime degli abusi sessuali avevano scelto di rivolgere anche contro il vescovo, dopo la condanna di Preynant. Una vicenda che, a partire dal libro della giornalista Marie-Christine Tabet (2017) aveva spinto François Ozon a scrivere e girare nel 2018 il film Grâce à Dieu, una pellicola che traeva spunto dalla frase infelice pronunciata da Barbarin: «La maggior parte dei fatti, grazie a Dio, sono prescritti, ma alcuni forse no». L’opinione pubblica francese era già fortemente sensibile al tema degli abusi sessuali sui minori e sulle donne consacrate da parte di esponenti del clero, tanto che la Conférences des évêques de France e la Conférence des religieux et des religieuses de France, nel febbraio 2019, avevano nominato una commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa a partire dal 1950, chiamando al suo vertice l’ex vicepresidente del Consiglio di Stato Jean-Marc Sauvé. Per comprendere la portata del fenomeno, basti pensare che il 17 giugno 2020 un bilancio provvisorio dei lavori della commissione aveva restituito oltre 5.000 testimonianze, 3.000 vittime e circa 1.500 carnefici, con ⅔ dei casi risalenti al trentennio 1950-1980.
In tale contesto, le dimissioni di Barbarin avevano il senso di stemperare il clima di pesante sospetto che si stendeva sul singolo vescovo e sull’episcopato: ecco perché questo percorso ha una sua specificità ed ecco perché l’auto-candidatura della teologa Anne Soupa, presentata formalmente alla nunziatura apostolica di Francia il 25 giugno di quest’anno, assume un ruolo centrale, per quanto evidentemente provocatorio, in forza delle norme canoniche.
Chi è Anne Soupa?
Teologa, biblista, scrittrice, Anne Soupa nasce nel 1947 a Parigi in una famiglia della Resistenza francese. Laureatasi a Sciences Po nel 1968, studia diritto privato a Paris-Nanterre e teologia all’Université Catholique de Lyon, per poi conseguire il dottorato in teologia presso l’Institut Catholique de Paris. Lavora per la Bayard Presse e poi per Cerf, casa editrice di riferimento dei domenicani, dove cura commenti di esegesi attraverso la rivista Biblia. Balza agli onori delle cronache a seguito di una sconsiderata dichiarazione rilasciata il 6 novembre 2008 dal card. André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, a Radio Notre-Dame: rispondendo a una domanda relativa al ruolo delle donne nella Chiesa, Vingt-Trois aveva detto che «La cosa più difficile è avere donne che siano formate. La questione non è avere una gonna [jupe], ma di avere qualcosa in testa».
Anne Soupa, assieme a Christine Pedotti, intellettuale di formazione storica e politologica, giornalista della storica rivista Témoignage Chrétien, non solo aveva deferito il prelato all’Officialité, il tribunale ecclesiastico di Parigi, per affermazioni sessiste, ma aveva fondato il Comité de la Jupe. Dopo una marcia civica di cattolici nel 2009, la rete aveva promosso un’inchiesta nelle parrocchie parigine per comprendere il ruolo delle donne. André Vingt-Trois, all’epoca dei fatti capo dell’episcopato francese, dopo le mobilitazioni di cattolici di altre diocesi, avrebbe poi fatto un passo indietro, dichiarando la «goffaggine [maladresse] dell’espressione». Ma il dado era tratto.
Superando il paradigma della complementarietà tra donna e uomo caro all’antropologia cattolica, il Comité si è intestato una dura battaglia per la parità che ha visto iniziative eclatanti: un sinodo interamente femminile nel 2012 e un’iniziativa che nel 2013 contestava il conclave come strumento di dominazione maschile all’interno della cattolicità. Il Comité ha stimolato, a partire dalle questioni di genere, sia una riflessione ecumenica che un approfondimento ecclesiologico interno, da cui è poi scaturito il Comité des baptisé-e-s francophones. Anne Soupa è sempre al centro di tali iniziative militanti, tanto che nel 2010 firma con Pedotti il libro Les pieds dans le bénitier e nel 2012 il saggio Dieu aime-t-il les femmes?. Bisogna precisare che sia Soupa che Pedotti non fanno parte di gruppi della sinistra socialista o alternativa d’Oltralpe: se la prima era elettrice di Nicolas Sarkozy nel 2002, la seconda ha sempre espresso una certa preferenza per deuxième gauche non statalista, anti-autoritaria e democratica, optando anche per un sostegno al centrista Bayrou. Parliamo quindi di personalità che emergono da un milieu innervato di propositi innovatori circa la dimensione ecclesiale, ma che non si sono distinte per militanze radicali o per la condivisione dei percorsi del femminismo cattolico successivi al Concilio, pur arrivando a simili conclusioni. L’approccio generale è «Non andarsene [dalla Chiesa], non tacere [nella Chiesa]»: contestare un immaginario globalmente maschile usando ogni strumento, pur provocatorio, interno alla vita ordinaria della Chiesa, stimolando la presa di coscienza e parola da parte di un segmento ampio di credenti. Da qui la candidatura.
Provocatrice o antesignana?
Alcuni diranno che questo gesto è folle, ma la cosa folle è che appaia folle quando non lo è. Non esiste che un solo modello di vescovo, quello di un uomo celibe, anziano e vestito di nero? Peraltro, che guadagno ci sarebbe nell’offrire altri visi a questa funzione?
Con queste parole, il 25 maggio 2020, Anne Soupa consegna la propria candidatura formale alla nunziatura apostolica di Francia. Un processo estraneo al diritto canonico, che prevede la definizione informale da parte del diplomatico pontificio di una terna di nomi da sottoporre alla Santa Sede, poi chiamata alla nomina finale. Nelle presentazioni pubbliche della propria candidatura, Soupa chiarisce il suo intento: la messa in discussione a livello pubblico, in coincidenza con un passaggio di funzioni tanto rilevante, dell’incrocio tra la questione del ministero sacerdotale ordinato per le donne e il tema del rapporto di potere intra-ecclesiale tra i generi, che è anche questione di governo pastorale. La vicenda, oltre all’ovvia presenza di dichiarazioni pro e contro e di silenzi, ha avuto e ha tutt’ora il pregio di sviluppare due fenomeni. Anzitutto, una presa di parola rinnovata, accolta anche sui canali pubblici e di informazione della Chiesa francese: il giornale La Croix, la più autorevole testata editoriale cattolica, il 5 giugno ha ospitato l’appello Imaginer l’Eglise de demain, sottoscritto da Monique Baujard, Véronique Fajet, Marie Mullet Abrassart, Véronique Prat, Dominique Quinio. L’appello rilancia la condivisione concreta e paritaria di responsabilità tra uomo e donna come soluzione alla combinazione di abusi che abbracciano la sfera sessuale, le coscienze e le prassi di potere:
Noi siamo come prigionieri del nostro immaginario. Un immaginario, modellato nei secoli, dagli uomini e per gli uomini, bisogna riconoscerlo. La Scrittura, l’interpretazione dei fatti e della storia, la teologia, il governo dell’istituzione, la predicazione: tutto questo è stato appannaggio esclusivo degli uomini nel corso dei secoli. In tali condizioni, non è ovvio che uomini di Chiesa decidano spontaneamente di condividere tali responsabilità con le donne. Come non vedere che la teologia può essere messa al servizio di uno statu quo?
L’esempio positivo posto in evidenza è il sinodo della Chiesa cattolica in Germania: spazio di discussione e luogo di decisione normato in termini canonici, ha visto un percorso di condivisione interno al laicato e al clero, approdato poi a una discussione generale capace di dispiegare articolate discussioni su morale sessuale, ruolo delle donne, forme e prassi del governo pastorale, celibato sacerdotale. Il cammino ecclesiale tedesco (Der Synodale Weg) ha una serie di caratteri interessanti, che lo rendono oggetto di dibattito transnazionale sin da quando, nel marzo 2019, l’episcopato germanico guidato dal card. Reinhard Marx aveva deciso di intraprendere un sinodo in quattro assemblee paritarie con delegati laici del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi, da iniziare a gennaio 2020 e concludere nel 2021. Il cammino sinodale è stato aspramente criticato da prelati come il card. Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Colonia, e duramente contestato dai fautori italiani di un neo-conservatorismo identitario come l’ex vaticanista Aldo Maria Valli, il prof. Roberto De Mattei della Fondazione Lepanto e l’ex nunzio Carlo Maria Viganò, protagonista, in un incognito malamente malcelato, di un simpatico quanto poco numeroso presidio anti-sinodale a Monaco di Baviera, snodo dei rapporti tra i neo-conservatorismi delle due sponde dell’Atlantico, con contatti presso gli ambienti suprematisti e identitari di Steve Bannon. La Santa Sede ha colto con attenzione l’intraprendenza tedesca: sia il card. Marc Ouellet, prefetto della congregazione dei Vescovi, che mons. Filippo Iannone del pontificio consiglio per i testi legislativi, hanno esaminato la validità giuridica e canonica delle eventuali decisioni sinodali, nel timore di dover fronteggiare possibili assunzioni circa ministerialità femminile, morale sessuale, celibato sacerdotale, pur a maggioranza qualificata dell’episcopato.
Il passaggio sul sinodo tedesco è decisivo per chiarire il quadro materiale in cui si muove l’operazione di Anne Soupa: nella sua ottica, solo attraverso una presa di parola pubblica, dirompente ma assolutamente interna alla Chiesa, è possibile rompere il velo di silenzio. Da qui la campagna di sostegno Pour Anne Soupa capace di raccogliere oltre 17.000 sottoscrizioni, ma soprattutto l’invito della teologa a tutte le altre donne della Chiesa è quello di prendersi gli spazi, occupare i luoghi di decisione, sviluppare iniziative interne con una proiezione pubblica, candidandosi alla ministerialità. Altre sette donne del collettivo Toutes Apôtres! hanno accolto l’invito di Anne Soupa, offrendo le proprie candidature nel giorno della festa di S. Maria Maddalena, e, tra queste, c’è Sylvaine Landrivon, che Le Monde del 29 luglio ha riferito essere destinataria di gravi minacce di morte. Dopo settimane di imbarazzato silenzio, la testata nazionale ha inoltre riportato che mons. Celestino Migliore, nunzio apostolico in Francia, nel corso di settembre svolgerà alcune audizioni formali, individuali ma discrete con almeno quattro delle sette candidate. Un passo circospetto e certamente timido, probabilmente più legato all’esigenza di placare gli animi, ma non scontato né incapace di sviluppare conseguenze, sia per i precedenti nelle prassi canoniche che nella decostruzione e ricostruzione di un immaginario, proprio nel solco – spirituale e politico – dell’appello del movimento Toutes Apôtres.
L’idea della rottura del soffitto di cristallo propugnata da Anne Soupa ha aspetti numerosi, complessi, non facili da metabolizzare né per la dottrina né per il corpo ecclesiale. Anche nell’ambito delle letture progressive del ruolo della donna nella Chiesa, di cui è protagonista la già citata Anne-Marie Pelletier, la battaglia preferenziale pare essere quella della declericalizzazione: concorrere per un ruolo storicamente affermatosi come maschile (la successione episcopale) significherebbe renderli tanto desiderabili da dimenticare l’impegno per affermare l’uguaglianza battesimale tra i generi e per mettere a disposizione delle religiose il diaconato, anche per sostenere l’impegno di una struttura ecclesiale talvolta rarefatta, come in Amazzonia. Se, quindi, Pelletier è fautrice di una visione del potere come diakonia e servizio, riconoscendo la difficoltà materiale di un equilibrio dei generi rispetto alla ministerialità, Soupa insiste sulla questione del potere e dei suoi luoghi di esercizio reale, indissociabili dal concetto di servizio in comunità: il contrasto interessante tra tali due letture è emerso in modo plastico nella doppia intervista concessa dalle intellettuali al sito svizzero Cath-Info dell’11 giugno 2020.
Tuttavia, senza la candidatura provocatoria all’episcopato, tale argomento sarebbe rimasto a disposizione degli addetti e delle addette ai lavori o immagazzinato nelle retrovie e nei comodi dimenticatoi del dibattito ecclesiale. Anne Soupa, invece, pur nei multipli esiti possibili della vicenda e nelle sfumature del movimento che sostiene la sua candidatura, ha avuto il coraggio di mettere pubblicamente il dito nell’occhio, salda nella dimensione ecclesiale proprio per porre la contraddizione a partire dal proprio corpo e dalla propria storia. Solo lo sviluppo del dibattito ci consentirà di comprendere se Anne Soupa sarà stata mera ma indispensabile provocatrice oppure antesignana di un ancor più strutturato dibattito delle donne e sulle donne cattoliche, in aperta e pubblica sfida di ciascun uomo, esponente del clero o del laicato.
*Ettore Bucci, Perfezionando in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è cultore della materia in storia del pensiero e delle istituzioni politiche presso l’Università di Pisa e membro del Centro Universitario Cattolico della Conferenza Episcopale Italiana.
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