Defascistizzare Dante
La figura di Dante è ancora oggi intimamente compromessa col fascismo. Ciò avviene anche perché la sua visione utopistica dell'Italia è stata trasformata in nazionalismo
Quando tornai in Italia un anno fa mi recai per una visita medica nello studio di un mio zio ai Parioli. Incorniciati con cura, fra i diplomi di specializzazione in dermatologia, spiccavano due manifesti storici dell’Italia fascista. Una prima pagina de La Domenica del Corriere del 18 gennaio 1931 commemorava «la gloriosa trasvolata atlantica» del ministro dell’aeronautica Italo Balbo accolto fra tricolori sventolanti a Rio de Janeiro. E un manifesto a lettere alte e squadrate celebrava la «Crociera aerea decennale» Roma-Chicago del 1933 sullo sfondo di una statua dal profilo inconfondibile. Intanto Carlo si preparava ad asportarmi un ascesso che non gli piaceva. Prima di incidere iniziò a declamare con compiaciuta solennità:
Per me si va ne la città dolente,
Per me si va ne l’etterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente…
Mio zio aveva imparato questi versi dell’Inferno nella scuola italiana del dopoguerra. Sebbene il regime fosse caduto da un decennio, in quegli anni come adesso il sistema scolastico continuava a portare l’impronta della riforma Gentile del 1923, che rese la Commedia di Dante lettura obbligatoria e materia dell’esame di stato per tutti gli studenti degli ultimi tre anni della scuola secondaria. Definita da Mussolini «la più fascista» delle sue azioni di governo, la riforma Gentile informa tuttora la scuola italiana. Per questo motivo, la storia di come nel nuovo millennio la poesia di Dante si possa trovare ad adornare uno studio medico di Roma Nord fianco a fianco a due manifesti di propaganda fascista è anche un po’ la storia irrisolta dell’Italia fascista e della sua defascistizzazione mancata. Il presente articolo, scritto nel settecentenario della morte del poeta e a quasi un secolo dalla marcia su Roma, racconta questa storia. È proprio in occasione dei festeggiamenti nazionali del centenario e del Dantedì, istituito per decreto e celebrato con retorica nazionalista che Antonio Montefusco ha analizzato sulle pagine di Jacobin Italia, che occorre riflettere sull’uso che si è fatto della figura di Dante, più che della sua poesia, nella storia d’Italia; e su come questo uso e questa storia siano ancora oggi intimamente compromessi col fascismo.
Può sembrare inoffensivo, e al massimo un po’ ridicolo, affermare che «Dante ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia», come dichiarò il ministro Dario Franceschini istituendo il primo Dantedì del 25 marzo 2020. Tuttavia è importante chiedersi chi sia esattamente questo collettivo «noi» che Dante dovrebbe «tenere insieme», chi abbia la parola sulla costruzione di una «nostra» identità per mezzo di un poeta medievale, e chi ne sia escluso. Il fascismo diede una risposta precisa a questo interrogativo. Movimento egemonico qual era, si arrogò il diritto di celebrare un Dante padre della patria, eroico, virile, autoritario, nazionalista, antisemita, amante dell’ordine e della legge; a scapito di altre visioni del poeta passate e contemporanee che pure erano possibili. Perché di conflitto di visioni si tratta. L’inno del partito fascista Giovinezza (de facto l’inno del Regno nel ventennio) fu emendato dopo la marcia su Roma per includere i versi «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Ma è lecito chiedere se al fascismo interessasse veramente conoscere ciò che Dante immaginava o mirasse solamente a controllare come Dante fosse immaginato.
Dante senza Italia
La figura di Dante fu una fonte di imbarazzo nazionale assai più a lungo di quanto sia stata motivo di orgoglio. Negli anni dopo la sua morte, la Commedia si diffuse rapidamente con grande successo popolare ma i gusti letterari mutarono altrettanto rapidamente. Con studiata indifferenza, Petrarca prendeva le distanze dai tanti sciocchi e fanatici sostenitori della Commedia («la gente incolta nelle osterie e nelle piazze») e giurava di non averne mai posseduto una copia. Due secoli dopo, l’umanista Pietro Bembo ostentava lo stesso snobismo preferendogli Petrarca, più imitabile e di certo meno politico per chi, come Bembo, mirava al cardinalato. Altri due secoli, e Voltaire affermava che in Europa Dante non lo leggeva più nessuno perché era pieno di allusioni a fatti ormai dimenticati. Anzi, ironizzava Voltaire, la sua reputazione era proprio dovuta al fatto che non lo si leggesse; in caso, se ne imparavano a memoria una ventina di versi che bastavano a risparmiarsi la pena di esaminare il resto.
L’Europa post-rivoluzionaria cambiò radicalmente la fortuna di Dante. Si cita spesso il dato che nella prima metà dell’Ottocento si stamparono in Europa più di 180 edizioni della Commedia, circa cinque volte quelle stampate nell’intero Settecento. Questo dato non significa necessariamente che se ne conoscessero più versi che all’epoca di Voltaire, né tantomeno della nostra. Ciò che è certo è che la vita mitologizzata di Dante, più ancora della sua poesia, acquistò una notevole risonanza personale e collettiva trasformandosi nella fonte di ispirazione di una specifica sensibilità prima romantica e poi risorgimentale. Il pioniere di questa trasformazione, in Italia, fu l’aristocratico Vittorio Alfieri, che aveva simpatizzato con le richieste di libertà della Rivoluzione francese salvo poi prendere le distanze dal giacobinismo. Per Alfieri, Dante costituiva il modello etico di uno scrittore libero, autonomo, assetato di verità e giustizia. L’esilio di Dante, in particolare, si prestava alla costruzione dell’identità alfieriana di letterato cosmopolita, esule volontario in nome della propria libertà individuale e in polemica con l’asfittico e provinciale regno sabaudo che la soffocava. Il fatto stesso che Dante fosse letto poco era per Alfieri prova del fatto che era un «tuon[o] di verità’, esempio di quegli ‘scrittori del vero, che se […] non nacquero liberi, indipendenti vissero almeno, e non protetti da nessuno» (Del principe e delle lettere, 1786).
Fu un grande ammiratore di Dante e di Alfieri a codificare e diffondere questa nuova visione di Dante esule orgoglioso ma vulnerabile. Anche Ugo Foscolo era attirato dal potenziale del precedente dantesco per la costruzione della propria identità di letterato ed esule politico a Londra. Il ritratto che ne dipinse Foscolo, in innumerevoli saggi e versi memorabili, poneva infatti l’accento, da una parte, sulla forza morale «da repubblicano per nascita, da aristocratico per parte, da statista e guerriero» del Ghibellin fuggiasco davanti ai potenti; dall’altra, sulla vulnerabilità, al contempo personale e politica, dell’esule «forzato di ramingare di città in città, come uomo che, spogliata tutta vergogna, si pianta sulla pubblica via, e, stendendo la mano, Si conduce a tremar per ogni vena». Foscolo non aveva dubbi: la nuova popolarità di Dante era dovuta alla svolta epocale delle «ultime rivoluzioni» che avevano sviluppato nuovamente il gusto per letture politiche e ispirato la composizione di «poemi più atti a far risorgere lo spirito pubblico in Italia» (Parallelo fra Dante e Petrarca, trad. 1824).
Era inevitabile che le aspirazioni nazionalistiche risorgimentali trovassero terreno fertile nel Dante di Alfieri e Foscolo, costruendoci un padre dell’Italia che ancora non c’era, che andò poi a formare la base del Dante padre dell’Italia unita. Come ha scritto Maurizio Isabella nell’Atlante culturale del Risorgimento, «la letteratura patriottica del Risorgimento trasformò la storia stessa d’Italia in una serie successiva di spatriamenti, in una galleria di figure eroiche esiliate». Questa genealogia mitologizzata aveva il suo capostipite in Dante, passando per Foscolo, per Mazzini. Per chi pativa le conseguenze della lotta contro i Regni in cui era frazionata l’Italia pre-unitaria, «porsi al culmine di tale genealogia di esuli diventava strumento di legittimazione per la propria condizione, di dignità per il proprio status, di consolazione per il proprio senso di sconfitta e perdita». Il mito dell’esilio dantesco si prestava doppiamente al nation-building a seconda che fosse orientato al passato o al futuro. Permetteva da un lato di ritrovarsi in una comunità ideale di esuli per chi materialmente aveva perduto la propria terra a causa delle persecuzioni politiche; dall’altra si prestava alla costruzione di una comunità politica futura su base nazionale.
Dante di Stato
Il tratto fondamentale del nazionalismo dei patrioti che si erano ispirati a Dante era proprio il suo carattere utopistico, il fatto che fosse un progetto volto a un’azione futura incompiuta. Foscolo non vide mai l’Italia unita e morì esule a Londra; Mazzini la vide ma da repubblicano rifiutò un seggio nella Camera dei Deputati del Regno, e fu altrettanto perseguitato, scegliendo la via dell’esilio. Per gli intellettuali della stagione risorgimentale Dante aveva offerto un modello di forza etica e una comunità immaginaria che ancora trascendeva la comunità politica. Ma quando il progetto utopistico fu realizzato, quando l’Unità politica si manifestò nella sua concretezza quotidiana, Dante non fu più poeta degli esuli ma divenne tutt’a un tratto un altro degli strumenti con cui il potere politico governava. Si eressero a Dante statue e si intitolarono piazze. Il poeta di chi era stato vittimizzato dal potere fiorentino e papale, reso fuggiasco e marginale, fu posto al centro delle città come simbolo dello Stato.
Era inevitabile che il ruolo radicale della figura di Dante declinasse quando il mito dell’esilio fu svuotato della sua concretezza e ridotto a mero simbolo retorico. Unita l’Italia, un rivoluzionario come Mikhail Bakunin inveiva contro l’uso nazionalistico che Mazzini aveva fatto del poeta. In una lettera ai compagni italiani, Bakunin elencava il suo nome fra i miti sfruttati cinicamente nella formazione di uno Stato-nazione in conflitto ideale e materiale con lo spirito internazionalista della lotta di classe: «Che rappresenta effettivamente questo Stato per il popolo? Perché deve esso amarlo e sacrificargli tutto? […] Mazzini rispondeva con i paroloni: ‘Patria data da Dio! Santa missione Storica! Culto di sepolture! Ricordi solenni di Martiri! Lungo e glorioso sviluppo di tradizione! Roma antica! Roma papale! Gregorio VII! Dante!’» (19–28 ottobre 1871). Lanciarsi contro l’uso propagandistico di Dante tornò di moda fra gli intellettuali del Regno. Disgustato dalla monumentalizzazione e mummificazione di Dante intrapresa dalla cultura del Regno, Filippo Tommaso Marinetti lo attaccava in chiave anticonformista, antiaccademica, e futurista nel suo manifesto La Divina Commedia è un verminaio di glossatori (1917).
Negli stessi anni, tuttavia, ai margini della penisola dove l’utopia non era ancora realizzata, l’irredentista triestino Scipio Slataper poteva ancora riconoscere l’importanza storica ed emotiva che Dante aveva avuto quando l’Italia unita ancora non esisteva: «Oggi si fa bene a ridere di Dante precursore di Mazzini, ma nel ’48 chi ci rideva era in fondo uno che non sapeva vivere le necessità storiche del suo tempo» (La Voce, 9 Dicembre 1909). Nei margini della penisola, dove l’utopia rimaneva utopia, Dante poteva ancora avere quel significato. Un conto era stato erigere una statua a Dante nella Firenze capitale del Regno nel 1865; un altro era innalzarne la statua nella Trento austriaca del 1896. Slataper commentava sul senso di quel monumento: «Tutti sanno cosa significhi».
Dante era a un divario: da una parte era stato il simbolo dell’idealismo, delle speranze, e delle ansie risorgimentali per una patria da creare; dall’altra era diventato lo strumento retorico dello Stato liberale che l’aveva incarnata tradendone le aspettative più alte. Fu tra queste delusioni e polemiche che il fascismo mise mano a Dante. Nel momento in cui si impadronì del potere, lo Stato fascista non si fece problemi a sfruttare il nazionalismo del Dante risorgimentale epurandone però con cura il lato vulnerabile e oppresso e facendone invece a sua volta uno strumento per opprimere, confinare, esiliare, ed arrestare. In un suo scritto dantesco del 1928 (dedicato proprio all’Italo Balbo celebrato dai manifesti di mio zio Carlo) il capitano della Regia Guardia di Finanza Pietro Jacopini faceva di Dante uno strumento del potere: «Dante […] è un precursore del Fascismo e, se fosse vissuto ai giorni nostri, ci avrebbe onorato sicuramente della sua compagnia, impugnando il manganello contro tutti i socialisti e i comunisti rinnegatori e disgregatori della Nazione».
La vision dell’Alighieri
Lo Stato fascista mirò a controllare «la vision dell’Alighieri». Celebrò Dante con progetti architettonici monumentali come il Danteum di Roma, dove cento lapidi avrebbero dovuto simboleggiare i cento canti del poema ma intanto i veri versi di Dante su quelle lapidi non erano previsti. Celebrò Dante, ma tolse la cattedra ai Dantisti ebrei Attilio Momigliano e Mario Fubini, espulsi in seguito alla promulgazione delle leggi razziali.
Nel frattempo, però, negli angoli d’Europa, numerose voci materialmente oppresse continuarono a trarre ispirazione dal Dante vulnerabile ed esule. Erich Auerbach componeva il suo capolavoro Mimesis da Istanbul dopo aver dovuto abbandonare Marburgo; Osip Mandelstam pubblicava pagine memorabili su Dante nel clima delle persecuzioni staliniste prima di morire in esilio; Primo Levi dal campo di concentramento traeva ispirazione dal canto di Ulisse; Antonio Gramsci rifletteva sull’immanenza dell’Inferno sui suoi quaderni del carcere. Chi cerca gli archivi della Resistenza troverà innumerevoli nomi di partigiani che combatterono l’occupazione riprendendosi il nome di battaglia «Dante»: Archimede Barbieri, Rosario Ciotta, Italo Croci, Giuseppe di Giau, Enrico Foscardi, Francesco Giordano, Giuseppe di Giau, Luigi Pierobon. In seno allo Stato fascista un Dante oppresso in cerca di riscatto rimase sempre vivo.
Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Celebrando il primo Dantedì l’anno scorso, le forze dell’ordine citavano il Purgatorio sul sito della Polizia di Stato immaginando, senza ironia, i cittadini che rispettavano le ordinanze anti-Covid «scrutando dalle [loro] case le nostre rassicuranti luci ‘zaffiro’ che illuminano le strade». La visione dell’Alighieri nazionalizzato non è l’unica visione possibile ma è quella che inevitabilmente finirà per emergere da uno Stato che non fa i conti con questa storia. Perché possa mantenere il suo carattere utopistico e vulnerabile, è fondamentale che la figura di Dante rimanga contesa.
*Nicolò Crisafi insegna letteratura italiana all’Università di Cambridge. La sua monografia Dante’s Masterplot and Alternative Narratives in the ‘Commedia’ è in stampa per i tipi di Oxford University Press.
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