
Di cosa parliamo quando parliamo di genocidio
Quando nasce l’idea di genocidio e quando diventa la «g-word», il concetto tabù che esprime una sorta di limite tra civiltà e barbarie, un limite tra l’umano e il disumano?
Sul muro dell’Università La Sapienza un piccolo graffito, in caratteri ben ordinati, cattura il mio sguardo: «Stop Ethnic Cleansing in Gaza». Rispetto alle migliaia di scritte lette sui muri di tutte le città che ho attraversato nell’ultimo anno mi colpisce per il suo tono sobrio e ragionato. L’autrice o autore ha scelto di non usare la parola genocidio quanto piuttosto l’espressione «pulizia etnica», una categoria diffusasi nel linguaggio politico occidentale negli anni Novanta, con le guerre balcaniche. Questa scelta mi fa pensare che non abbia scritto in preda alla rabbia, ma che abbia valutato con cura la parola più appropriata per definire il massacro e la rimozione forzata di palestinesi in corso a Gaza. Cosa lo ha spinto a quella cautela? È studente di giurisprudenza che tiene all’uso oculato dei concetti giuridici? Critica Israele ma pensa che il genocidio sia da riservare a eventi come l’Olocausto, non paragonabile a un massacro che pure ha prodotto più di 40.000 morti, per la maggior parte di giovane età, e che minaccia di sfociare in un progetto di deportazione di massa? Se avessi potuto parlarci, gli avrei chiesto perché aveva scelto di evitare la «g-word».
Da un anno sono alle prese con la scrittura di un libro che ripercorre la storia del concetto di genocidio. Ho deciso di scriverlo proprio perché colpito dalla discussione in atto su Gaza e, ancor prima, sulla guerra russo-ucraina. In quel caso il concetto è stato usato da entrambe le parti, sia da Putin per accusare Kiev della sua politica verso le popolazioni del Donbass che dai politici ucraini e da molti leader occidentali per condannare la guerra avviata da Mosca. La parola genocidio sembra essere ormai ovunque. La si grida alle manifestazioni, la si discute sui giornali e persino nei talk show televisivi. Perché, questa è la domanda che mi ha portato a scrivere il libro, abbiamo tanto bisogno di parlare di genocidio? Come ha fatto un concetto giuridico a entrare nel linguaggio comune e quali bisogni soddisfa?
Scartiamo subito un luogo comune diffuso. Il termine genocidio non può essere ridotto a una mera categoria di diritto internazionale, della storia o delle scienze sociali. È diventato, soprattutto negli ultimi trent’anni, un sorta di «significante fluttuante», molto carico di senso e polisemico. Inoltre, per tornare alla scritta sul muro de La Sapienza, è un concetto che esprime e suscita emozioni, è un terreno di battaglia. La maggior parte di coloro che lo usano oggi per denunciare quello che succede a Gaza lo fanno per dare più forza alla loro argomentazione: non è in corso un qualunque massacro, vogliono dire, ma il «crimine dei crimini». È una sorta di «doppio scandalo» che eleva quel crimine al di sopra degli altri, un dito puntato contro chi si muove fuori dal perimetro della comunità civile.
Si può esprimere la stessa emozione, lo sdegno di fronte a ciò sembra contraddire tutti i principi della ragione umanitaria contemporanea, dei principi stessi del vivere civile, con un’altra parola più ragionata come massacro, sterminio, crimine di guerra, pulizia etnica? Il fatto che la scelta dell’autore de La Sapienza sia minoritaria non è casuale. Genocidio sembra essere la parola giusta, l’unica parola per accusare il nemico del crimine innominabile. Nello stesso tempo essa accusa anche l’Occidente. Usare la parola genocidio non vuole dire solo parlare di uno specifico evento, ma anche inserirlo in una rete di analogie. Se qualcosa è un genocidio è dal punto di vista morale esecrabile come l’Olocausto, il male assoluto. Non basta: pronunciare la parola genocidio contro lo Stato ebraico vuol dire negare a esso il monopolio interpretativo su cosa sia «male assoluto» e, nello stesso tempo, mettere in discussione un regime di memoria usato dall’Occidente per giustificare una doppia morale. È in gioco, quindi, non solo l’interpretazione dell’evento ma lo stesso potere di dare un nome e un significato agli eventi. Il punto è «chi» può parlare, non tanto «di cosa» si parla.
Come nasce il genocidio?
Come siamo arrivati a tutto questo? Quando nasce l’idea di genocidio e quando diventa la «g-word», il concetto tabù che esprime una sorta di limite tra civiltà e barbarie, un limite tra l’umano e il disumano?
La risposta alla prima delle due domande è abbastanza semplice. Genocidio è un termine coniato in un momento preciso della storia da una singola persona: lo ha inventato Raphael Lemkin nel 1944. Lemkin è un giurista nato in un villaggio nei pressi di Wołkowysk, nell’Impero Russo, nel 1900, un’area che nel 1921 viene incorporata nella Polonia e oggi è nella Bielorussia. Emigrato da qui negli Stati uniti, muore in quel paese nel 1959. Uomo apparentemente privo di una vita sentimentale e di una dimensione privata, Lemkin pubblica nel 1944 un corposo volume dal titolo Axis Rule in Occupied Europe. Non è un trattato sullo sterminio degli ebrei ma, come si capisce dal titolo, un’analisi del modo in cui la Germania nazista e i suoi alleati hanno dominato l’Europa. È basato principalmente sulla legislazione emessa dai nuovi dominatori nei Territori occupati, documenti che Lemkin ha portato con sé nel lungo viaggio che lo ha portato negli Usa attraverso Unione sovietica e Giappone. Il capitolo 9, dopo aver mostrato che la politica nazista si è distinta per il modo con cui ha portato avanti un progetto di cancellazione dell’identità dei popoli occupati, illustra al pubblico il nuovo concetto da lui creato per definirla. Genocidio è un neologismo ottenuto dalla combinazione del termine di origine greca «genos» (razza, tribù) con il termine latino «caedere» (uccidere). Negli anni successivi, muovendosi con destrezza e con infaticabile attivismo, Lemkin riesce a creare presso i membri della neonate Nazioni unite supporto all’adozione del suo concetto nel diritto internazionale. Nel 1948 viene approvata dall’Assemblea generale dell’Onu una Convenzione che definisce cos’è genocidio e impone agli Stati membri di prevenirne e punirne l’occorrenza.
La seconda domanda – come si è giunti a usarlo in modo così massiccio – è più complessa. Dopo il 1948 il concetto di genocidio è usato ampiamente nel contesto della Guerra fredda. Questa viene «combattuta» anche sul terreno culturale e il tema dei diritti umani, che proprio in quel periodo emerge come campo di tensione tra Occidente capitalista e mondo comunista, è centrale. Le due superpotenze, e i loro alleati, accusano ripetutamente il campo avversario di genocidio. Lemkin stesso partecipa a numerose campagne anti-comuniste, ingaggiato dalle associazioni degli emigrati dall’Unione sovietica, dal governo americano e dalla Cia. Successivamente il concetto si lega ai conflitti nati dalla decolonizzazione. Uno dei primi esempi è la Nigeria, dove nel 1967 scoppia una guerra civile tra l’auto-proclamatasi Repubblica del Biafra e il governo centrale. Quest’ultimo per piegare i ribelli usa l’arma della fame, determinando la morte di circa due milioni di biafrani, la maggior parte civili. L’opinione pubblica mondiale insorge e i politici biafrani sollevano accuse di genocidio contro le autorità nigeriane. La campagna però è parzialmente un fallimento perché quasi nessuno Stato occidentale e neanche l’Unione sovietica appoggia la causa del Biafra. Inoltre il governo britannico, che prende le parti del governo della sua ex colonia, lo costringe a invitare una commissione internazionale per verificare i fatti e questa nega che la guerra abbia carattere di genocidio.
Quando si diffonde il genocidio?
Nonostante il concetto sia usato massicciamente in modo polemico durante la Guerra fredda è solo negli anni Novanta che esso si avvia a diventare quello che è oggi: lo strumento più potente di denuncia della violazione di diritti umani fondamentali. Non è un esito scontato. Il concetto di genocidio indica un crimine specifico. La convenzione del 1948 enumera una serie di atti come lo sterminio fisico di membri di un gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo fino a atti più indiretti come «sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale», «misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo», fino al «trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». Questi atti sono qualificabili come genocidio solo se «commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Essenzialmente, la proibizione del genocidio mira a difendere i gruppi umani e non il singolo individuo, o meglio difende il singolo individuo solo in quanto membro di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. È una differenza essenziale che ha sollevato una serie di critiche e discussioni.
Le cause che determinano la diffusione del concetto sono diverse: vi è da un lato l’affermazione di una cultura dei diritti umani che assume il modello dell’Olocausto a male universale. È una cultura che si diffonde inizialmente negli Stati uniti a partire dagli anni Settanta e poi nel mondo intero. Solo negli anni Novanta però il «modello» dell’Olocausto, simbolo del male assoluto, diviene parte integrante del linguaggio globale dei diritti umani. Inoltre, nelle società occidentali a partire dallo stesso periodo tende a diffondersi quella che il filosofo Charles Taylor ha definito la «politica del riconoscimento». Le identità di classe vengono sostituite sempre più dall’articolazione delle rivendicazioni in termini di riconoscimento di identità specifiche (siano esse di genere, etnia, ecc.). Non è un caso che diversi gruppi in questo periodo – i movimenti per i diritti degli afro-americani, le mobilitazioni intorno alla cura dell’Aids – usino il concetto di genocidio. Vi è poi quella che molti osservatori hanno definito la transizione da una cultura nazionale incentrata sulla figura dell’eroe – il sacrificio per la patria – a una che mette al centro la vittima. In questo contesto l’articolazione di quest’agenda in termini di genocidio rafforza lo status di una vittima in concorrenza con altre.
Nello stesso periodo molte società transitano da regimi autoritari a forme di democrazia liberale. Soprattutto nel mondo postcomunista molti paesi hanno elaborato il loro passato come genocidio, cioè come tentativo da parte di un potere esterno, l’Unione sovietica, di cancellare la loro identità nazionale. Così come nella politica nazionale singoli gruppi accrescono il loro prestigio acquisendo uno status di vittima, allo stesso modo nuove nazioni cercano di farlo sul piano della politica globale. Infine, l’uso del concetto di genocidio viene rafforzato negli anni Novanta dall’emergere degli interventi umanitari. La guerra di Bosnia, il genocidio in Ruanda e, successivamente, la guerra per il Kosovo, sono decisivi. La discussione dell’intervento occidentale mobilita ampiamente il concetto di genocidio per giustificare guerre al limite del lecito o del tutto contrarie al diritto internazionale.
I problemi del genocidio
Tutto ciò fa sì il genocidio diventi parte integrante del nostro linguaggio politico. Questa categoria, però, non è priva di problemi. Secondo Dirk Moses il concetto di genocidio postula un modello derivato da una specifica lettura dell’Olocausto. Con esso, infatti, si intende l’eliminazione di un gruppo di civili inermi per motivi puramente ideologici. Questa definizione tende a elevare il modello dell’Olocausto a un metro di paragone di tutto, per cui altre forme di violenza contro i civili sono, seppur condannabili, meno gravi, non «scioccano la coscienza dell’umanità». Questo regime di memoria, creato dagli Stati vincitori della Seconda guerra mondiale e diffusosi come modello fortemente occidentalo-centrico, escluderebbe forme di violenza come quella coloniale, non basate su ideologia ma piuttosto su interesse politico o economico. Nonostante molti studiosi attribuiscano al colonialismo un carattere genocidario – la violenta espansione occidentale ha determinato la scomparsa di interi gruppi etno-culturali – l’assenza di intento specifico, di un’ideologia dello sterminio, li porrebbe su un gradino più basso. Inoltre, lo spostamento forzato di popolazioni verrebbe a costituire una violenza minore, anche se spesso – come nel caso della Partition tra India e Pakistan del 1947 – è accompagnato da centinaia di migliaia di morti. Il genocidio sarebbe dunque una sorta di «altro» dell’Occidente, l’immagine in negativo della sua idea di progresso e civiltà.
Inoltre un regime di memoria occidentalocentrico come quello creato dal genocidio produce una sorta di concorrenza globale per accaparrarsi un posto d’onore nel «canone» dei genocidi riconosciuti. Sebbene il genocidio si muova ormai in uno spazio comunicativo globale, è l’Occidente che continua a mantenere la «sovranità interpretativa» di quella che Mahmood Mamdani ha definito le «politiche della denominazione» (politics of naming). È l’Occidente, insomma, che definisce cosa è e cosa non è genocidio, con evidenti distorsioni derivanti da interessi geopolitici e doppie morali.
Osservando ciò che oggi generalmente viene riconosciuto come genocidio si nota un’evidente distorsione. Vi sono, ad esempio, casi come l’Holodomor ucraino – la carestia del 1932-33 causata dalle politiche di collettivizzazione di Stalin – ampiamente riconosciuti come genocidio dai parlamenti occidentali, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Al contrario un caso come l’Indonesia del 1965-66 – dove il regime del generale Suharto appoggiato dagli Stati uniti fece tra 500.000 e un 1.000.000 di vittime, per la maggior parte comunisti – di solito non è considerato tale. Soprattutto la definizione di eventi in corso come genocidio legittima spesso un intervento militare a difesa della popolazione colpita. L’uso di questo concetto, e di analogie con l’Olocausto, è centrale nel giustificare la guerra di aggressione contro la Serbia nel 1999 per difendere i kosovari dal genocidio perpetrato da Belgrado.
La questione è dunque se la distorsione cognitiva provocata dal concetto, non tanto tra gli studiosi quanto nell’opinione pubblica, sia nella sua stessa natura o se derivi dall’uso politico che se ne fa. Il fatto stesso che il Sud-Africa nel 2023 ha accusato Israele di genocidio presso la Corte di Giustizia Internazionale indica che lo stesso concetto può essere usato per sottolineare, davanti all’opinione pubblica mondiale, l’illegittimità del comportamento di uno Stato occidentale, un paese che fonda la sua identità sulla memoria dell’Olocausto. Allo stesso modo negli ultimi vent’anni si è sviluppato un movimento che rivendica dagli stati occidentali forme di giustizia riparatoria per il colonialismo. Ispirandosi al modello delle riparazioni riconosciute a Israele per l’Olocausto, queste richieste usano ampiamente il linguaggio del genocidio. Ad esempio la Comunità Caraibica (Caricom), un’organizzazione che riunisce 21 paesi dei Caraibi, ha diffuso nel 2013 un «Ten Point Plan for Reparatory Justice» in cui accusa i governi europei di aver «ordinato azioni genocidarie contro le comunità indigene». Insomma, il regime di memoria e la cultura occidentalocentrica impliciti nel concetto di genocidio possono essere impugnati dal sud globale per mettere sul banco degli imputati l’occidente e la sua doppia morale.
*Paolo Fonzi insegna attualmente Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Precedentemente ha insegnato e fatto ricerca presso la von Humboldt Universität di Berlino e l’Università del Piemonte Orientale. I suoi libri trattano della storia del nazionalsocialismo, le politiche di occupazione fasciste, in particolare l’occupazione italiana della Grecia tra il 1941 e il 1943. Da alcuni anni si dedica allo studio della violenza di massa e delle categorie culturali usate per comprenderla. Questo articolo anticipa i contenuti del suo libro Cosa è genocidio. Storia politica e culturale di un concetto che uscirà presso l’editore Laterza nel settembre 2025.
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