Di Maio Challenge
La pazzia estiva di Matteo Salvini si spiega solo così: chi incrocia lo sguardo del M5S perde il senno. Questa è la maledizione che chi cerca di normalizzare il grillismo spera di esorcizzare
È la notte tra il 3 e il 4 settembre. Poche ore fa, gli iscritti alla piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle hanno dato il loro via libera, a stragrande maggioranza, alla nascita di un governo col Pd presieduto da Giuseppe Conte. Mi aggiro tra i palazzi del Casilino, periferia sudorientale di Roma. A un certo punto scorgo un capannello di ragazzi. Si dispongono attorno a uno di loro che indossa una specie di accappatoio bianco e ha in mano una parrucca scura. Stanno allestendo un’apparizione di Samara Morgan, la bambina del film The Ring. Il Samara Challenge è il fenomeno che si è diffuso nelle settimane in cui il M5S ha cambiato forma. Mentre i ragazzini giocavano a spaventare il prossimo, esorcizzando le paure e mettendo in gioco la loro paura, il M5S pareva destinato a scomparire insieme al fallimento del governo presieduto da Giuseppe Conte che aveva formato poco più di un anno fa insieme alla Lega. È riapparso nel giro di meno di un mese, siglando un accordo con gli ex acerrimi nemici del Pd. La maledizione di Samara Morgan, la bambina fantasma di The Ring che in questa estate 2019 si materializza nelle periferie romane e di tutto il paese, si diffonde tramite un video. Chi lo guarda entro una settimana è destinato a essere raggiunto dalla creaturina orrorifica, spaventosa tanto quanto dovrebbe apparire innocente, e ucciso. Mentre ogni momento della nostra vita è inseguito da video, immagini, messaggi che portiamo con noi nei display che portiamo in tasca, i più giovani decidono di mettere in scena, per strada, l’incubo delle apparizioni su schermo di una loro coetanea che non trova la pace eterna. Le messe in scena del Samara Challenge si svolgono nelle periferie, soprattutto del sud, che cercano una loro rappresentazione. Piombano in mezzo alla crisi d’agosto che ha scosso la politica italiana e come questa, come buona parte della politica evanescente di questi tempi, viaggiano a bordo di messaggi virali che passano per canali imprevedibili. Il reality della crisi e le apparizioni di Samara sono due ordini di eventi diversi che si muovono in risonanza, inspiegabili e imprevisti, a cavallo tra spettacolo e realtà, nuovi e vecchi media.
Torna a casa, Rousseau
Molti, e tra i tanti citeremo l’autorevole (per alcuni famigerato) Massimo D’Alema, sostengono che alleandosi al Pd la vera anima del Movimento 5 Stelle abbia trovato pace e ritrovato la sua collocazione naturale. Non è del tutto sbagliato considerare i 5 Stelle come costola di una certa sinistra: un esito moderato e rassicurante, e non legato all’estrema destra salviniana, stava nelle corde del grillismo figlio dei ceti medi impoveriti in cerca di legalità a tutti costi scambiata per giustizia. Tuttavia lo sciagurato accordo con la Lega non è stato solo un incidente di percorso. Il gruppo dirigente del M5S, Luigi Di Maio in testa, ha cercato quell’esito. Ha sperato che il patto con Matteo Salvini andasse in porto, dopo le elezioni del 4 marzo del 2018. Fino all’ultimo momento utile non ha smesso di cercare e sperare che tutto potesse ricomporsi.
L’asse tra M5S e Lega si basa innanzitutto su forme pre-politiche e codici culturali comuni che sarebbe imprudente archiviare. Quando Steve Bannon indicava l’Italia come «laboratorio del populismo» si riferiva esattamente all’ideologia minima e pervasiva secondo la quale per ristabilire forme di giustizia sociale occorre ristabilire il controllo del territorio, sigillare le frontiere, riprendersi la nazione. Non era molto tempo fa quando Diego Fusaro – uno dei volti caricaturali e assurdi ma da prendere sul serio che fanno parte di questa storia che mescola i temi sociali al nazionalismo – veniva invitato dai gruppi del M5S sparsi sul territorio e al tempo stesso incoraggiato da televisioni e grosse case editrici a dissertare su Gramsci e le distorsioni del capitalismo. È un caso emblematico di un discorso fortemente ideologico, fatto di un’ideologia inafferrabile ma artefatta, più gassosa che liquida, cangiante e incurante delle contraddizioni e delle incoerenze. La forza e l’apporto del M5S, si pensi alla campagna d’odio contro le Ong e i «taxi del mare» indetta proprio da Di Maio, stava proprio nella sua capacità di camuffare le illogicità in genuino apprendistato da invogliare. A forza di trasformare questa ideologia in senso comune, raccontarla come vissuto quotidiano della gente invece che come narrazione indotta e mendace, il M5S ha amplificato il messaggio razzista.
Una volta, Fusaro parlava a una trasmissione alla quale ero stato invitato. Dopo aver visto che un assistente di studio sbuffava scambiandosi sguardi d’intesa con tecnici e redattori, chiesi loro: «Ma perché lo invitate?». «Ormai è una maschera riconosciuta, fa audience», mi risposero.
Come è noto, il dispositivo politico inquietante del gentismo grilloleghista non era esente da contraddizioni. Ma se si è inceppato non è per volontà del Movimento 5 Stelle. È stata l’azione unilaterale dell’altro contraente, Matteo Salvini, a essere decisiva. I motivi che hanno indotto il ministro dell’interno a cannoneggiare l’alleanza, a tirare la corda fino a spezzarla, a uccidere l’esperimento nella culla nel pieno di un rigoglioso svezzamento, sono diversi. Sindrome di onnipotenza, avidità elettorale, paura di inchieste giudiziarie o percezione della mobilità del consenso hanno spinto Salvini a staccare la spina e reclamare pieni poteri, per poi pentirsene nel giro di qualche giorno.
La pazzia di Salvini
Ma c’è dell’altro. La mossa del cavallo imbizzarrito che ha portato Salvini ad autoescludersi da un governo che egemonizzava e usava come trampolino di lancio e da un ministero che utilizzava come pulpito per i suoi comizi in streaming, ha a che fare con la natura del M5S. Chiunque si accosti, come interlocutore, seguace, avversario oppure semplice osservatore, al M5S è spinto verso la follia.
Provo a spiegarmi meglio. Salvini è tecnicamente un populista. Cerca di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità. Il M5S incarna più propriamente la variante gentista di questo schema, figlia della neotelevisione e del modo in cui ha colonizzato un certo uso frivolo dei social network. Come la Lega, il M5S usa i media per dialogare col suo popolo, ma al tempo stesso appare inconsciamente consapevole del fatto che questo popolo è impossibile da condurre stabilmente a unità. Il discorso grillino investe la postverità perché ogni frontman del Movimento pare avere introiettato la lezione del postmoderno. La fine della rappresentanza, dopo anni di crisi, e quella della verità, elaborata dal pensiero postmoderno, vengono percepite inconsciamente e perfettamente interpretate dagli elettori. All’indomani dell’insediamento del primo governo Conte, notammo come il bisministro Di Maio prometteva l’annullamento dei conflitti. «Unire parte datoriale e dipendente può creare pace sociale», aveva detto muovendosi da una sponda all’altra del palazzo. Oscillando da una parte all’altra di via Veneto, dal ministero del lavoro a quello dello sviluppo economico, Di Maio metteva in scena la capacità del M5S di essere ubiquo politicamente, trasversale fino all’inverosimile in modo da rastrellare voti dappertutto. L’essenza del pensiero reazionario, quella di negare i conflitti e presentare una società armonica, pacificata, organica. Ma la natura dei messaggi grillini non funziona esattamente così. Più precisamente il M5S dice una cosa e la nega al tempo stesso, se con un enunciato evoca il cambiamento, questo sarà accompagnato da messaggi che si muovono su un altro livello, che quel cambiamento negano o che lo indirizzano verso forme compatibili e tutt’altro che radicali. Il nazionalismo, come promessa di rivoluzione e ripristino di sovranità popolare che si traduce nella conservazione estrema, era uno sbocco possibile, forse il più immediato, di questa attitudine performativa. Ma ci troviamo di fronte a una forma comunicativa oscillante, sempre discordante tra parole e fatti o tra la comunicazione esplicita e il suo senso implicito, alla lunga produce nell’interlocutore qualche forma di disagio mentale.
Di Maio disse «Adesso lo Stato siamo noi», ai suoi in piazza Bocca della Verità annunciando la nascita del nuovo governo, intimando alla folla che era stata convocata nel giorno della festa della Repubblica per reclamare l’impeachment del presidente della repubblica di smettere di fischiare. Usando questo registro, e lo fa di continuo, Di Maio si comporta esattamente come la mamma che dice al figlio «Sii spontaneo». L’ordine di essere libero paralizza chi lo riceve in una relazione senza via d’uscita che può generare reazioni dai tratti patologici. Alla chiusura della campagna elettorale delle politiche dello scorso anno, in piazza del Popolo, Di Maio declamò un testo enfatizzato da un sottofondo musicale studiato ad arte. Parlava in prima persona della generazione precaria, ma rivendicava il diritto a farsi una famiglia normale: «Vogliamo fare quello che hanno potuto fare i nostri genitori, non chiediamo di più», diceva Di Maio. Alla faccia del cambiamento.
Allo stesso modo, presentandosi come il garante della stabilità, Di Maio auspicava la nascita della «Terza Repubblica dei cittadini». Un passaggio storico che si sarebbe dovuto consumare all’ombra del vero paradosso: il massimo del rifiuto delle vecchie forme della politica coincide col minimo spazio per i movimenti sociali. È un fatto che non solo adepti e seguaci grillini, ma anche fuoriusciti, ex simpatizzanti, espulsi e financo giornalisti abbiano, diciamo così, perso la lucidità nel cercare di prendere in castagna il M5S e stringerlo alle sue contraddizioni. Ciò accade perché a differenza dei reazionari classici, il M5S non rimuove le contraddizioni. Al contrario, le rimette in ballo continuamente a seconda delle necessità. Probabilmente anche Salvini, come tutti gli interlocutori del M5S, ha finito per perdere la testa, convinto di inchiodare i grillini a uno schema («Siete il partito del No») per metterli all’angolo. Anche lui, come i piccoli e grandi strateghi che in questi anni hanno visto nel M5S un’opportunità imperdibile, ha finito per restare impigliato nei doppi legami del Movimento 5 Stelle. Luigi Di Maio è come Samara Morgan: chi incrocia il suo sguardo, che scorre su uno schermo a ricordarti le colpe rimosse e le occasioni da cogliere, è spacciato.
Anche chi scrive se l’è vista brutta. Avevo scelto il Movimento 5 Stelle come terreno di ricerca e racconto, come sfida da cogliere per afferrare il toro della crisi per le corna, ma rischiavo di restare ipnotizzato dalle oscillazioni verbali che hanno tratto in inganno individui, partiti e movimenti delle estrazioni più disparate. Poi ho scelto di sfuggire a The Ring semplicemente raccogliendo i freddi fatti di cronaca e mettendoli in fila, cercando uno sguardo ampio e prospettive di medio-lungo periodo. Proviamo a seguire questo metodo, ripercorriamo i giorni della crisi connettendo i nessi di quegli eventi con il contesto generale.
Scende in campo Grillo
Tutto si consumato nel giro di pochi giorni. È una crisi piena di manovre sotterranee e capovolgimenti di fronte. Eppure, in superficie, i notiziari continuano a macinare immagini. Molti passaggi avvengono a favore di telecamere, dentro la politica di The Ring, nella catena di messaggi e risposte, di reazioni e controreazioni che paiono fatte apposta per alimentare il traffico dei social network. Il 5 agosto il senato approva in via definitiva il decreto sicurezza bis. Tra i grillini praticamente non ci sono defezioni, solo cinque dissidenti decidono di non presentarsi in aula per non essere costretti a negare la fiducia al governo gialloverde. La gran parte dei senatori approva senza battere ciglio. Quelli (pochi) che in privato, off the record, ammettevano che le norme volute da Salvini erano «porcherie invotabili», si adeguano alla realpolitik. Il mantra è questo: «L’alternativa a questa maggioranza è un governo tecnico comandato dall’Europa». Alcuni temono addirittura che i 5 Stelle si spacchino e che una parte vada a sostenere una nuova coalizione di destra-destra con Fratelli d’Italia. Parole che fanno capire che nessuno pensa che ci sia, in caso di rottura, alcuna possibilità di formare un esecutivo col Pd.
Tre giorni dopo che il senato ha votato la fiducia, come è noto, la settimana di The Ring incede e Salvini apre informalmente la crisi di governo. Sotto gli ombrelloni del Papeete. Nel M5S è il caos. Il primo a fare capire che grossi cambiamenti sono in arrivo è Beppe Grillo. Al terzo giorno, l’Elevato invia un messaggio. Dice che non bisogna confondere «coerenza con rigidità». Lui ha sempre parlato di un M5S «biodegradabile», nato per estinguersi senza lasciare resti inquinanti. Solo che, precisa in questa occasione, «non siamo dei kamikaze». Grillo sostiene che occorrono «cambiamenti». «Facciamoli subito, altro che elezioni!», dice il co-fondatore del M5S. Alcuni dei suoi iniziano a pensarci sul serio. Un governo «con con chi ci sta» per fermare il blietzkrieg elettorale della Lega e far pagare a Salvini il tradimento. Passano 24 ore e Matteo Renzi opera un’inversione a U, una delle tante giravolte che praticamente tutti i protagonisti di questa crisi agostana hanno compiuto. Anche l’ex leader del Pd dice: «Folle votare subito». Il colpo di scena viene salutato come un colpo da maestro, da cavallo di razza della politica e del pragmatismo.
Il passaggio necessita di un flashback: torniamo alle origini di questa legislatura. Quando il segretario dimissionario Renzi tolse inspiegabilmente le castagne dal fuoco a Luigi Di Maio proclamando l’indisponibilità dei suoi a ogni alleanza. Renzi commise un errore barbino. Avrebbe potuto accettare di sedersi al tavolo coi 5 Stelle e farsi dire di no, in modo da poter rinfacciare loro di aver scelto deliberatamente la Lega e – forse – meritarsi un sacchetto di pop corn. Di Maio, come è noto, preferiva andare al governo con Salvini, perché questa dell’alleanza con la Lega era una vecchia fissazione di Gianroberto Casaleggio, perché con la Lega sembravano esserci maggiori affinità in termini di attitudine e di linguaggio e perché oggettivamente sarebbe stato difficile costruire una maggioranza con il Pd, la forza politica da sempre considerata dai grillini il nemico principale. Il tormentone «E allora il Pd?» rappresentava esattamente questo furore cieco, che ha spinto i grillini a precludersi a priori il secondo forno e consegnarsi in condizioni oggettivamente deboli alla Lega. Il M5S è il vertice di un triangolo, e agli altri due ci sono Lega e Pd. Ma se il M5S decide che il Pd è il male assoluto, allora si consegna mani e piedi all’alleato leghista. È la logica del male minore all’ennesima potenza. La Lega, invece una via di fuga (tornare al voto con la coalizione di centrodestra), non se l’è mai preclusa. C’è anche una terza ragione, più legata a un disegno strategico di medio-lungo periodo, ad avere spinto i grillini all’accordo con la Lega. L’idea era che stesse nascendo una Terza Repubblica attorno ai due poli di Lega e M5S, che Forza Italia e Pd fossero condannati all’estinzione e che quindi le due forze politiche sedicenti post-ideologiche, nelle loro differenze, dovessero farsi carico di una grosse koalition alla tedesca che si prendesse il compito di ridisegnare il campo da gioco, riscrivendo le regole e tracciando le linee guida, prima di sfidarsi al prossimo voto. Fatto sta che Renzi, nel convulso marzo 2018 si tirò fuori. Con un Pd impossibilitato a prendere le decisioni ardite dalla fase politica, decise di alzare le mani. I vertici grillini si ritrovarono l’alibi inattaccabile, poterono spiegare ai loro eletti più perplessi che la strada del contratto di governo gialloverde era obbligata: «Un governo bisognerà pur farlo», era il mantra. «Io non volevo fare l’accordo con la Lega – dice ad esempio il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, riproponendo questa narrazione – Ma ho dovuto accettarlo perché un’altra forza politica a cui avevamo proposto un accordo ci ha preso per i fondelli». Grillo riapre i giochi, ma pure lui al tempo del contratto di governo aveva dichiarato: «Salvini? È uno del quale ci si può fidare». Adesso affibbia l’etichetta di traditore al leader leghista. Emette una condanna che produce conseguenze inevitabili, quasi meccaniche, dentro il M5S, perché il «capo politico» Luigi Di Maio sente che il suo mandato è legato alla fase che sta per chiudersi, quella della convergenza con la Lega. Cannoneggiando Salvini, Grillo inevitabilmente colpisce Di Maio. È questo uno degli scontri che muove le cose in maniera così rapida. La sabbia corre dentro la clessidra di The Ring.
I parlamentari
L’altro scontro prescinde da Grillo, anche se le dinamiche finiranno per convergere. Succede che il baricentro del M5S dentro i palazzi si sposta. La direzione diventa per la prima volta meno centralizzata. Dapprima, i vertici grillini convocati da Di Maio e Casaleggio in una specie di gabinetto d’emergenza (i capigruppo, esponenti di punta come Paola Taverna e Nicola Morra e frontman come Alessandro Di Battista) sanciscono l’impegno reciproco che nessuno screditerà Di Maio o lo criticherà in pubblico. La promessa viene rinnovata alla casa del mare di Grillo, a Marina di Bibbona, nel giorno in cui il Corriere della sera pubblica l’intervista a Renzi che dà il via libera all’accordo. Con l’aggiunta che Grillo ribadisce ai suoi colonnelli quello che ha lasciato intendere con il messaggio di pochi giorni prima: «Che nessuno si sogni di tornare con la Lega. E non possiamo neanche andare al voto, pena l’estinzione elettorale». Il giorno successivo, e siamo a lunedì 12 agosto, si verifica l’altro passaggio determinante. Alla camera si riunisce l’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari grillini. Come da copione, a Di Maio spetta una relazione improduttiva prudente e attendista. I parlamentari non insorgono ma non è la solita assemblea. Gli eletti cominciano a prendere parola. La maggior parte è animata da ragioni prosaiche: se si va a nuove elezioni difficilmente il M5S farà di nuovo il pieno di seggi. Altri semplicemente dalla volontà di continuare a lavorare dopo un primo anno di rodaggio: proprio ora che l’apprendistato è finito ci mandate a casa? Una minoranza, fatta da deputati e senatori che in questi mesi hanno masticato amaro e mandato giù il rospo leghista, lentamente prende per mano gli altri eletti e costringe Di Maio ad accettare che un’altra strada per la prosecuzione della legislatura è possibile. Non solo il secondo forno, quello del Pd, va aprendosi. Succede anche che i capigruppo in commissione diventino la cinghia di trasmissione tra i vertici e la base dei parlamentari.
Nel M5S, per volontà di Gianroberto Casaleggio, le assemblee nazionali sono sempre state vietate. Il primo epurato, il consigliere comunale Valentino Tavolazzi da Ferrara, ebbe la colpa di provare a organizzarne una, nel 2012. Per la prima volta un’assemblea rappresentativa su scala nazionale come quella dei parlamentari costituisce un corpo intermedio, basato sui criteri imperfetti ma tangibili della rappresentanza e della distribuzione territoriale. L’assemblea congiunta dei parlamentari grillini si convoca in modo quasi permanente, fa contrappeso e anzi detta alcune condizioni alle decisioni dei vertici. Un leader debole, se non commissariato, come Di Maio deve prenderne atto.
L’Europa chiama
Il secondo forno, quello col Pd, è aperto. Lo scacco matto si compie quando il primo, quello con la Lega, si chiude. A chiuderlo non è Di Maio, al quale nel frattempo Salvini ha offerto la presidenza del consiglio. Ci pensa Giuseppe Conte, che già al senato ha sbeffeggiato il ministro dell’interno in una seduta scenografica, caratterizzata dall’inspiegabile scelta di Matteo Salvini di sedersi accanto a lui, al tavolo del governo. Dopo il cazziatone di Palazzo Madama, Salvini ha offerto a Di Maio la presidenza del consiglio pur di liberarsi di Conte e rilanciare l’alleanza gialloverde su basi nuove. Conte però ha una carta da giocare. Il 24 agosto va al G7 di Biarritz, «da osservatore», dicono tutti sottolineando la sua posizione più che precaria. E invece il vertice diventa la consacrazione internazionale. Conte viene salutato come uomo di stato, forse per la prima volta da quando siede a palazzo Chigi. E trova modo di annunciare ai telegiornali della sera che non c’è alcuna possibilità di tornare indietro nei rapporti con Salvini. «Quella con la Lega è un’esperienza politica che non rinnego ma è una stagione politica definitivamente chiusa».
Il contesto internazionale ci ricorda che qualcosa in questo senso si è già compiuto quando il gruppo del M5S al parlamento europeo, dopo anni di convivenza con la destra di Nigel Farage e un rocambolesco tentativo di passare coi liberali dell’Alde, non è riuscito a entrare in nessuno dei gruppi di Bruxelles e Strasburgo (cosa che per i regolamenti Ue implica grossi handicap in termini di risorse e spazi di intervento) ma ha deciso di entrare in quello che avrebbero definito poco prima establishment, in maggioranza con popolari e socialisti a sostegno della presidente di commissione Ursula von der Leyen, espressione della Cdu. La scelta indica l’impasse nel quale sono finiti i sovranisti europei. Le destre nazionaliste e scioviniste sono cresciute alle elezioni di maggio ma non sono riuscite a far saltare il banco dell’Ue. Ancora più grave: mostrano un deficit strategico, non riescono a uscire dalle rivendicazioni nazionali e trovare un terreno comune che renda solida l’ossimorica internazionale nazionalista auspicata da Bannon. Tutto ciò influisce nelle dinamiche del M5S perché proprio un anno fa Luigi Di Maio indicava le elezioni europee come punto di svolta. «I numeri dicono che la maggioranza formata da Ppe e Pse non esisterà più, finirà l’epoca dell’austerity e inizierà un nuovo settennato di bilancio espansivo – profetizzava Di Maio – L’establishment Ue sarà spazzato via da elezioni storiche». Evidentemente il «capo politico» non auspicava una vittoria delle sinistre europee, ma si metteva al traino dell’onda sovranista annunciata dall’alleato Salvini. Non solo quel disegno non si è compiuto, ma il M5S si trova costretto a puntellare la maggioranza che sostiene la commissione. Per questo Conte può tornare in patria da leader europeista pienamente riconosciuto. L’unico attore che manovra senza proclami roboanti ma con molti dubbi, Nicola Zingaretti, deve lasciare cadere il veto sul suo nome.
Gli eletti hackerano Rousseau
Il messaggio che nega se stesso del Movimento 5 Stelle è anche quello di Davide Casaleggio. Pensiamo alla fantomatica consultazione sulla piattaforma Rousseau dalla quale questo testo ha preso le mosse. Si sventola la democrazia diretta ma aleggia il grande manipolatore. Come ha spiegato Marco Deseriis, i rapporti di forza disegnati da Rousseau costruiscono una «relazione asimmetrica» tra rappresentanti e rappresentati. Rousseau è concepito a uso e consumo di chi sta nei palazzi e non di chi preme dal di fuori, funziona in maniera tale da minimizzare l’impatto dei conflitti tra chi governa e chi è governato. Per questo è difficile che utilizzando Rousseau si registrino contrasti tra la base del M5S e la sua rappresentanza politica, i cosiddetti «portavoce» nelle istituzioni. «La partecipazione – argomenta Deseriis – comporta una serie di attività come l’acquisizione di conoscenze specifiche, il dare priorità ad alcuni temi, la creazione di alleanze tattiche con altre forze politiche che da Rousseau sono strategicamente lasciate fuori». Basti guardare ai forum di discussione, che sono disegnati «in modo da consentire uno scambio di opinioni tra iscritti e rappresentanti (che hanno diritto di replica), ma non tra gli attivisti stessi». Nella logica del sistema di Casaleggio si sacrificano le interazioni tra utenti, si può discutere con gli eletti ma non tra elettori. Ne risulta che l’azione collettiva perda centralità: è soprattutto il voto lo strumento tramite il quale chi aderisce al M5S può contribuire alla formazione della «volontà generale», per utilizzare la nota espressione del filosofo Jean-Jacques Rousseau dal quale la piattaforma prende il nome. Ne deriva un partito di individui atomizzati, di consumatori della polemica quotidiana.
La novità di questa crisi è che i parlamentari più attivi considerano Rousseau una minaccia al protagonismo che si sono faticosamente conquistati. In effetti, Di Maio e Casaleggio, con sfumature diverse, anche questa volta invocano il ricorso salvifico alla democrazia digitale per bypassare il corpaccione intermedio che si è costituito a Roma e rivendicare un filo diretto con la base, una missione da compiere per conto della gente. Succede che la votazione digitale che approva con affluenze per la prima volta rilevanti è evidentemente figlia della mobilitazione dei parlamentari. Mai prima d’ora tanti parlamentari grillini in occasione di un referendum su Rousseau avevano preso parola e dato indicazione di voto. Di Maio non si esprime, al contrario degli altri eletti, e fa buon viso a cattivo gioco. Sembra incosciente della gravità della situazione. All’ultimo giro di trattative alza la posta per sistemare se stesso al ministero degli esteri e i suoi al governo. La distribuzione delle cariche risulta quantomeno anomala: la forza politica che al Sud ha toccato vette del 48% dei consensi rinuncia al ministero del Mezzogiorno. È il massimo che poteva ottenere da una partita che lo ha visto in difesa e che ha subito per quasi un mese. Aleggia insieme al M5S, pronto a mandare messaggi in grado di sedurre e poi mandare fuori di testa i propri interlocutori. È pronto a proseguire The Ring, la catena che ha in mano la politica italiana prima che un attore imprevisto, esterno al recinto della politica attuale, fermi la ruota.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre Samara appare a Lamezia Terme, cittadina in provincia di Catanzaro. Viene avvistata dentro un palazzo, dalle parti dell’ospedale. Le cronache parlano di un moto improvviso di un centinaio di persone che armate di spranghe e bastoni, si sono riversate nell’edificio per stanare la bambina fantasma. I cacciatori di fantasmi si sono infilati nella palazzina, distruggendo il portone d’ingresso e creando il panico degli inquilini. È stato necessario l’intervento delle forze dell’ordine. Nelle stesse ore la polizia postale diffonde un comunicato che invita a riflettere «sui temi della sicurezza in rete e delle conseguenze che taluni comportamenti sui social possono avere nella vita reale».
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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