Dichiariamo lo stato di rivoluzione climatica
Fridays For Future ha ottenuto dichiarazioni di emergenza ambientale da molte istituzioni. Ma non c'è il rischio di rafforzare il potere e indebolire le lotte sociali? Una riflessione resa ancora più urgente dal fallimento della Cop 25
Negli ultimi mesi un nuovo movimento globale ha occupato la scena politica. Ragazze e ragazzi hanno sfilato per le strade delle città chiedendo politiche efficaci per combattere il cambiamento climatico. Fridays for Future (Fff) è diventato, almeno per tante e tanti, il punto di aggregazione, una piattaforma plurale nella quale convergere con le proprie parole d’ordine e rivendicazioni. È quasi superfluo ricordare che, in quanto plurale, Fff come tutte le grandi piattaforme di mobilitazione presenta le sue contraddizioni, contenendo in sè istanze diverse.
Una delle rivendicazioni ricorrenti nei nuovi movimenti climatici, da Fff a Extinction Rebellion, è quella della «dichiarazione dello stato di emergenza climatica». In molte proteste è quella la richiesta più immediata. Ad esempio, anche a Napoli, la città da cui scriviamo, abbiamo considerato un successo la dichiarazione di emergenza climatica promulgata dalla giunta comunale. Extinction Rebellion ha occupato per settimane il centro di Londra chiedendo che il parlamento inglese proclamasse lo stato di emergenza climatica. Anche molte scuole hanno scelto quella strada dichiarando lo stato di emergenza climatica.
Non è nostra intenzione attaccare chi ha fatto e continua a fare questa battaglia; noi stessi l’abbiamo condivisa in diverse occasioni, partecipando a manifestazioni che chiedevano alle istituzioni quel tipo di intervento politico. Tuttavia anche alla luce della svolta radicale impressa ai movimenti climatici italiani dopo l’assemblea nazionale di Napoli, vogliamo proporre una riflessione critica su quel tipo di rivendicazione.
Dalle femministe abbiamo imparato che è importante parlare da una posizione situata e dunque cominciamo proprio da qui. Noi scriviamo dalla Campania dei veleni, dalla Terra dei Fuochi, da decenni di mobilitazioni contro il biocidio e il necrocapitalismo. Le nostre battaglie contro l’apertura di discariche e inceneritori sempre nelle periferie subalterne e contro gli sversamenti illegali di rifiuti tossici hanno spesso incrociato i dispositivi emergenziali. La storia della cosiddetta crisi dei rifiuti in Campania nasceva – ufficialmente – nel 1994 proprio con la dichiarazione dell’emergenza rifiuti e la creazione del commissariato straordinario per la gestione di quella emergenza. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle cosa volesse dire diventare un laboratorio biopolitico dell’emergenza: poteri straordinari, possibilità di bypassare le normali procedure, incluso la Via (Valutazione di impatto ambientale), risorse economiche impressionanti, con il loro corollario di corruzione e prebende. A prescindere dalle molte inefficienze e intrinseche debolezze del regime emergenziale, vorremmo soprattutto soffermarci sul postulato teorico che sta dietro la logica dell’emergenza. Essere in emergenza significa essere in una situazione di pericolo immediato che richiede azioni efficaci e tempestive. Dal punto di vista narrativo, imporre una logica emergenziale, almeno nel caso situato dal quale scriviamo, ha significato restringere gli spazi della discussione democratica e della partecipazione.
D’altra parte se la vostra casa bruciasse, preferireste convocare una assemblea di quartiere per decidere il da farsi, o magari chiamare i pompieri e lasciare fare a loro? Emergenza facilmente si associa a decisioni veloci, pieni poteri ed «espertificazione» della politica. Partecipazione, democrazia, co-produzione di sapere poco si adattano alla logica dell’emergenza. In Campania l’emergenza è stata usata come una clava per piegare resistenze, chiudere gli spazi di decisione, imporre decisioni dall’alto. Ricordiamo ancora quando si parlava di emergenza sanitaria per costringere le comunità ad accettare qualunque tipo di sito di smaltimento di rifiuti; oppure quando si creavano emergenze ad arte con accumulo di rifiuti urbani nelle strade per imporre un piano per lo smaltimento dei rifiuti senza discussioni. Arrivò poi il tempo del governo Berlusconi, quando l’emergenza rifiuti si saldò con l’emergenza ordine pubblico che trasformò discariche e altri siti di stoccaggio in aree militari criminalizzando ogni possibilità di mobilitazione sociale.
La questione è che l’emergenza richiede decisioni rapide e tecnicamente ben informate. L’emergenza non è il tempo delle alternative, dei piani costruiti dal basso, delle sperimentazioni; l’emergenza è il tempo del tempo finito, quando occorre solo agire e agire subito. Questa era la narrazione emergenziale della Campania tossica.
Sebbene non abbiamo nessun dubbio sull’urgenza di interventi rapidi per fermare il cambiamento climatico, provenendo dalle nostre battaglie sul biocidio non possiamo che ribadire la convinzione che una vera risposta al cambiamento climatico possa solo partire dai territori e dalle comunità in lotta. Ci sembra, infatti, che concentrarsi sulla dichiarazione di emergenza climatica esponga il movimento a una duplice debolezza.
Anzitutto una debolezza narrativa. Lo stato di emergenza rimanda a quel sistema di dispositivi di governo che abbiamo descritto sopra che male si sposano a un progetto politico di radicale trasformazione della società. Le emergenze sono state più spesso dichiarate contro le rivoluzioni piuttosto che a loro supporto.
La seconda debolezza è metodologica e teorica al tempo stesso. Che il movimento renda visibile l’emergenza climatica è cosa buona e giusta. Tuttavia, lascia perplessi che chieda questa dichiarazione alle istituzioni. Ovviamente le istituzioni sono diverse, una scuola non è un parlamento e un governo cittadino non è la Mostra del Cinema di Venezia – avevamo chiesto loro di proclamare l’emergenza climatica in occasione dell’occupazione del Red Carpet e per la verità non hanno voluto fare neppure questo. In alcuni casi si tratta, forse, di una dichiarazione simbolica, un modo, a volte potenzialmente efficace, di veicolare l’urgenza della crisi climatica. In altri casi può rappresentare una cornice politica (o forse etica) nella quale inserire alcune misure concrete di governo di una comunità – dal bando della plastica in una scuola a politiche di mitigazione in una grande area urbana. Ovviamente può anche essere, soltanto, una dichiarazione a uso stampa, per fare un po’ di greenwashing senza nessuna misura concreta. Ma qualunque cosa sia, resta dal nostro punto di vista la contraddizione di affidare a una qualche autorità costituita (dal preside al sindaco) il potere di dichiarare l’emergenza e, dunque, di affidare a quell’autorità la soluzione del problema.
Se per ora queste dichiarazioni restano soprattutto simboliche o comunque piuttosto deboli di strumenti, resta da chiedersi cosa potrebbe succedere qualora invece diventassero più stringenti. Gli apparati securitari di controllo e repressione potrebbero facilmente mettersi al servizio di una certa logica dell’emergenza climatica, ad esempio basata sull’energia nucleare, l’ingegneria planetaria, o magari il controllo delle scarse risorse di acqua e cibo.
Davvero sarà il regime emergenziale a salvarci dalla crisi climatica? Oppure è più probabile che un regime emergenziale possa far sopravvivere ancora un po’ il capitalismo, malgrado la crisi climatica e le lotte sociali?
Alla luce della nostra esperienza di lotte ambientali contro il biocidio, ci sembrerebbe molto più efficace rivendicare lo stato di rivoluzione piuttosto che di emergenza climatica. Rivoluzione perché se è vero che vogliamo cambiare il sistema e non il clima, ci sembra molto più appropriato riprenderci lo spazio e il tempo della rivoluzione piuttosto che invocare lo stato di emergenza. Ovviamente parlare di rivoluzione climatica significa (ri)attivare una narrazione che è diametralmente opposta a quella emergenziale. La rivoluzione non si chiede al potere ma si fa contro il potere costituito. La rivoluzione non cerca soluzioni attraverso dispositivi tecnico-legali; la rivoluzione si prende il lusso di sperimentare, di cercare, di discutere e di partecipare. Il cambiamento climatico è sì una emergenza, ma una emergenza strana, di lungo periodo, almeno per quanto riguarda le cause, e con conseguenze che non riguardano tutti nello stesso modo. I regimi emergenziali spesso servono a proteggere lo status quo mentre qui c’è bisogno di un cambiamento radicale.
Dichiariamo lo stato di rivoluzione climatica. Qualcuno dirà che è utopistico, non è concreto e non cambia niente. Invece cambia tutto… E poi, con tutto il rispetto, non è che dichiarare lo stato di emergenza climatica ha portato finora a grandi risultati concreti. Varrà almeno la pena di provare con la rivoluzione.
*Marco Armiero lavora all’Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology, Sweden. Egidio Giordano è un attivista di Stop Biocidio e assessore alla Municipalità 3 del comune di Napoli.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.