Dirigenti Ford condannati per gli operai desaparecidos
La multinazionale in Argentina approfittò del golpe per mettere a tacere le lotte in fabbrica. Finalmente, oltre 40 anni dopo, le vittime hanno ottenuto verità e giustizia
General Pacheco è una località anonima che sorge nella parte più settentrionale del cordone industriale che circonda Buenos Aires. Camminando per le sue strade regolari e sbiadite ci si può imbattere in un cartellone che sovrasta l’ingresso di un grande stabilimento industriale:
In questo luogo, nel giardino della Ford Argentina, avvennero sequestri e torture durante la dittatura civico-militare.
La storia del collettivo di operai e donne, sorelle e spose, che per quarant’anni ha chiesto verità e giustizia per le violenze sofferte durante la dittatura del 1976-‘83 è un estenuante percorso attraverso aule di giustizia, denunce, amnistie e infine processi. È una storia che affonda le proprie origini negli anni precedenti, in un’Argentina industriale e operaia, un paese molto diverso da come appare oggi.
Le grandi imprese metalmeccaniche come Ford, Fiat, General Motors, Peugeot arrivarono nel secondo dopoguerra in Argentina col proposito di motorizzare un paese in via di sviluppo. Le multinazionali straniere si installarono tra Buenos Aires e Córdoba godendo di facilitazioni e sussidi statali e offrendo in cambio posti di lavoro e prodotti quasi sempre al di sotto degli standard produttivi dei paesi di provenienza. Quel particolare patto tra capitale e lavoro, tra la necessità di assorbire la disoccupazione e allo stesso tempo di generare profitti, sembrava funzionare in un paese nel quale le masse lavoratrici, organizzate in sindacati gialli, sembravano aver accettato le regole del gioco. In breve tempo lo stabilimento della Ford, inaugurato nel ’64, arrivò a impiegare più di settemila lavoratori, generando attorno alla fabbrica un processo di urbanizzazione e di stimolo dell’indotto.
Come ha raccontato al mio microfono Pedro Troiani, ex operaio della Ford Argentina,
A ventidue anni mi sono sposato, ho costruito questa casa… tutto il quartiere è stato tirato su così… un po’ come facevano gli immigranti italiani, come aveva fatto mio padre e mio nonno. Ho poi cercato un lavoro e sono diventato operaio della Ford.
Le grandi imprese nell’Argentina degli anni Sessanta e Settanta rappresentavano, con salari alti e welfare peculiare, una ambizione generazionale. Entrare alla Ford, alla Fiat o magari alla Olivetti significava spesso emanciparsi da una condizione precaria che moltissimi migranti vivevano nelle sterminate villas miseria che si aprivano all’improvviso nella periferia della capitale. Jorge Costanzo ricorda che «sarà stato il ’65, avevo undici anni, camminavo coi miei amici attorno alla fabbrica e dicevo “è una cosa enorme”, soprattutto per noi che vedevamo al massimo vacche e qualche cavallo… Era una cosa bella, stupenda, era il progresso, la Ford era grande come una città». Le storie del piccolo boom argentino sono tante, spesso proiettate sulla sagoma di una fabbrica, tese verso il miraggio di un benessere che si dimostrerà effimero, irraggiungibile.
Nel momento di maggiore attività, all’inizio del ’70, lo stabilimento della Ford impegnava i propri operai in tre turni giornalieri, producendo senza sosta le Ford Falcon, le auto dei famigerati squadroni della morte. Mentre gli operai della Ford molto spesso erano costretti a fare gli straordinari per rispondere alle necessità del mercato, le buste paga sembravano sufficienti a giustificare condizioni di lavoro durissime. Il progressivo miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori dimostrava che tanto gli operai come i padroni traevano benefico dalla produzione. Propato ricorda :
Noi, operai metalmeccanici eravamo dei piccolo-borghesi. Imborghesiti perché guadagnavamo bene. Allora molti si confondevano e credevano di essere diventati davvero classe media… e invece eri comunque un pobre obrero.
Il fragile equilibrio tra forza lavoro e capitale si ruppe all’improvviso, pochi mesi dopo l’esplosione del Sessantotto parigino. Nel maggio del ’69, il Cordobazo travolse la quotidianità di una fabbrica e di un paese che sembravano avviati verso un futuro di relativa stabilità. Alla Ford, come in tantissime altre imprese metalmeccaniche, le alte paghe non sembravano più i ritmi della catena di montaggio e le intossicazioni a cui erano sottoposti gli operai, che utilizzavano stagno e piombo per saldare le vetture. «È stato a quel punto che abbiamo capito che, sebbene l’impresa ti pagava la malattia, non gli importava il nostro benessere, a quello dovevamo pensare noi stessi» ricorda Propato.
Un gruppo di operai di base, ascrivibili al peronismo di sinistra, tra i quali spiccavano Troiani, Propato e Costanzo, si organizzò sindacalmente e convocò alcuni medici e militanti della Facoltà di medicina dell’Università di Buenos Aires per far valutare l’effettiva nocività del processo produttivo. Forti delle analisi che dimostravano una correlazione tra l’uso dello stagno e l’insorgenza di patologie, la commissione interna presieduta da Troiani aprì una vertenza contro la Ford.
«Lì abbiamo cominciato con gli scioperi. Lotte, boicottaggi, scioperi… Fino a quando hanno dovuto cedere».
La direzione della Ford fino ad allora aveva preferito monetizzare la salute dei lavoratori piuttosto che migliorare le condizioni sanitarie della fabbrica. Dopo quella vertenza gli operai si erano resi conto di occupare un posto sempre più importante in fabbrica. Gli scontri coi dirigenti della Ford, tra i quali l’ingegnere Pedro Müller, cecoslovacco naturalizzato argentino, erano all’ordine del giorno. La quotidianità si era fatta sempre più tesa, caratterizzata da una dialettica tra sindacato e impresa che vedeva quest’ultima, per la prima volta, nella condizione di dover negoziare coi lavoratori i piani aziendali.
Dopo la morte di Perón, nel ’74, la situazione precipitò. Con la crisi economica, accompagnata dal malcontento in fabbrica, dall’insorgenza delle organizzazioni guerrigliere e dalle azioni terroristiche dell’ultradestra, si profilò un classico scenario da colpo di stato. Esso, effettivamente, si materializzò il 24 marzo del 1976 quando i capi delle forze armate deposero la seconda sposa di Perón, Isabel Martínez.
Le fabbriche, così come le università, le organizzazioni politiche, ma anche le parrocchie furono i principali obiettivi della repressione. La giunta militare presieduta dal generale Videla giustificò il golpe come l’unica risposta possibile di fronte alle proteste, alla «sovversione» e al «caos» che avevano paralizzato il paese. Molti operai, secondo il ricordo di Troiani,
presero il golpe come un sospiro di sollievo. Il giorno del golpe abbiamo visto camion, carri armati, elicotteri e pensavamo che venivano per garantire la sicurezza di tutti.
La speranza che i militari potessero mettere ordine in un paese scosso da profonde tensioni sociali venne meno rapidamente. Ricorda Troiani che «il primo giorno hanno cominciato a portare via i delegati sindacali. All’uscita della fabbrica c’erano i militari e quelli della sicurezza della Ford… Dalla direzione ci hanno poi detto: «Da oggi in poi i delegati saranno i capisezione». Troiani e altri sei compagni vennero catturati pochi giorni dopo. L’obiettivo perseguito da Ford era chiaro: porre fine alla protesta in fabbrica e liquidare quel nucleo contestatario che negli anni precedenti aveva messo in discussione la legittimità del management industriale. Questo schema si replicò con modalità molto simili in altri stabilimenti, facendo degli operai l’obiettivo principale del regime. Il 13 aprile, il giorno della cattura di Troiani, come lui stesso ricorda, era già tutto pronto perché la commissione interna cadesse:
Il caposezione mi dice:‘Troiani non si muova dal reparto perché la stanno vigilando’, arrivano dei militari a un certo punto, chiedendo di me al caposezione e vedo che mi indica. Ci hanno preso così, davanti a tutti, mentre i compagni del reparto insultavano i militari.
Il gruppo dei sindacalisti fu condotto da una pattuglia nel giardino della fabbrica, il quincho, nel quale, durante un interrogatorio sommario vengono sottomessi a torture e pestaggi. Durante l’intera giornata si susseguono gli interrogatori. L’ossessione dei militari e dei dirigenti della Ford era di trovare tra i delegati sindacali i “sovversivi”.
Verso sera Troiani e i suoi compagni furono trasferiti al commissariato di polizia della vicina località di Tigre. Tutti gli spostamenti avvennero in piena clandestinità: non esistono registri ufficiali, notificazioni alle famiglie né verbali; si trattava della desaparición forzada. Nelle stesse ore in cui le torture nel commissariato di Tigre si avvalgono anche della picana elettrica, arrivarono i telegrammi di licenziamento «per abbandono del posto di lavoro».
De Giusti è catturato assieme a Propato e condotto nel giardino della fabbrica.
Ci hanno pestato, senza interrogarci… Ho perso la cognizione del tempo, ma ricordo che un militare ci ripeteva ‘Adesso ti faccio vedere io l’aumento dello stipendio’e allora ci picchiava ancora più forte.
Inginocchiati e incappucciati, i due operai furono sottoposti a finte fucilazioni e altre torture psicologiche, e infine condotti al commissariato di Tigre.
Il collettivo di delegati della Ford rimase tra i quaranta e i cinquanta giorni in quella condizione metafisica e aberrante del detenido-desaparecido, senza dar traccia di sé o poter far sapere a un familiare che si è ancora in vita. A quel punto Pedro e i suoi compagni vennero inseriti nel sistema carcerario legale e messi a disposizione del potere esecutivo. Il 1976 scorre in carcere, senza una accusa formale e senza la possibilità di poter dimostrare la propria innocenza.
Un anno dopo questo collettivo di operai ritrovò la libertà, ma continuando a soffrire costanti appostamenti da parte della polizia. Visite improvvise, pedinamenti e minacce segnando una quotidianità difficile, alterata. Gli operai che ho intervistato ricordano spesso come un trauma il modo in cui cambiò la loro relazione coi vicini, coi conoscenti: «non ti guardavano, erano terrorizzati. Ti vedevano per strada e si nascondevano. Avevano paura che salutarti li mettesse in pericolo». In quelle condizioni furono pochi gli ex Ford che riescono a reinserirsi nel mercato del lavoro. Nella maggior parte dei casi gli ex metalmeccanici ottengono impieghi in nero, appena sufficienti per sbarcare il lunario.
Memoria, verità e giustizia
La parabola discendente della dittatura fu scandita da due momenti: lo sciopero generale del 1979, che dimostrò alla giunta un crescente malcontento interno, e la sconfitta militare del 1982 nella guerra delle Falkland-Malvinas che mandò in frantumi quell’immagine marziale e solida del regime di Buenos Aires. Nel 1983, eletto come presidente Raúl Alfonsín, il collettivo di operai della Ford si organizzò per chiedere che venisse fatta giustizia per le violenze sofferte. In una lettera inviata al nuovo ministro degli interni gli ex Ford si definivano «morti sociali, perseguitati del regime».
A partire dal 1984 una Commissione nazionale, la Conadep, elaborò un complesso dossier che cercava di fare il punto sul destino dei desaparecidos. L’idea di quella ricerca, sostenuta dalle organizzazioni dei diritti umani, era di preparare una solida base documentaria per poter istruire i processi contro i perpetratori e i complici del regime. Nel 1984, dopo un lavoro estenuante, il celebre dossier Nunca más venne presentato al pubblico e sulla base di quel voluminoso documento cominciò il Juicio a las juntas, grazie al quale vennero condannati i vertici del regime.
Gli anni Ottanta furono un momento di straordinaria vitalità per il moltiplicarsi delle denunce dei crimini della dittatura. Esplose anche in Argentina l’era del testimone, quella particolare maniera di ricostruire il passato attraverso le voci delle vittime, teorizzata da Annette Wieviorka con riferimento al processo Eichmann. Fu così che sui mezzi a stampa, al cinema e in televisione fecero capolino le voci dei sopravvissuti. Eppure chi è stato vittima della dittatura, nonostante le testimonianze, è visto sempre con sospetto da parte dei vicini. «Se l’hanno portato via ci sarà un motivo» è forse la più comune e triste espressione attraverso cui la società argentina naturalizza la violenza militare, proiettando sulle vittime la responsabilità della loro sorte. Pedro Troiani, rincuorato da quel clima, si mette alla testa di un gruppo di ventiquattro ex operai che debbono affrontare prima di tutto una mutazione antropologica: non sono più metalmeccanici e sono percepiti dal resto dei conoscenti come persone fuori posto, ribelli, in ultima istanza disadattati. Cercando di rompere l’isolamento nel quale sono piombati, la commissione degli ex Ford cita in giudizio alcuni militari coinvolti con la loro desaparición. Nonostante si istruisca un processo, lo stesso è archiviato rapidamente, assieme a centinaia di altri, dato che nel 1987 viene licenziata la ley de obediencia debida con la quale venne concessa l’amnistia a tutti i militari coinvolti in reati contro l’umanità.
Tra l’87 e il 2003 l’Argentina si incamminò sulla strada dell’impunità seguendo il modello spagnolo della transizione post-franchista, evitando di fare i conti col passato. Il presidente Menem, di fronte alle rimostranze delle vittime della dittatura, apostrofò le abuelas come «las locas», le pazze, sostenendo che fosse meglio scordare il passato. Furono anni in cui le associazioni per i diritti umani debbono organizzarsi per conto proprio, accumulare prove e registrare testimonianze in vista di giorni migliori.
Nel 2004, in un nuovo clima progressista, una inattesa sentenza della Corte suprema rese nulle le leggi che proteggono i militari e in pochi mesi si aprì il vaso di Pandora: ripresero centinaia di processi e se ne istruirono di nuovi. Nel 2006 sarebbe arrivata la prima sentenza e, fino a oggi, sono stati condannati in 915 tra militari, poliziotti e civili, per i delitti commessi durante la dittatura. Nel 2014 il collettivo degli ex-Ford, sostenuto dalla Segreteria per i diritti umani dello Stato, prova nuovamente a far riprendere il processo, ma il suo inizio slitta al 2017.
La prima udienza del processo Ford ha un valore simbolico e storico: è la prima volta che sul banco degli imputati siedono i dirigenti di un’impresa accusati di complicità con la dittatura. Dato che un’impresa non può essere chiamata direttamente in causa, nel caso specifico sono quattro gli imputati: Pedro Müller, dirigente della Ford, Héctor Sibilla, responsabile della sicurezza dello stabilimento, Guillermo Galarraga, capo del personale – morto prima dell’inizio del dibattimento – e Santiago Riveros, l’unico militare coinvolto in quella vicenda. La tesi dell’accusa è, come testimoniano i sopravvissuti, che la Ford agì di comune accordo con gli organi repressivi della dittatura per sbarazzarsi del corpo di delegati che negli anni precedenti al colpo di stato aveva messo i bastoni tra le ruote all’impresa. Negli ultimi anni tra gli scienziati sociali e i giuristi si è fatto strada il concetto della «complicità padronale nella perpetrazione dei delitti contro l’umanità». Si tratta di un sostanziale passo in avanti rispetto all’analisi della dittatura, giacché vengono riconosciuti il ruolo e la responsabilità dalla società civile, gli imprenditori e i gruppi di interesse. Nel contesto della riapertura dei processi, gli organismi dei diritti umani hanno insistito per introdurre nell’agenda pubblica il concetto di dittatura «civico-militare», mettendo sul banco degli imputati non solo i castrensi, ma anche quei civili che furono i cosiddetti «complici economici» della dittatura.
Nel 2017, a esattamente quarant’anni da quei fatti, Pedro Troiani e i sette compagni sopravvissuti entrano nell’aula di tribunale e rivedono Müller e Sibilla e, come lo stesso Pedro ricorda, «sono andato a testimoniare con molta voglia, ho sentito che l’impotenza di quarant’anni d’attesa si è sciolta, gli ho potuto finalmente dire tutto in faccia». La preparazione del processo merita di essere ricordata dato che una composita compagine di giuristi, esperti di diritti umani, storici e sociologi compone il pool che sostiene le ragioni degli ex Ford. Come ricorda Victoria Basualdo, ricercatrice del Conicet, da anni impegnata su questi temi:
L’università è il luogo nel quale gli studenti e i ricercatori, attraverso i progetti di ricerca, devono articolare una collaborazione coi tribunali.
Il ruolo svolto dal mondo della ricerca ha assunto negli ultimi anni una crescente rilevanza, facendo sì che molto spesso tesi di dottorato o di master siano state utilizzate come prove nelle aule di tribunale.
Dopo un lungo dibattimento che ha cercato di smontare le tesi dell’accusa facendo forza sulle poche discrepanze presenti nelle testimonianze degli operai e sottolineando che i dirigenti della Ford non parteciparono alla repressione, è finalmente arrivata la sentenza di condanna per i tre imputati. Riveros è stato condannato a quindici anni di carcere, Müller a dieci anni e Sibilla a dodici. Nelle motivazioni depositate dal giudice è stata riconosciuta la responsabilità della Ford per i delitti commessi nel 1976, insistendo sull’aiuto logistico dato dai vertici della multinazionale ai militari. I giudici hanno riconosciuto che la presenza all’interno della fabbrica di un centro di detenzione clandestina testimonia la complicità dell’impresa col progetto «genocida» della dittatura. L’ultimo elemento che il tribunale ha messo in chiaro è che i delegati sindacali furono torturati e seviziati per l’azione sindacale svolta in fabbrica, riaffermando che uno dei grandi obiettivi della dittatura fu la disarticolazione del mondo del lavoro.
La sentenza è arrivata in un altro momento di transizione per l’Argentina. Proprio il 10 dicembre del 2019 assume l’incarico di presidente il peronista Alberto Fernández. Quello stesso giorno, dopo anni di gestione ambigua delle politiche pubbliche in tema di diritti umani, Horacio Pietragalla Corti, il nieto recuperado n. 75, viene nominato presidente della Secretaría de Derechos Humanos. Il giorno dopo si è tenuto un incontro con gli avvocati, le organizzazioni dei diritti umani, gli operai e i loro familiari in uno dei luoghi simbolo della dittatura – la famigerata Escuela de Mecánica de la Armada (ex-Esma), oggi trasformata in museo. Si sono presentati anche altri collettivi di vittime della dittatura, come gli operai della Mercedes Benz, quelli della Fiat e di altre decine di grandi fabbriche. Dopo due ore di discussioni chiude quell’emotivo incontro Ismael, un ex Ford che, percosso brutalmente nel ’76, aveva perso la vista in carcere. Ismael è teso; i pensieri che gli vengono alla mente sono tanti, la rabbia di trent’anni di attese non gli lascia articolare un discorso, decide allora di prendere la chitarra e cantare un brano che risuona in quei stessi padiglioni nei quali centinaia di militanti politici erano stati sequestrati e torturati. Ismael intona la strofa «probablemente ya de mí te has olvidado» ma quel giorno, in quella vecchia e tetra caserma, la parola olvido è solamente una parola.
*Camillo Robertini è uno storico italiano, ricercatore e docente presso l’Università di Buenos Aires. È autore per Le Monnier di Quando la Fiat parlava argentino. Una fabbrica italiana e i suoi operai nella Buenos Aires dei militari, (2019). Le interviste citate sono state raccolte a Buenos Aires tra il 2014 e il 2019
Le foto sono di Julián Athos Caggiano, fotografo e giornalista del Espacio de la Memoria (ex Esma).
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