Dopo il 15 marzo
Il successo dello sciopero globale per il clima affonda le radici nei movimenti degli anni scorsi. Adesso bisogna evitare che le élites annacquino la radicalità delle questioni che pone
Il 15 marzo del 2019, data del primo Global Strike for Climate, verrà ricordata come il giorno in cui Blockadia – la rete dei territori ribelli descritta da Naomi Klein in This Change Everything – ha rotto il muro della solidarietà tra le lotte per diventare espressione di una volontà generale e trasversale di chi ha riempito centinaia piazze di tutto il mondo per impedire la distruzione dell’ecosistema. In 2052 città di tutti i continenti milioni di studentesse e studenti, con il sostegno attivo di larga parte della cittadinanza, sono scesi in strada per quello che può essere considerato l’atto di nascita di un nuovo movimento globale contro i cambiamenti climatici.
La dimensione di questa giornata ricorda non solo la forza della marea di Non Una di Meno che solo una settimana fa – in un altro sciopero “atipico” come quello femminista dell’8 marzo – è esplosa in tutta la sua capacità mobilitante, ma la potenza, la creatività e l’immaginario del movimento No Global e dal movimento contro la guerra che all’inizio di questo secolo fu definito dal New York Times «la seconda superpotenza mondiale».
Come è nato tutto questo?
Le manifestazioni del 15 marzo sono state convocate dal movimento #FridayForFuture lanciato dall’attivista sedicenne Greta Thunberg. Come è noto, quest’ultima ogni venerdì manifestava davanti al parlamento svedese. Ha cominciato individualmente, poi man mano si è sviluppato un fenomeno collettivo. Questa protesta è riuscita a catalizzare l’attenzione nel suo paese fino a produrre un fenomeno di emulazione in tutto il nord Europa e infine, grazie a due interventi alla Cop 24 di Katowice e al forum economico di Davos, ad ottenere l’attenzione dei media di tutto il mondo.
La sua popolarità è dovuta alla capacità di mettere in campo con ostinazione messaggi di facile comprensione e conclamata autoevidenza: «Il clima sta cambiando, i governi non stanno facendo nulla per impedire la catastrofe climatica men che meno applicare il trattato di Parigi che hanno firmato, quindi è inutile pretendere di farci studiare se poi non ascoltate quello che dice la scienza». Tutto il suo discorso si fonda su due principi base: il diritto e il dovere delle nuove generazioni a pretendere la salvezza dell’ecosistema, la forza delle dimostrazioni scientifiche relative all’urgenza del cambiamento climatico. Un mix contenutistico e simbolico che, agganciando due temi forti come lo scientismo e il giovanilismo, è riuscito a fare breccia nel mainstream e a diffondersi in tutto il mondo.
Il movimento #FridayForFuture è già valso alla sua fondatrice la candidatura al Premio Nobel per la pace. È il simbolo più evidente del tentativo di normalizzazione di una battaglia dal carattere dirompente. La vera novità è che sia Greta – in particolar modo nel suo discorso di Davos – sia le principali connotazioni territoriali del movimento che ha innescato hanno messo fin da subito in connessione il tema del cambiamento climatico con quello del modello economico reclamando un system change che impedisca il climate change. Se, come dicono il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico e le Nazioni unite, abbiamo solo dodici anni per risolvere il problema è evidente che non ci sono tentennamenti, piccole riforme o piccole iniziative che tengono: il cambiamento o è repentino e radicale o non è.
Dopo aver cavalcato il fenomeno la stampa mainstream tenterà di relegare la battaglia per l’ambiente alla sua sfera etica e individuale, allontanando il più possibile la critica ecologica dai centri economici e politici del nostro modello sociale, magari promuovendo qualche fondazione in tutela dell’ambiente da far gestire alla nuova star mediatica.
Ma è proprio la tensione di critica al capitalismo delle nuove generazioni che hanno preso parte al movimento ecologista sceso in piazza il 15 marzo che deve farci riflettere su come quest’ultimo non sia nato dal nulla, non possa essere solo il frutto della determinazione di un gruppo di attivisti svedesi e del supporto della stampa globale. Nelle sue pratiche, nei suoi linguaggi e nei suoi contenuti, ma anche nei suoi protagonisti, questo fenomeno è chiaramente figlio della stagione dei movimenti che negli anni della grande crisi hanno lottato contro l’austerità e il neoliberismo, contro la presa capitalistica del mondo e delle sue risorse umane e naturali. Nasce dalla messa in discussione del modello economico e sociale da parte dei movimenti che da Occupy Wall Street agli Indignados hanno sfidato la pregiudiziale del There Is No Alternative. Soprattutto, siamo di fronte ad un processo che si trova in continuità con i movimenti ecologisti che hanno spinto nel 2015 i governi ad approvare l’accordo di Parigi sul clima e poi di fatto a disinnescarlo.
E in Italia?
L’Italia è stato il primo paese d’Europa per numero di eventi: oltre 230 in 182 città. Si calcola che 100 mila persone abbiano manifestato solo a Milano. Altre decine di migliaia sono scese in piazza Roma, Napoli, Palermo, Bologna e in numerosi altri centri.
Non bisogna stupirsi: questo paese non è affatto pacificato dal punto di vista dei conflitti ambientali. Negli ultimi anni le esperienze di mobilitazione sul tema dell’ambiente e in difesa dei territori hanno sempre dimostrato di saper costruire una grande presa di popolo, con piazze molto numerose e composizioni variegate e trasversali che andavano dalle parrocchie ai centri sociali. Il pluridecennale movimento No Tav in Val di Susa, il movimento contro le trivellazioni petrolifere nel mar Adriatico e le manifestazioni di Stop Biocidio in Campania, passando per il referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare o le centinaia di conflitti ambientali mappati nell’Atlante dei conflitti ambientali hanno tentato di costruire convergenze, con alterne fortune: i referendum del 2011 su acqua pubblica e nucleare, l’allarme creato dall’approvazione del decreto Sblocca Italia, la firma del trattato di Parigi e la creazione di una “coalizione clima” di 200 associazioni, il referendum contro le trivellazioni del 2016 e infine il percorso verso la mobilitazione del 23 marzo prossimo “per il clima e contro le grandi opere inutili” promossa da numerosi movimenti territoriali e nazionali. Queste lotte, insieme ai sempre più numerosi rapporti scientifici che segnalano il disastro in arrivo, hanno contribuito negli ultimi anni ad un sensibile aumento della coscienza collettiva sulle problematiche ambientali e sulla loro collazione sistemica ed economica piuttosto che individuale ed etica.
La composizione delle piazze – prevalentemente studentesche – è uno dei cardini della costruzione dei Friday For Future. Ma ad ogni evento, messo in piedi molto spesso utilizzando come unico strumento di coordinamento le chat, la partecipazione è stata numerosa, eccedente rispetto alle mobilitazioni studentesche autunnali. Tra le eccezioni è da segnalare la partecipazione – molto spesso su spinta del corpo docente o dei genitori – delle scuole medie e dell’infanzia, sintomo della capacità del messaggio di Greta Thunberg di incidere nella coscienza collettiva. Per settimane il flusso social e l’agenda mediatica sono stati costretti ad inseguire e quindi a diffondere capillarmente la situazione allarmante in cui si trova il pianeta, una mobilitazione crescente da parte degli studenti di tutto il mondo e la voce di una ragazza svedese che denunciava l’individualismo e la responsabilità dei ricchi e dei potenti di tutto il mondo.
Il Global Strike for Climate e le mobilitazioni continue di #FridayforFuture ci consegnano una formula mobilitativa in grado di sedimentare all’interno di determinare un innalzamento complessivo del grado di coscienza della crisi ambientale e di conseguenza di misurare la distanza tra quello che andrebbe fatto e quello che invece (non) si sta facendo.
Un piano per l’ecosistema
Ma non può bastarci l’applicazione degli accordi di Parigi – nella loro genericità – e il predominio della visione scientifica sui cambiamenti climatici. Mentre negli Usa, in un dibattito particolarmente stimolante ospitato anche da Jacobin, è viva la discussione sul “Green New Deal” e sull’impegno straordinario necessario ad applicarlo, finanziarlo e portarlo avanti, in Italia non c’è niente di simile. “Un piano per l’ecosistema” ancora non esiste e ad oggi è difficile immaginare un soggetto in grado di proporlo, il luogo in grado di ospitarne il dibattito pur avendo gli ambiti e gli spazi di mobilitazione in grado di renderlo corpo vivo dell’agenda politico. Eppure questo governo ha dimostrato sul tema ambientale contraddizioni esplosive: da un lato il continuo tradimento delle aspettative popolari e territoriali dei pentastellati, dall’altro il negazionismo climatico medievale di una Lega sempre più subalterna alle lobby e alle tematiche dell’internazionale sovranista di Steve Bannon. Lo spazio ci sarebbe, eccome.
Un piano per l’ecosistema necessario a superare la mancanza di una programmazione economica e industriale; a smontare la retorica dell’ “apriamo tutti i cantieri” e “produciamo comunque” purché si lavori; a fermare lo sfruttamento di suolo e l’inquinamento dell’aria; a elettrificare il trasporto privato e diffondere quello collettivo; a immaginare un piano di riqualificazione delle abitazioni popolari sotto il più elevato standard di efficientamento energetico; a imporre massicci investimenti pubblici in energie rinnovabili diffuse sui territori; a incentivare l’economia circolare; a determinare la riconversione industriale del paese; a tutelare le riserve idriche e manutenere i territori. Dunque, serve uno spazio di proposta complessivo, in grado di quantificare e sostanziare il “cambio di sistema” che da domani dovrebbe essere approvato nel Paese e di fare tutti gli sforzi necessari affinché diventi parte di una proposta comune europea.
Oltre alla questione climatica sono tre le sfide che dopo il successo del Global Strike il movimento #FridayforFuture ha di fronte a sé e che ne determineranno la potenza politica sul medio termine. In primo luogo la continuità: il mantenimento delle reti che hanno costruito le piazze di oggi e il sostegno politico delle organizzazioni sociali – compreso il tardivo sostegno sindacale della Cgil di Maurizio Landini – preservando la propria autonomia di movimento e di protagonismo. I movimenti del nostro paese devono capire che non basta produrre grandi eventi (LA grande giornata di lotta, LA grande manifestazione), mentre in tutto il mondo si ragiona e ci si mobilita riappropriandosi del tempo e della continuità contro la volatilità dell’attenzione e delle news in un mondo iperconnesso. Dalle piazze occupate stabilmente agli “atti” dei Gilet Gialli, dalle mobilitazioni dell’Est Europa fino ad arrivare agli stessi scioperi del venerdì di Friday For Future in nord Europa, queste modalità di lotta hanno dimostrato una potenza inedita di rivendicazione verso i governi dei rispettivi paese. Mi auguro che sia arrivato il momento anche per l’Italia, a maggior ragione con questa debolezza di governo, di sperimentare questa forma di lotta e di pressione politica. La seconda sfida è quella della rappresentanza: a breve – in realtà sta già succedendo – ci sarà la corsa ad ergersi rappresentanti politici ed istituzionali di questo movimento e delle sue sensibilità . Ovviamente è un bene che si sia imposta la necessità a chiunque concorra per le cariche pubbliche di parlare ed esporsi sul tema climatico, ma in assenza di proposte definite il rischio è che la rappresentanza non si traduca in proposte adeguate. In questo senso la rivendicazione di Extinction Rebellion di pretendere “verità” dai governi sul cambiamento climatico e un sistema di discussione e consultazione pubblico in cui discutere e decidere delle soluzioni con tutti i cittadini e i soggetti collettivi può rappresentare un’ottima via alternativa alla già piazzata trappola della rappresentanza.
Infine, la necessità dell’intersezionalità delle lotte. Questo movimento otterrà il cambiamento di sistema che rivendica se e solo se sarà in grado di connettersi alla marea di Non una di Meno, alle mobilitazioni contro le mafie, alle lotte contro la precarietà e per i diritti del lavoro, alla battaglia per i diritti civili e per l’accoglienza contro ogni razzismo. Oggi si è accesa una nuova scintilla di speranza, speriamo si unisca alle altre per fare una fiamma in grado di incendiare le praterie del nostro sfruttamento.
*Stefano Kenji Iannillo è attivista Arci Avellino, è stato membro della delegazione italiana alla Cop22, del comitato referendario contro le trivellazioni e fa di movimenti ecologisti come Stop Biocidio.
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