Due assemblee
La battaglie contro il Ddl sicurezza e lo sciopero generale come occasione di convergenza, secondo l’esempio della lotta della Gkn, assieme alla giornata contro la violenza maschile determinano un clima nuovo
Le strade giuste da intraprendere spesso vengono offerte da iniziative apparentemente parziali, ma rapidamente destinate a caricarsi di una valenza generale. È il caso delle due assemblee nazionali che si sono svolte il 16 e 17 novembre, una alla facoltà di Lettere della Sapienza, contro il ddl Sicurezza e l’altra a Firenze nella giornata di «Festa o rabbia» indetta dal collettivo di fabbrica della Gkn.
Due assemblee che, innanzitutto, si sono parlate con la presenza di Dario Salvetti, della Gkn, all’assemblea di Roma e che sono destinate a parlarsi perché fortemente intrecciate sono la questione del lavoro sollevata dalla lotta della fabbrica di Campi Bisenzio e la stretta autoritaria che si sta per abbattere non solo sui movimenti sociali e di protesta, ma sul paese tutto. E si parlano anche per il messaggio unitario e di disarticolazione dei vari steccati che troppo spesso anche i movimenti sociali, o le associazioni che li sorreggono, innalzano gli uni contro gli altri, in una sordità reciproca che non fa che peggiorare la condizione in cui si trova l’opposizione sociale in Italia.
Due assemblee che si parlano, dunque, innanzitutto perché la logica che ispira il Ddl Sicurezza non è semplicemente giuridico-normativa, ma ha una valenza sociale. L’idea di regolare a colpi di manganelli la protesta in strada, di criminalizzare le persone in detenzione – peggiorando la condizione, ad esempio, degli immigrati o delle stesse donne incinta – le lotte degli occupanti di case, degli studenti, degli operai che fanno blocchi stradali e degli ambientalisti radicali e addirittura dei consumatori non solo della marjuana ma della innocua Cbd, descrive una fase nuova nella vita del governo Meloni. Il nuovo centrodestra a trazione post-fascista, pur entrando al governo con un messaggio di durezza politica e di contrapposizione frontale alle ragioni di movimenti e lotte sociali, non era andata finora oltre l’emanazione di norme punitive, ma simboliche, come il decreto sui rave party. Misura allarmante, sia chiaro, incaricata di punire i presunti comportamenti «devianti» e che fa il paio con le manganellate contro gli studenti, con le arringhe contro i migranti e in particolare con l’accordo Italia-Albania.
Ma con il Disegno di legge 1660, il Ddl Sicurezza, si fa un salto in più: come scrive Giuliano Santoro nel numero di Jacobin Italia che uscirà a inizio dicembre, «il pacchetto di norme presentato dai ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa istituisce 27 tra nuovi reati e inasprimenti di pena e contiene praticamente tutto il campionario delle questioni sociali trasformate in emergenze da reprimere». Come ha detto Zerocalcare, intervenuto all’assemblea di Lettere del 16 novembre, «ognuno di quelli che è qui è destinatario di un provvedimento di quel disegno di legge».
La logica è evidente, la criminalizzazione del dissenso è un fiore all’occhiello della coppia Meloni-Salvini che proprio sull’aggressione a chi manifesta basa una stucchevole, quanto pericolosa, competizione interna al governo per conquistare il primato della ferocia sociale. E se si volesse avere un assaggio di come intendono gestire quel pacchetto di norme liberticide i rappresentanti della destra, basta sintonizzarsi sulle parole, ridicole nei modi ma pesanti nei contenuti, utilizzate da Matteo Salvini contro «le zecche rosse» o «i centri sociali da chiudere» dopo le manifestazioni bolognesi contro la sfilata delle camicie nere di Casapound. Postura immediatamente superata a destra da Fratelli d’Italia che per commentare le manifestazioni studentesche del 15 novembre, con immagini in fiamme (non sempre efficaci occorre dire) di fantocci con il volto del ministro Giuseppe Valditara, ha creato una campagna social contro un semplice insegnante, Christian Raimo, accusato di essere il «cattivo maestro» delle proteste stesse. E questo per essere stato Raimo protagonista di giudizi politici molto netti contro Valditara che gli sono costati una sospensione dal servizio e il dimezzamento dello stipendio. Misure da regime repressivo e autoritario.
Il governo si è quindi buttato a corpo morto in questa nuova impresa, ringalluzzito dalla vittoria di Donald Trump negli Stati uniti. L’idea che ci sia un «vento di destra» in azione in tutto il mondo che può beneficiare le forze più estreme e i messaggi più violenti – violenza rafforzata proprio dal pulpito istituzionale da cui emanano – ha messo nuovo carburante nel serbatoio xenofobo e antisociale della compagine di centrodestra e questo volto verrà mostrato in forma ancora più decisa man mano che la competizione interna al governo andrà avanti e che la destra estrema mieterà i propri successi in altri paesi (a febbraio ci saranno le elezioni anticipate in Germania con risultati attesi che fanno rabbrividire).
Questa determinazione serve a intimidire il conflitto sociale. Ne fanno già le spese gli studenti medi e universitari, quelli più pronti a rispondere attivamente alla cappa normalizzatrice che proviene dalla destra, ma il messaggio è destinato anche alle lotte più rilevanti sul piano produttivo e sociale, quelle operaie. Ne è spia il modo in cui la destra di governo, e di stampa, ha accolto l’invito alla «rivolta sociale» fatto dal segretario della Cgil, Maurizio Landini. Un invito da tempo assente nel linguaggio della sinistra politica e sindacale, appropriato nella situazione di stallo in cui si trova il conflitto sociale e proprio per questo indicato come uno scandalo rivoltante dai nuovi benpensanti di destra. Anche Landini ha potuto godere della definizione di «cattivo maestro» (ma le sue spalle sono ovviamente più forti di quelle di Raimo contro cui la violenza di governo è indicativa della sua pericolosità), inaccettabili per un sindacato che non ha mai avuto nella sua storia contiguità sospette con fenomeni eversivi.
In questo quadro si organizza lo sciopero generale del 29 novembre indetto dalla Cgil insieme alla Uil (mentre la Cisl prosegue la sua politica di compromesso sociale ultra-avanzato). La pratica dello sciopero generale indetto un po’ a freddo, in termini di mobilitazione politica, senza un’adeguata radice sociale, è questione che meriterebbe una riflessione attenta da parte del sindacato e delle forze sociali più coinvolte. Si rischia, con una pratica che assume il sapore di una ritualità, di perdere la forza intrinseca della più forte parola d’ordine che il movimento operaio ha avuto nella propria storia. Ma in questa occasione lo sciopero generale indetto da forze sindacali che pure sono criticabili per le posizioni politiche assunte – critiche che non a caso arrivano da diversi sindacati di base – è una risposta inevitabile a un governo del tutto impermeabile alle richieste sociali e che si dispone a uno scontro frontale con i soggetti che quelle richieste rappresentano. Proprio per questo la giornata del 29 si sta caricando di domande più generali e diffuse: la stessa assemblea di Roma, nel promuovere una manifestazione nazionale il 14 dicembre ha dato appuntamento alla giornata del 29 che diviene così un punto di incrocio per filoni di mobilitazione diversi tra loro. E così ha fatto l’assemblea-manifestazione di Firenze.
Nell’approccio alla propria lotta che gli operai ex Gkn stanno diffondendo ovunque da ormai più di tre anni proviene un significato peculiare della partecipazione allo sciopero generale con l’obiettivo di generalizzarlo. Come ricordato dalla giornata del 17 novembre, le recenti aperture della Regione Toscana a una legge regionale che consenta di creare un consorzio per la riconversione produttiva dello stabilimento di Campi Bisenzio attenua un po’ «la rabbia» operaia, e della comunità solidale che in questi tre anni si è raccolta, in Toscana e in Italia, attorno a questa vertenza, ma non permette di dare vita alla «festa» perché il percorso tracciato dalle Istituzioni è lungo e gli operai da 11 mesi senza stipendio non sanno quanto riusciranno a resistere. La recente vendita dello stabilimento da parte della società proprietaria, la Qf, a una sua controllante dalla vocazione immobiliare, offre la misura delle volontà di speculazione e dei rischi enormi connessi alle manovre aziendali spalleggiate, finora, dal governo. Il rischio di essere di fronte a una nuova manovra di logoramento della lotta operaia è sempre presente e ben chiaro al collettivo che anima questa vertenza. Che ormai non è più una semplice vertenza, ma costituisce uno spaccato, verticale, della lotta di classe in Italia, con una valenza strategica, quella della riconversione e della «riappropriazione» della fabbrica. Il Collettivo di fabbrica ha chiaro che per rompere il meccanismo retorico delle destre al governo che scaricano la responsabilità dei problemi sociali proprio su chi lotta contro di essi, servono non solo lotte difensive ma progetti e visioni concrete in grado di costruire un’altra società.
In questa vocazione strategica è compresa l’idea della «Convergenza», un’unità delle lotte non solo di facciata o congiunturale, ma programmatica e complice. In nome della convergenza la giornata del 29 novembre viene attraversata per dare luce e linfa alla singola lotta e contribuire a creare una movimentazione più vasta. A questo servono gli scioperi e quelli generali, poi, dovrebbero riuscire a fermare tutto, a bloccare il paese, a infondere maggior coraggio e fiducia a lavoratori e lavoratrici e a tutto quel mondo che si dispone a convergere con loro. Questo è il messaggio che viene dall’assemblea del 17 novembre: rendere lo sciopero più efficace, più utile, sociale e diffuso. Convergente. Per poi raggiungere risultati più avanzati – e nelle intenzioni della ex Gkn, della Soms Insorgiamo, delle organizzazioni «sorelle» che hanno proposto di convergere più solidamente e progettualmente in questa vicenda c’è anche una «campagna d’inverno» di mutualismo e resistenza per mantenere in vita il progetto più generale di reindustrializzazione ecologica. A questo possono servire gli scioperi.
Due assemblee, distinte, quindi ma potenzialmente convergenti in un filo di iniziative unitario, cui va aggiunta la giornata nazionale contro la violenza maschile sulle donne e di genere del 23 novembre con i due cortei di Roma e Palermo. Non si tratta di una giustapposizione, ma di un discorso comune perché non può esserci lotta sociale progressiva e vincente se non incorpora il rifiuto definitivo del patriarcato, della violenza sessuale, dell’oppressione di genere. Ne viene fuori un filo di perle di iniziative che possono determinare un clima nuovo anche a sinistra. Non perché foriere di chissà quali progettualità politiche, ma perché supplenti sociali di un’opposizione politica che non ha armi e voce per contrastare la determinazione rabbiosa della destra di governo. Ancora una volta la possibilità di fermare la barbarie risiede in forze che non hanno nulla da perdere se non le proprie, insopportabili, oppressioni.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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