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E se le scuole sperimentassero lo schwa?

Rossella Benedetti Carlo Scognamiglio 6 Dicembre 2021

Se tra studentesse e studenti comincia a diffondersi il ricorso alla lettera schwa, l'istituzione scolastica più che assumere una posizione conservativa dovrebbe avere il coraggio di avviare percorsi di sperimentazione linguistica

In un’intervista pubblicata lo scorso 14 novembre su La Lettura (inserto domenicale del Corriere della sera), il filosofo Timothy Morton, discutendo del proprio ultimo libro (Ecologia oscura), chiede all’intervistatrice di rispettare nella trascrizione la propria identità di genere non binaria, ragion per cui – ci avverte Alessia Rastelli, che conduce il dialogo – si ricorre nella pagina all’uso dell’asterisco, qualificando l’autore del volume come «filosof*». La richiesta di restituzione linguistico-espressiva della propria identità di genere è una richiesta di riconoscimento. Ma lo stesso emergere di una simile istanza è rivelatorio di una condizione di privazione.

Pochi mesi fa il drammaturgo Alessandro Izzi ha pubblicato un atto unico (Nel silenzio della legge, Il Convivio Editore), tra l’altro vincitore del premio Giuseppe Antonio Borgese, in cui si racconta con intelligenza e malinconia la condizione di alcuni omosessuali costretti al confino dal regime fascista, sull’isola di San Domino, nell’arcipelago delle Tremiti. C’è un passaggio, nel testo, che svela l’amarezza di fondo dell’intera vicenda, che va ben oltre la tragedia della dittatura fascista. Uno dei personaggi, riflettendo sulla sua vita passata e comparandola con la sua condizione di deportato, osserva che, per uno strano scherzo delle circostanze, da uomo libero viveva una condizione di prigionia in certo senso più aspra rispetto alla dimensione del confino. La società italiana degli anni Trenta e Quaranta, infatti, costringeva gli omosessuali – «nel silenzio della legge», appunto, non essendovi una normativa esplicita – a occultare la propria identità, a vivere in una negazione perpetua di sé. Una condizione psicologico-relazionale dalla quale erano paradossalmente dispensati durante il confino: nonostante l’ostile condizione di prigionia, non si chiedeva loro di nascondere il proprio orientamento sessuale. Con la sua brutale rozzezza il fascismo ha dunque fatto affiorare all’evidenza un quadro repressivo e discriminatorio più ampio, il cui perimetro «circondariale» risulta indefinibile a causa di una diffusa attitudine alla condanna sociale: un orizzonte omolesbobitrasnfobico culturalmente violento, che precede e – ahinoi! – sussegue lo stesso ventennio. Alcune pulsioni di questi mesi, durante il dibattito sul Ddl Zan, hanno fatto riemergere scampoli di quella sub-cultura. 

Sempre in questo 2021, si registra uno strepitoso successo per il bellissimo romanzo della scrittrice transessuale Camila Sosa Villada (Le cattive, Sur), nel quale viene presentato in modo straordinariamente poetico e tangibile il vissuto esistenziale e lo sguardo sofferente di una dimensione sessuale e identitaria completamente incompresa dal sistema sociale in cui abitiamo, squarciato da un incipit dirompente: una prostituta trans trova un neonato abbandonato in un cespuglio e – insieme alle sue compagne – si fa carico di questa dimensione genitoriale, innescando una piccola esplosione culturale, per le conseguenze che ne derivano.

La stessa politica, almeno a livello europeo, si è fatta finalmente carico della questione approvando una strategia europea per le pari opportunità delle persone Lgbtqi+ il cui incipit recita:

Ognuno di noi nell’Unione europea dovrebbe sentirsi al sicuro e libero di essere sé stesso. La nostra forza sociale, politica ed economica deriva dall’unità nella diversità: l’uguaglianza e la non discriminazione sono valori centrali e diritti fondamentali nell’Ue, sanciti dai trattati e dalla Carta dei diritti fondamentali.

I tempi sono maturi, dunque, per capire che una parte della nostra società non si percepisce accettata, riconosciuta, compresa, desiderata, da quella che con termine ormai svuotato da un significato (persino matematico), continuiamo a chiamare «maggioranza»? Non abbiamo ancora compreso – dopo i totalitarismi del Novecento – la meraviglia dell’estrema diversità nello stare al mondo? E se lo abbiamo compreso, lo sappiamo dire?

Non vi è dubbio che la lingua scritta e parlata, nel modificarsi mediante l’uso, produca effetti sui processi cognitivi, sull’immaginario e sulla complessità del pensiero. Superfluo dunque tornare su Vygostkij, o sugli innumerevoli studi di sociolinguistica e psicologia sociale (su tutti, i magnifici lavori di Chiara Volpato). Gli esperti di marketing e neurolinguistica conoscono in dettaglio gli effetti immaginativi prodotti – anche per associazioni inconsapevoli – dalla ricorsività persino di una singola vocale all’interno di una parola. Sono temi fin troppo noti, per necessitare di una rievocazione. La scelta delle parole, delle metafore, delle costruzioni sintattiche, incide sensibilmente sul pensiero, che ovviamente si articola prevalentemente attraverso le parole. 

Si è a lungo discusso negli anni dell’uso del maschile sovraesteso, o della formula unicamente maschile nell’indicazione di alcune professioni, come forma perpetuata di discriminazione nei confronti delle donne. La lingua si è sviluppata nei secoli seguendo processi di accomodamento all’uso, in società che propongono determinati rapporti sociali e ne determinano l’evoluzione. Se, come ci ricordano i titoli di coda del recente film ispirato al romanzo La scuola cattolica, fino al 1996 lo stupro non era considerato un reato contro la persona, bensì contro la morale pubblica, è del tutto evidente la ragione per la quale la società italiana non ha percepito per lungo tempo la necessità reale di un adeguamento linguistico, perché come ben sapeva Ferdinand de Saussure, le strutture mutano molto lentamente.

Tuttavia è sempre più frequente, nei documenti politici studenteschi, fin dal liceo, osservare il ricorso alla lettera schwa (ə – una lettera non presente nella lingua italiana ma utilizzata spesso, a volte alternata con l’asterisco, come ultima vocale, quasi come un genere neutro, per evitare una caratterizzazione di genere di parole riferentesi a condizioni personali). Le studentesse e gli studenti conoscono il dibattito in corso, e spesso fanno riferimento infatti al problema del «linguaggio inclusivo». Docenti e istituti scolastici coraggiosi hanno da tempo avviato piccole iniziative miranti a sensibilizzare le comunità di riferimento sulla questione della diversità, sfidando le inevitabili contestazioni.

Un’analisi molto compiuta di questa proposta di scrittura, può essere facilmente ritrovata nel brillante ed esaustivo articolo di Alessio Giordano sulla rivista della Treccani Il Chiasmo, con il quale si definisce in modo chiaro il rapporto tra genere sociale e lingua italiana, a partire da una serie di problemi sociali di riconoscimento (ad esempio della sessualità non binaria, della cosiddetta condizione «intersessuale», et similia), ma anche di parità.

Anche la sociolinguista Vera Gheno, intervistata per MicroMega da Cinzia Sciuto, spiega che l’uso dello «schwa» è senz’altro un esperimento, ma pare del tutto miope considerarlo un esperimento dall’alto, perché risponde a sollecitazioni che stanno emergendo in modo sempre più vistoso: le sensibilità stanno cambiando. Se paragoniamo il fenomeno all’accettazione di nuove parole e all’abbandono di vecchie terminologie, il passo è più chiaro. Non accettiamo più il ricorso a espressioni esplicitamente razziste, come invece la letteratura fino a poco tempo fa non aveva disagio a fare. Da una decina d’anni invece ci siamo abituati a usare – nel linguaggio ordinario – parole fino a poco prima mai pronunciate, come «inclusione» o «resilienza». Per non parlare di sigle o espressioni anglofile. Certamente introdurre vocali inesistenti o fonemi del tutto estranei alla nostra lingua non è la stessa cosa, non si è mai visto – se non forse rarissimamente – un cambiamento linguistico che preveda una ristrutturazione così radicale. 

Però il fatto sociale sta avvenendo. La percezione di un mancato riconoscimento dell’altro, che a questo punto comincia a trovare la forza di ribadire la propria esistenza e i propri diritti, stanno bussando anche alla porta della lingua scritta e parlata. Che ci piaccia o meno, il nostro modo di esprimerci dovrà cambiare.

Ragioniamo adesso sulla scuola come istituzione, perché forse non può esimersi dal decidere se partecipare o meno a una simile «sperimentazione» comunicativa. Quando Cinzia Sciuto chiede a Vera Gheno se lo schwa rappresenta una sorta di manifesto politico, la risposta è particolarmente interessante: 

Al momento sicuramente sì. Se io apro un post su Fb scrivendo «Carə tuttə» sto segnalando una mia precisa posizione politica, sto dicendo fin dalla prima riga che mi pongo in una posizione di apertura e accoglienza nei confronti di esigenze di cui riconosco la legittimità. 

Ma non è questa, almeno nelle aspirazioni, una posizione intrinsecamente educativa, prima che politica? 

Analogamente Alessio Giordano, rispondendo alle critiche di Paolo D’Achille, conclude con una domanda che esige una risposta: «La lingua che parliamo è forse più importante del diritto altrui di sentirsi rispettatз?».

Se tra le studentesse e gli studenti comincia a diffondersi il ricorso alla lettera schwa, come dovrebbe porsi l’istituzione formativa più importante del paese? Assumere una posizione di conservazione, oppure avviare percorsi di sperimentazione linguistica? Interessanti progetti nei sistemi scolastici di altri paesi europei, per certi versi più avanzati di noi su questo terreno, insistono molto sull’ascolto delle pratiche e delle testimonianze studentesche, riconoscendo alle giovani generazioni una maggiore consapevolezza sulle nuove sensibilità, proponendo anche adeguamenti del curricolo. Purtroppo, ogni tentativo di avviare una riflessione, fatto finora da singoli docenti, è stato prontamente soffocato dal timore di alcuni nei confronti della diversità. Con buona pace della libertà di insegnamento.

È dunque possibile ipotizzare, anche per le nostre scuole, l’avvio di pratiche sperimentali di attenzione linguistica in alcuni segmenti della loro comunicazione? Non si tratta qui di modificare l’intera modulistica scolastica, ma di provare a spingere, come soggetti educativi, nella direzione dell’ascolto e del riconoscimento. Molte scuole sfruttano anche i canali di comunicazione social per diffondere le proprie iniziative. In quei contesti, potrebbero forse iniziare a sperimentare l’uso della lettera schwa o di dispositivi analoghi per superare un modello linguistico che – se non discriminatorio – è quanto meno limitato. In fondo, l’istituzione scolastica non farebbe che attuare le sollecitazioni contenute in tutti i documenti dell’Unione europea, dell’Onu e di altre istanze internazionali che trattano di pari opportunità, lotta ai comportamenti discriminatori, rispetto della diversità e che molti tirano fuori dal cassetto solo per le occasioni celebrative ufficiali.

*Rossella Benedetti è insegnante di lettere nella scuola superiore. Dal 2015 è la presidentessa del Comitato Pari opportunità del Csee, federazione sindacale europea nel settore dell’istruzione. In questa veste partecipa regolarmente alle riunioni di alcuni gruppi di lavoro della Commissione europea.
Carlo Scognamiglio insegna Filosofia e Storia presso il Liceo Scientifico Cavour di Roma ed è docente e vice-presidente di Irase-Roma. Ha insegnato come docente a contratto di discipline filosofiche presso le università Sapienza, Romatre, e S.Tommaso D’Aquino. Scrive per MicroMega, Roars e altre riviste italiane e internazionali. Collabora come consulente didattico per la manualistica scolastica con la casa editrice Zanichelli e dal 2020 dirige la collana pedagogica Summerhill per la casa editrice Stamen.

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