«Ecco perché parliamo di genocidio»
Dopo le parole di papa Bergoglio, la relatrice speciale Onu per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese spiega in che modo l’esercito israeliano sta agendo per cancellare la vita a Gaza
Dall’inizio della devastante guerra di Israele contro la popolazione di Gaza, tredici mesi fa, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati, ha acquisito fama internazionale come cronista pubblica, anatomista legale e oppositrice politica del genocidio. Nominata nel maggio 2022, il mese in cui le forze israeliane hanno assassinato la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh a Jenin, l’avvocatessa internazionale per i diritti umani ha prodotto una serie di rapporti ufficiali che descrivono in dettaglio il regime di apartheid di Tel Aviv, la sua strutturazione della Cisgiordania come «panopticon a cielo aperto costantemente sorvegliato» attraversato da insediamenti coloniali e, dallo scorso ottobre, i suoi crimini di genocidio contro i palestinesi.
Rivendicando nei forum internazionali la richiesta urgente di un cessate il fuoco immediato e incondizionato e di una mobilitazione globale di tutte le forme di pressione sullo Stato israeliano, Albanese è stata sottoposta alle stesse campagne diffamatorie che tutti i sostenitori della liberazione palestinese conoscono. Ora, di fronte alle recenti richieste delle organizzazioni di difesa israeliane di impedirle di entrare nei campus universitari occidentali, la relatrice speciale ha intrapreso un tour di conferenze nelle università di Londra, nel quale parla dell’attuale genocidio di Israele e del ruolo (e dei limiti) del diritto internazionale e dei diritti umani nel resistergli. Mentre il cosiddetto piano dei generali delle Forze di difesa israeliane per la pulizia etnica della parte settentrionale di Gaza procede e mentre sempre più bambini palestinesi e libanesi si uniscono alle migliaia e migliaia di persone massacrate, tutti quelli che hanno ascoltato il discorso di Albanese alla Soas University of London hanno riconosciuto che il momento non potrebbe essere peggiore.
Avvicinandomi al campus fuori Russell Square, inizialmente ho scoperto che il mio percorso attraverso gli accessi alla Soas era bloccato da uno stallo che componeva un microcosmo: dimostranti pro-sionisti brandivano bandiere israeliane e manifesti con la scritta «Ban Fran» e cantavano «I-I-Idf», fiancheggiati dalla polizia e, tra loro e l’università, una schiera pro-palestinese considerevolmente più numerosa, più rumorosa, più giovane e più diversificata, composta per lo più da studenti e studentesse. Applausi e tamburi si alzavano mentre salutava la folla radunata, ma l’accoglienza da celebrità di Albanese ha reso più drammatica la risonanza avvertita dai sostenitori della campagna pro-Palestina tra la sua posizione internazionale per il popolo di Gaza di fronte all’attacco personale e il loro attivismo di fronte alla repressione disciplinare alla Soas.
La dottoressa Michelle Staggs Kelsall, codirettrice del Centre for Human Rights Law dell’istituto, ha aperto i lavori una volta che l’evento, strapieno, è finalmente iniziato con la dichiarazione in base alla quale «siamo solidali con Francesca Albanese contro i tentativi di mettere a tacere la sua voce potente e coraggiosa». Laureata in disciplina dei diritti umani alla Soas, Albanese ha messo a confronto le sue competenze giuridiche con il suo ex docente, il professor Lynn Welchman, e con un altro ex studente di quella scuola, David Lammy, dopo la recente affermazione del ministro degli esteri in Parlamento secondo cui l’uso dell’accezione di «genocidio» per descrivere ciò che gli israeliani perseguono a Gaza «lede la serietà di quel termine». La sua instancabile attività a sostegno della Palestina e contro il genocidio all’Onu è stata elogiata in quanto «coraggiosa», e Albanese è entrata accolta da una standing ovation per tenere la sua lezione su «Imperialismo, colonialismo e diritti umani: la cartina di tornasole della Palestina».
Invece che fare un riassunto della lezione, vale la pena citare per intero la descrizione iniziale di Albanese della topografia del genocidio di Gaza fino a novembre 2024:
Permettetemi di farci focalizzare la situazione del popolo palestinese, così com’è ora, direttamente nella nostra mente. A Gaza, per 401 giorni, abbiamo visto continuare i bombardamenti, i colpi e il fuoco di artiglieria costanti di Israele senza risparmiare niente e nessuno. La guerra ha mostrato il suo volto più spietato. Bombardamenti indiscriminati su larga scala; uso di sistemi di intelligenza artificiale con bersagli selezionati; sorveglianza persistente dall’alto di droni senza pilota; cecchini automatici che sparano alle persone mentre fanno la spesa nei mercati, raccolgono l’acqua, cercano assistenza medica o persino mentre dormono nelle tende; soldati trincerati nei carri armati che attaccano civili disarmati. Bruciati vivi, lasciati morire di una morte atrocemente lenta sotto le macerie, famiglie di intere generazioni ammassate in case che vengono bombardate e rase al suolo in un solo istante; ospedali e campi profughi ora trasformati in cimiteri, pieni di giornalisti, studenti, dottori, infermieri, persone con disabilità che un tempo abitavano queste terre ora decimate.
Dopo un primo incontro a un ricevimento affollato nella Paul Webley Wing della Soas, dopo la conferenza, ho fissato un appuntamento con Albanese per il giorno successivo in un ristorante afghano a Mile End. Circondati da strade con lampioni con bandiere palestinesi, abbiamo discusso del genocidio di Gaza, del colonialismo israeliano, dei diritti e dei doveri dei popoli e degli Stati secondo il diritto internazionale e delle sfide incontrate nel corso del suo mandato di relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati.
Grazie mille della disponibilità a parlare con me. Ho letto i tuoi rapporti Onu Anatomia di un genocidio (marzo 2024) e, più di recente, Genocidio come cancellazione coloniale (ottobre 2024). E naturalmente ho assistito alla tua lezione alla Soas. Hai spiegato che insisti sulla definizione di genocidio perché «la distruzione che vediamo in Palestina è esattamente e precisamente ciò che fa il colonialismo d’insediamento. Questo è un genocidio coloniale d’insediamento». Potresti spiegare in dettaglio l’argomentazione da te avanzata, in termini di diritto internazionale, riguardo agli aspetti per cui il genocidio in corso in Palestina può essere concepito come un’impresa coloniale d’insediamento?
Innanzitutto, ciò che costituisce un genocidio non è stabilito da opinioni individuali o storie personali o dal confronto con ciò che è accaduto in passato, sebbene il passato abbia molto da dirci sul modo in cui si presenta un genocidio. Ciò che costituisce un genocidio da un punto di vista legale è stabilito dall’articolo II della Convenzione sul genocidio. Consiste in una serie di atti che sono criminali in sé e per sé, come atti di uccisione, atti che infliggono grave dolore fisico o mentale, la creazione di condizioni di vita che portano alla distruzione di un gruppo, il trasferimento forzato di bambini, la prevenzione delle nascite. Questi sono atti di genocidio riconosciuti dalla Convenzione sul genocidio.
Per avere un genocidio, l’elemento critico è l’intento di distruggere un gruppo, in tutto o in parte, anche attraverso uno solo di questi atti. Si potrebbe avere, come è successo in Australia o in Canada, un genocidio attuato principalmente, anche se non solo, attraverso il trasferimento di bambini, quindi senza uccidere. Ecco quindi il primo problema: un certo numero di persone contesta che l’etichetta «genocidio» possa essere apposta su ciò che Israele sta facendo perché Israele ha ucciso solo 45.000 persone, come se fosse normale, mentre ha distrutto l’intera Gaza.
Alcuni vedono questa brutalità e la difendono ancora in quanto «autodifesa». Il punto è che questa distruzione estrema, questa violazione delle regole fondamentali per proteggere i civili, i locali civili e la vita civile nel diritto internazionale, è stata completamente livellata dalla logica israeliana secondo cui poteva essere ucciso chiunque, sia in quanto terrorista che come scudo umano o danno collaterale, tutto poteva essere distrutto. Ed è per questo che, 402 giorni dopo, Gaza non è più vivibile. Gaza è distrutta. Se questo non è un genocidio ostentato, cos’altro lo è?
Dobbiamo anche comprendere il contesto in cui questo genocidio si sta verificando. Ecco perché ho scritto quest’ultimo rapporto [Genocidio come cancellazione coloniale]: per fare luce sulle azioni omicide, quelle che rendono la vita impossibile, che sfollano con la forza i palestinesi mentre li bombardano da nord a sud, da ovest a est, costringendoli a vivere nei luoghi più inospitali di Gaza dopo aver distrutto tutto ciò che avrebbe potuto consentire loro di accedere ai mezzi di sostentamento, dopo averli privati di acqua, cibo, medicine, carburante per oltre un anno – un anno! – e anche il fatto di arrestare arbitrariamente, privare della libertà, torturare e stuprare migliaia di palestinesi. Vediamo la realtà?
E il fatto è che tutto questo non è iniziato solo un anno fa. I palestinesi sono stati oppressi, repressi, maltrattati e resi oggetto di abusi, umiliazioni e gravi violazioni del diritto internazionale per decenni. Israele lo fa nel perseguimento della realizzazione di una «Grande Israele», in cui la sovranità ebraica si estende tra il fiume e il mare. Ecco perché dico che questo è un genocidio che non viene condotto solo a causa dell’odio ideologico trasformato in dottrina politica, come è accaduto attraverso la disumanizzazione dell’«altro» in altri genocidi; questo genocidio viene commesso a causa della terra, per la terra. Israele vuole la terra senza i palestinesi. E per i palestinesi, rimanere sulla terra fa parte di ciò che sono come popolo. Ecco perché lo chiamo genocidio di cancellazione coloniale.
Nel tuo rapporto, fai notare che le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia hanno stabilito che, secondo il diritto internazionale, l’occupazione israeliana è di per sé un atto di aggressione. Hai scritto che ciò vizia qualsiasi pretesa che Israele possa avanzare nei confronti del diritto di autodifesa di uno Stato sovrano. Potresti spiegare di nuovo, in termini di diritto internazionale, cosa significa per il rivendicato «diritto di Israele a difendersi» e in linea di principio anche per il rivendicato dai palestinesi diritto di resistenza armata di un popolo, il fatto che l’occupazione sia di per sé considerata un atto di aggressione?
La Corte Internazionale di Giustizia ha confermato ciò che esperti legali autorevoli, studiosi e altri sostengono da decenni. Israele mantiene un’occupazione illegale nei territori palestinesi occupati, ossia Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Impedisce ai palestinesi di realizzare il loro diritto all’autodeterminazione, ovvero il loro diritto di esistere come popolo. Questa situazione equivale alla segregazione razziale e all’apartheid, poiché si traduce in un’annessione continua delle terre palestinesi a beneficio esclusivo dei cittadini israeliani ebrei. Ecco perché [secondo la sentenza della Corte internazionale di giustizia] l’occupazione deve essere smantellata totalmente, inequivocabilmente e incondizionatamente prima di settembre 2025. Quindi ciò significa che le truppe devono andarsene, che gli insediamenti devono essere smantellati, che quei cittadini israeliani devono tornare in Israele, a meno che non vogliano rimanere cittadini palestinesi. Ma la terra deve essere restituita ai palestinesi. Le risorse non possono continuare a essere sfruttate da Israele. Questo è molto chiaro, ed è l’unico modo per garantire una via d’uscita. Il che rappresenta anche, a mio avviso, l’inizio della fine: l’inizio reale e concreto della fine dell’apartheid nei territori palestinesi occupati e oltre.
Poiché Israele mantiene un’occupazione che si traduce nell’oppressione del popolo palestinese, Israele affronta minacce alla sua sicurezza provenienti dai territori palestinesi occupati. Ma queste sono conseguenti all’oppressione che Israele impone a quei territori. E l’unico modo per estinguere quella minaccia alla sicurezza è porre fine all’occupazione. Israele ha il diritto di difendersi all’interno del suo territorio dagli attacchi sul suo territorio da parte di altri Stati. Questo è ciò che darebbe a Israele il diritto di usare la forza militare e di dichiarare guerra a un altro paese. Ma il punto è che Israele sta attaccando le persone che ha mantenuto sotto occupazione. E le violazioni del diritto all’autodeterminazione [dei palestinesi] portano alla resistenza. Il diritto di resistere è per un popolo ciò che il diritto all’autodifesa è per uno Stato, quindi c’è un conflitto intimo e una fusione tra due interessi contrastanti. Tuttavia, il diritto internazionale è chiaramente dalla parte dell’autodeterminazione palestinese. Il diritto di resistere, ovviamente, ha dei limiti. Non si possono colpire civili, uccidere e prendere ostaggi. Ma ciò che ne consegue è che tali atti dovrebbero essere oggetto di giustizia, indagini e procedimenti giudiziari, non di una guerra di annientamento.
Passando al contesto del Regno Unito, proprio all’inizio del genocidio a Gaza, Keir Starmer, allora leader dell’opposizione, ha notoriamente manifestato il suo sostegno, secondo le sue parole, al «diritto» di Israele di tagliare l’acqua e l’energia nella Striscia di Gaza. E ora, che è primo ministro, lui e il suo ministro degli esteri, David Lammy, che in precedenza si erano schierati entrambi a favore di piattaforme pro-palestinesi, hanno negato le accuse di genocidio. Lammy sostiene che usare questo concetto mina la gravità storica del termine. Allo stesso tempo, hanno detto che il loro governo mantiene un «profondo rispetto per il diritto internazionale». In che modo la posizione della Gran Bretagna, secondo cui ciò che sta accadendo in Israele non è un genocidio, e la continua fornitura di armi e altro materiale di supporto allo Stato israeliano, hanno a che fare con il rispetto del diritto internazionale di cui parli?
Prima di tutto, lascia che ti dica che non penso che uno possa definirsi un difensore dei diritti umani se non li difende evitando considerazioni politiche o ideologiche. Dire che la fame è accettabile significa semplicemente tradire ciò che rappresenta il diritto internazionale, che in ultima analisi afferma la protezione dei civili in situazioni di conflitto armato, ostilità, crisi, ecc. Qui c’è un ministro degli esteri che nega che sia in corso un genocidio, anche quando la Corte internazionale di giustizia lo ha riconosciuto. Deve spiegare perché squalifica la Corte. Ma in ogni caso, sentiremo, penso, delle scuse. La storia giudicherà queste persone che non hanno fatto nulla in loro potere per prevenire le atrocità. Nel frattempo, così facendo, il Regno Unito sta violando i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale, che impedisce di aiutare e assistere uno Stato che sta commettendo illeciti internazionali. Ecco a che punto siamo. Ci sono delle responsabilità; potrebbe esserci complicità. Ecco perché incoraggio la contesa strategica di chiedere conto alle persone, ma anche per garantire – e questo è nel potere del popolo – che i leader eletti non trascinino questo paese e i suoi contribuenti nel finanziamento di una guerra di annientamento.
Ti sei formata anche alla Soas come avvocata internazionale per i diritti umani. Nella sessione di domande e risposte che è seguita alla tua lezione sono state discusse diverse prospettive sull’utilità o la fattibilità o la credibilità del diritto internazionale e delle istituzioni dell’ordine internazionale come mezzi per limitare gli atti di aggressione e i crimini contro l’umanità, mentre allo stesso tempo, percepiamo e cogliamo le eredità imperialiste radicate e le realtà strutturali del potere al loro interno. In che modo gli attivisti che affrontano questioni di politica globale da una prospettiva socialista e internazionalista possono relazionarsi con il discorso e il quadro del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali esistenti per cercare di aiutare a garantire l’autodeterminazione palestinese mantenendo al contempo quella prospettiva anticoloniale critica su quelle istituzioni?
Dobbiamo inserire la questione all’interno dei nostri sistemi, che possono sembrare alla periferia delle relazioni internazionali ma sono ancora i centri dell’impero: un sistema che può controllare la terra di altre persone, la volontà di altre persone e le risorse di altre persone, e rendere le loro vite miserabili. Questo non sta più accadendo solo al Sud del mondo; sta accadendo anche a molti di noi nel Nord del mondo. È tempo di riconoscerlo nella fragilità e precarietà di molte categorie di persone, dai lavoratori agli anziani, alle persone con disabilità, alle persone Lgbt e ai migranti. Diritti umani come la libertà di espressione e la libertà di parola, così come il diritto a essere adeguatamente retribuiti o il diritto ad avere un alloggio e un’assistenza sanitaria: sono diritti che vengono violati sempre più spesso, anche nel Nord del mondo, e queste violazioni non possono essere scollegate dalle violazioni che le persone nel Sud del mondo subiscono per mano di un sistema che è in gran parte guidato dall’Occidente. La Palestina incarna questo sistema, la lotta dei popoli indigeni, la lotta delle vittime della duratura eredità del colonialismo, inclusa la discriminazione contro i rifugiati e i migranti dal Sud del mondo, la lotta per la giustizia ambientale. Ecco perché la lotta della Palestina sta diventando un simbolo di resistenza in tutto il mondo per molti che vogliono solo vivere in un ordine più equo, giusto e non discriminatorio.
Di recente hai chiesto la riforma del vecchio Comitato speciale delle Nazioni unite contro l’apartheid. Pensi che il ruolo dell’Onu e delle istituzioni a esso collegate durante il movimento internazionale anti-apartheid in Sudafrica abbiano un significato pratico per il movimento di solidarietà internazionale con la Palestina oggi?
Penso che le Nazioni unite abbiano svolto un ruolo graduale, nel senso che c’è stato un dibattito portato avanti principalmente dagli Stati del Sud del mondo per abolire l’apartheid, ma è stato in gran parte un riflesso del tumulto che stava avvolgendo il mondo. Il movimento internazionale anti-apartheid era un movimento di base, che ha avuto origine in questa parte del mondo, in Gran Bretagna e Irlanda, ma che si è presto radicato anche in altre parti dell’Occidente per resistere alla perdita di potere economica del regime dell’apartheid e aiutare i sudafricani a liberarsi da quella forma repressiva di Stato. Ciò dimostra che oggi, come in passato, ciò di cui c’è bisogno è un’azione globale nel nuovo movimento di base rivitalizzato che esiste. C’è il Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), e ci sono state proteste e azioni studentesche per ristabilire il nucleo del diritto internazionale, i principi fondamentali del diritto internazionale. La mobilitazione prosegue, ma c’è ancora molto da fare. Rendere le aziende responsabili, spingere i sindacati all’azione, rendere responsabili i leader politici e i concittadini che hanno combattuto come parte del regime di apartheid di Israele, sia come parte dell’impresa commerciale che come militari. È tempo di chiedere conto delle responsabilità a livello nazionale e non solo a livello internazionale.
Un’ultima domanda, che forse è un po’ più personale: come relatore speciale delle Nazioni unite, e soprattutto dal 7 ottobre, il tuo profilo internazionale si è ampliato notevolmente, e sei stata bersagliata con ostilità rilevante, calunnie personali, tentativi di diffamazione, ecc. (anche da parte di rappresentanti dell’amministrazione di Joe Biden), con gruppi di difesa pro-Israele che hanno cercato di violare, ad esempio, la tua libertà di parlare nei campus universitari. Abbiamo visto alcuni manifestanti fuori dalla Soas. Che esperienza hai di questa opposizione, e come ha influito sul tuo mandato di relatore speciale delle Nazioni unite? Cosa vuoi dire a tutte quelle persone che vorrebbero zittirti?
Innanzitutto, vorrei specificare sulle proteste perché chi non era presente potrebbe farsi un’idea sbagliata. C’erano circa dieci individui che urlavano, con più bandiere che piedi per terra. Non era una vera protesta. Erano delle seccature, delle piccole, piccole seccature. Ma, insomma, è giusto. Lasciateli venire. Lasciateli gridare «Ban Fran» mentre le persone vengono massacrate, con 17.000 bambini uccisi. Lasciateli fare quello che vogliono. Francamente, non penso che sia importante. Non penso che sia rilevante. È irrilevante anche il fatto che i governi complici del genocidio mi attacchino invece di occuparsi dei loro obblighi legali non rispettati. Non voglio intrattenere discussioni su quanto siano folli questi attacchi. Sono solo un’altra manifestazione di quanto sia feroce la repressione della Palestina, dell’identità palestinese e della resistenza palestinese, specialmente nelle società occidentali.
*Francesca Albanese è ricercatrice associata presso l’Institute for the Study of International Migration della Georgetown University e relatrice speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Owen Dowling è uno storico e ricercatore d’archivio per Tribune, dal quale è tratto questo testo. La traduzione è a cura della redazione.
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