Ecuador, le ragioni di una sconfitta
La vittoria della destra alle elezioni di domenica scorsa ha radici nella svolta reazionaria del presidente uscente Lenín Moreno. Restano la protesta sociale e la sinistra divisa
Adattando il celebre incipit di Conversazione nella Cattedrale di Mario Vargas Llosa, verrebbe da chiedersi: quando è andato a farsi fottere l’Ecuador? Non di certo nella serata di domenica, quando dopo i primi, incerti, exit poll, il conteggio dell’autorità elettorale ecuadoriana certificava in maniera irreversibile la vittoria al ballottaggio con il 52,3% del candidato di destra, Guillermo Lasso, al suo terzo tentativo di diventare presidente. La débacle risale a molto prima: potremmo datarla alla virata a destra del presidente uscente Lenín Moreno, scelto da Rafael Correa ma poi presto convertitosi al credo neoliberista e al lawfare contro il suo stesso mentore e i suoi accoliti, o forse, andando ancora più indietro nel tempo, alla legislatura 2013-2017 in cui il rapporto tra Correa e la popolazione iniziò a subire un progressivo deterioramento.
La figura dell’ex Presidente è infatti stata decisiva anche in questo processo elettorale, nonostante a disputare la partita ci fosse Andrés Arauz, anch’egli scelto direttamente da Correa. Trentaseienne, economista, un’eccellente traiettoria tecnocratica durante i governi di Correa avendo ricoperto diverse cariche tra cui quella di ministro e direttore della Banca Centrale, Arauz si è trovato in una posizione tutt’altro che agevole. Da un lato, aveva la necessità di essere identificato dal nocciolo duro del correísmo (circa un terzo dell’elettorato, come certificato dai risultati del primo turno) come un candidato affidabile, che non avrebbe ripercorso la parabola di Moreno. Dall’altro, sapendo che questo non sarebbe bastato, ha dovuto allargare il campo, nel tentativo di riacciuffare molti di quei disillusi che in passato avevano votato per Correa, regalandogli maggioranze ampissime (nel 2013 vinse al primo turno con il 57%). Per farlo, Arauz ha intavolato un fitto dialogo con i movimenti sociali, in passato accusati da Correa per il loro «infantilismo», e in alcune occasioni si è smarcato dall’operato del suo padrino politico. Tuttavia, non ha saputo abitare questa ambivalenza con la necessaria disinvoltura e ha finito per rimanerne schiacciato. Probabilmente, nella retta per il ballottaggio, privilegiare la seconda dimensione gli avrebbe consentito di schivare con più agilità il maggior capo di imputazione rivoltogli da Lasso: quello di essere alle dirette dipendenze di Correa – o peggio, di essere il suo llaverito (portachiavi) come vuole la vulgata della schermaglia politica.
Tra i due assi portanti che hanno strutturato queste elezioni infatti, cioè l’antiliberismo brandito da Arauz – opposizione alle politiche di ristrutturazione economica, alle élite, al Fondo monterio internazionale – e l’anticorreismo di Lasso, il secondo si è imposto sul primo. Correa, dopo la luna di miele dei primi anni di governo, è ora ricordato da molti come un governante dal piglio autoritario mosso da un sentimento negativo: l’odio (a cui si aggiungono le accuse di corruzione, gonfiate da una campagna mediatica orchestrata nel corso degli ultimi anni, ma in gran parte fasulle). La sua è quindi un’eredità ingombrante, che se da un lato – come abbiamo visto – fornisce una consistente piattaforma di fedelissimi, dall’altro ricompatta le opposizioni politiche (Lasso al primo turno non aveva nemmeno il 20% dei voti). Non a caso, Arauz ha cercato di distinguersi con slogan positivi, come «l’odio è passato di moda» e «più amore, meno hate». Un tentativo vanificato dallo stesso Correa che, nonostante l’esilio forzato per le vicende giudiziarie, non ha smesso di far sentire la propria voce tuonante attraverso i social media.
Va detto però che Lasso in più ci ha messo del suo. Nei due mesi intercorsi tra il primo turno e il ballottaggio, ha stravolto la sua immagine di conservatore inflessibile, aprendo ai diritti delle donne, ai gruppi Lgbt, agli ambientalisti, nonché agli indigeni e agli afro-discendenti. Una mossa puramente elettorale, ma efficace presso molti segmenti che, pur non volendo votare per il candidato di Correa, rimanevano profondamente scettici nei confronti del banchiere di Guayaquil. Guidato da Jaime Durán Barba, abilissimo consigliere politico delle destre latinoamericane, Lasso ha inoltre reso il suo messaggio politico più alla mano e seducente, con un’attenzione particolare ai giovani, specie tramite un uso disinibito di Tik Tok. A dargli una mano ci si sono messi però anche gli altri due candidati di «sinistra», l’indigeno Yaku Pérez e il socialdemocratico Xavier Hervas. Il primo, che aveva sfiorato di un soffio il ballottaggio arrivando persino a gridare al broglio elettorale, ha incoraggiato i suoi elettori ad annullare il voto. L’appello, che ha diviso il movimento indigeno – il presidente della Conaie Jaime Vargas si è invece schierato apertamente per Arauz –, ha avuto un tale successo che in diverse province della Sierra, dove la vittoria di Lasso è risultata ampissima, i voti annullati superano quelli ottenuti da Arauz. Hervas invece, nonostante il suo partito avesse lasciato libertà di scelta al proprio elettorato, ha sostenuto direttamente il voto per Lasso.
Cosa aspetta all’Ecuador nei prossimi anni? Il nuovo presidente non ha mai fatto mistero della sua adesione sfegatata al repertorio neoliberista più classico e, sul solco dell’operato di Lenín Moreno, è destinato a smontare pezzo per pezzo quel che di buono era stato fatto da Correa in termini di stato sociale. In un’epoca pandemica, il suo modello di sanità volto a coinvolgere il settore privato nell’amministrazione della salute pubblica corre il rischio di aggravare ulteriormente le già gravi disparità tra chi può permettersi trattamenti di qualità e chi invece ne è escluso. Durante il governo di Moreno, un saggio di questo tipo si è già avuto con lo scandalo di alcuni privilegiati delle classi agiate, a cui è stato somministrato in anticipo il vaccino pur non avendone sulla carta diritto. Lasso avrà tuttavia due difficoltà di non poco conto: in parlamento controlla una pattuglia molto sparuta e la protesta sociale, come visto in occasione delle manifestazioni durate dieci giorni in ottobre 2019, è sempre in agguato. Quest’ultima variabile, però, è condizionata dalle reciproche animosità tra le varie anime della sinistra ecuadoriana, che questa tornata elettorale non ha fatto che rinfocolare.
*Samuele Mazzolini è ricercatore presso l’Università della Calabria.
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