
Europa, le domande mal poste e le risposte da cercare
Il ritorno alle monete nazionali come soluzione alla crisi dell'Ue si rivela superficiale tanto quanto l'europeismo ingenuo. Il cambiamento passa dall'analisi del modello produttivo e finanziario europeo
Per dare risposte alla profonda crisi economica, sociale e democratica dell’integrazione europea, bisogna innanzitutto farsi le giuste domande. Al contrario, nel recente dibattito a sinistra sulla crisi europea e sulle possibili vie d’uscita si tende ad azzuffarsi sulle risposte, perdendo di vista proprio le domande. Ci troviamo così con diverse risposte ottime e sbagliate, perché formulate a partire da questioni mal poste.
L’uscita unilaterale dall’euro come soluzione alla crisi europea è, in questo senso, la «risposta alla domanda sbagliata», come scrivono Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua in Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea (Rosenberg e Sellier, 2019). Un libro che mette in discussione gli stessi interrogativi e spiegazioni sulla crisi offerti dagli approcci eterodossi e postkeynesiani che fanno da sfondo al dibattito sull’euro a sinistra. Problematizzando in particolare le premesse di quelle risposte «troppo semplici» di chi propone l’uscita dalla moneta unica e il ritorno a politiche fiscali espansive. Senza offrire facili ricette alternative, ma al contrario complicando il quadro dell’analisi, il problema della moneta unica e della sua crisi viene ridefinito nei termini di una questione più generale: quella delle trasformazioni e contraddizioni dei capitalismi europei contemporanei entro cui ha fatto la sua comparsa l’euro. Una prospettiva di sistema e di lungo periodo particolarmente utile per provare a tirarci fuori, a sinistra, dalle secche di una discussione polarizzata fra euroscetticismo senza appello ed europeismo ingenuo.
Da dove cominciare per porre le domande “corrette” sull’euro e la sua crisi? Per prima cosa allargando la visuale. Da una parte l’Unione economica e monetaria (Uem) è stata il portato di una ristrutturazione dei capitalismi nazionali nel Continente nel quadro della deregolamentazione dei mercati finanziari a livello internazionale, seguita alla rottura degli accordi di Bretton Woods. Dall’altra, la moneta unica è stata catalizzatrice a sua volta di trasformazioni strutturali che hanno ridisegnato la geografia produttiva del Continente, creando vulnerabilità di sistema – specie per i Paesi dell’euro-periferia – tali da persistere se non aggravarsi anche dopo una sua eventuale dissoluzione. Detto in altri termini: l’introduzione dell’euro è stata effettivamente espressione di conflitti transnazionali sia interni alle diverse frazioni del capitale europeo, che fra capitale e lavoro, in cui il secondo ha visto perdere diritti e libertà a vantaggio del primo, ponendosi in conflitto diretto con gli obiettivi di una democrazia sociale. Questo non significa che l’euro sia stata causa prima o unica della crisi attuale, né che la sua fine possa di per sé cancellare le sue premesse e conseguenze strutturali nelle economie degli Stati membri.
Quali sono queste premesse? La dinamica centrale nelle trasformazioni del capitalismo contemporaneo entro cui si colloca l’euro può individuarsi nell’affermazione di quel modello che risponde alla ben nota (e fin troppo abusata) etichetta di “neoliberismo”. A patto però, avvertono gli autori del libro, di intendere quest’ultimo non come restaurazione del laissez-faire o della teoria neoclassica, ma come un modello che prevede il ruolo attivo dello Stato nel creare le condizioni per l’espansione dei mercati finanziari e l’indebitamento privato come sostituti alla dimensione pubblica del welfare, degli investimenti, delle politiche industriali e finanziarie. Un capitalismo descritto da Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi e Colin Crouch come un vero e proprio «keynesismo privatizzato», in cui i consumi sono trainati dall’esplosione del debito privato e separati dal potere d’acquisto del reddito da lavoro degli individui. Negli Stati Uniti l’indebitamento privato ha avuto il suo epicentro nel mercato immobiliare e nelle cartolarizzazioni – quella tecnica finanziaria attraverso cui un’attività o passività (soprattutto mutui e prestiti) diventa garanzia “sottostante” di titoli finanziari da vendere agli investitori. In Europa tale processo ha preso forma nell’interconnessione crescente dei bilanci delle banche europee e americane, nella liberalizzazione del movimento dei capitali dalla fine degli anni Ottanta e nella ridefinizione delle strategie di crescita in senso neo-liberale dei principali Stati europei, a cominciare dalla Francia di Mitterrand.
Con la crisi economica del 2007-08, le vulnerabilità reciproche fra banche statunitensi ed europee sono state il canale primario della trasmissione della crisi dei mutui sub-prime nei sistemi bancari del Continente, con un’ondata di interventi e salvataggi pubblici con cui si sono socializzate le perdite delle banche trasferendole nei debiti pubblici. Fin qui la storia è nota: la narrazione si fa più problematica quando entra in scena la crisi dei debiti sovrani nell’eurozona.
Gli approcci post-keynesiani, come riconoscono gli autori, hanno smontato la vulgata dominante, secondo cui l’eccessivo debito pubblico dell’euro-periferia sarebbe alla base della crisi. La critica eterodossa ha però sposato una lettura che spiega gli squilibri interni all’eurozona riportandoli alle crescenti divergenze nel saldo delle partite correnti delle bilance dei pagamenti fra gli Stati membri. In senso opposto all’approccio mainstream, ma entro lo stesso schema argomentativo, questi modelli eterodossi hanno individuato negli eccessi di risparmio e surplus commerciali della Germania e Paesi nordici la dinamica “reale” sottostante allo scoppio della crisi. Gli squilibri finanziari fra Paesi debitori e creditori sarebbero così riflesso di un più fondamentale squilibrio fra le bilance commerciali interne all’area euro, da far risalire quindi – in ultima analisi – alla differente competitività e livelli di esportazione fra gli Stati membri. Corollario di questa posizione è individuare nel neomercantilismo tedesco e nel contenimento della domanda interna il nucleo della crisi europea. La risposta prioritaria, secondo l’approccio post-keynesiano, viene così riposta in politiche fiscali espansive, dirette innanzitutto a espandere la domanda interna dei Paesi in surplus, in modo da riequilibrare le bilance commerciali nell’eurozona.
Al contrario, sostengono gli studiosi, per comprendere la crisi dell’eurozona bisogna prendere «sul serio» il ruolo della finanza nelle crisi capitalistiche e il carattere indipendente dei canali di finanziamento rispetto ai risparmi e ai surplus commerciali. Sulla base di un’originale rielaborazione della teoria marxiana e di autori della tradizione economica italiana come Augusto Graziani – elaborata da Bellofiore in diversi saggi – i termini della questione vengono capovolti. I flussi finanziari condizionano quelli commerciali, e le relazioni di debito e credito determinano gli avanzi e disavanzi fra Paesi, non il contrario. Il denaro come finanziamento bancario non è riflesso di una ricchezza già data, ma è anticipazione del valore futuro che il creditore si aspetta sulla base di una preventivata capacità produttiva, determinata dall’esito atteso del conflitto fra capitale e lavoro.
Come sostengono gli autori, quindi, la causa della crisi dell’eurozona non risiede negli squilibri delle bilance commerciali, ma va individuata – da una parte – nelle dinamiche speculative che si sono auto-avverate per via di una deficitaria architettura istituzionale dell’Uem, riflesso dei rapporti di forza asimmetrici fra i governi fondatori. Dall’altra, negli effetti strutturali prodotti dai movimenti dei capitali e flussi finanziari nel Continente. Gli squilibri delle partite correnti vanno letti come sintomi del vero malanno: la ristrutturazione dei capitalismi europei e la ridefinizione dei rapporti di forza fra gli Stati membri in termini di crescenti interdipendenze asimmetriche e competizione distruttiva.
Gli autori mettono così in primo piano la ristrutturazione dei sistemi industriali del Continente, con lo sviluppo di catene del valore transnazionali gravitanti attorno alla Germania e l’integrazione di sistemi produttivi interni all’Uem, altamente oligopolistici e centralizzati. In queste strutture a rete, un’azienda leader controlla la parte finale del processo produttivo, potendo contare su una catena di forniture di beni intermedi a più basso valore aggiunto e servizi specializzati, organizzati su scala continentale di imprese. La disomogeneità di tali reti produttive, plasmate dai movimenti di capitali, caratterizza la geografia industriale europea, con catene concentriche in cui il valore aggiunto e il controllo dei processi produttivi si concentrano sempre di più nel nucleo manifatturiero tedesco e dei suoi Paesi satellite.
Cruciale nella ridefinizione della geografia industriale europea è stata la “corsa verso l’Est” dei grandi capitali del Continente, con la ristrutturazione delle economie dei Paesi dell’Europa centrale e orientale dopo il crollo dell’Urss. Gli investimenti diretti esteri e le delocalizzazioni sono stati in tale quadro le armi principali del conflitto fra capitale e lavoro in Europa. Se la Germania ha strutturato la sua rete industriale in senso gerarchico, mantenendo entro i suoi confini il controllo delle fasi produttive a più alto valore aggiunto (contenendo i salari interni grazie alle riforme del mercato del lavoro), la strategia di Paesi come Francia e Italia si è mossa sul solo versante del risparmio dei costi, delocalizzando l’intera filiera produttiva e determinando la rapida de-industrializzazione delle economie nazionali. La corsa all’innovazione tecnologica dell’area tedesca allargata ha avuto come controparte il degrado qualitativo dei sistemi produttivi dell’Europa meridionale: una dinamica resa possibile dagli spazi aperti dall’Uem e dall’espansione a Est dell’Unione, ma il cui esito è stato determinato dai conflitti fra capitale e lavoro interni ai diversi Stati membri. Una semplicistica lettura del rapporto centro-periferia in termini nazionalistici oscura quindi la reale dimensione transnazionale del conflitto capitale-lavoro attraverso cui si è strutturata l’Uem e il sistema industriale europeo.
Con la crisi, le reti commerciali del sud-ovest europeo sono state le più colpite, con un’accelerazione delle asimmetrie produttive e della concorrenza distruttiva interna all’area europea. Un sistema che accentua i suoi caratteri oligopolistici e gerarchici nell’attuale sfida competitiva lanciata dalla nuova “marcia verso l’Occidente” della Cina a partire dal 2012. Un simile modello neo-mercantilistico, osservano gli autori, è vulnerabile proprio per la sua dipendenza dalle esportazioni estere e la parallela compressione della domanda interna europea. Contrariamente a una narrativa che a sinistra riscuote una certa fortuna, esso non è espressione di un’egemonia tedesca, ma testimonia piuttosto una vera e propria rinuncia a svolgere un ruolo egemonico – come osservano correttamente gli autori –, accelerando così le spinte disgregatrici interne all’eurozona.
Se quindi la visione mainstream della crisi europea risulta contraddittoria nella teoria e controproducente nella pratica, spingendo essa stessa nei fatti alla disintegrazione dell’eurozona che nelle intenzioni vorrebbe scongiurare, le posizioni post-keynesiane ed euroscettiche a sinistra non scalfiscono il nocciolo del problema.
Pretendere di resuscitare il keynesismo e puntare primariamente al sostegno della domanda effettiva non può bastare: serve ripensare alla base il modello produttivo e finanziario europeo, intaccando quelle catene transnazionali del valore che costituiscono l’ossatura dell’Uem. Un’espansione della domanda interna in Germania e nei Paesi in surplus significherebbe, nell’attuale sistema, accentuare le diseguaglianze fra le classi lavoratrici del centro e dell’euro-periferia, convertendo così gli squilibri delle partite correnti in un’ulteriore crescita di divergenze sociali e del mercato del lavoro all’interno dell’eurozona.
Le posizioni di quanti, da sinistra, vedono nell’uscita dall’euro l’unica alternativa per recuperare spazi di democrazia e sovranità economica assumono allo stesso modo una visione superficiale dei rapporti di forza e delle dinamiche strutturali entro cui si colloca l’euro. Tale lettura non considera le trasformazioni profonde dei sistemi finanziari e industriali del continente, unitamente alla loro gerarchizzazione economica e politica, in cui si è incardinata la moneta unica. Essa a sua volta ha determinato cambiamenti qualitativi tali da richiedere risposte che non possono giocarsi in un’ottica esclusivamente nazionale. L’uscita unilaterale dall’euro non fornirebbe in sé alcuna soluzione al problema centrale della ridefinizione del sistema finanziario e produttivo transnazionale in Europa, non rispondendo in questo alla vulnerabilità dell’euro-periferia di fronte ai mercati finanziari, oltre al rischio concreto di determinare dinamiche inflattive deleterie per i lavoratori e la prosecuzione di politiche di austerità.
La critica alle posizioni keynesiane ed euroscettiche non si può risolvere nell’accettazione di un europeismo ingenuo e utopistico, ma pone con più urgenza la necessità di elaborare nuove e più complesse risposte per le sinistre. La possibile fine dell’euro è in qualche modo già scritta nelle stesse dinamiche autodistruttive della sua architettura istituzionale e della concorrenza dei suoi capitalismi nazionali: problemi per i quali non servono riforme, ma una “rivoluzione” alla base, come concludono gli autori. Un nuovo modello che vada nella direzione di quella che l’economista Hyman Minsky chiama una «socializzazione degli investimenti», che passi per il sistema bancario e le politiche dell’occupazione, in un‘ottica regionale europea. Una risposta non semplice, ma all’altezza di una sinistra che possa essere portatrice di un’idea rivoluzionaria di società.
*Giuseppe Montalbano è ricercatore precario in teoria e scienza politica.
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