Europa, migrazioni e mobilitazioni dal basso
Dai principali dossier Ue sulle politiche migratorie emerge lo scollamento tra parlamento e Commissione: le scelte sempre più restrittive vengono sottratte al dibattito pubblico
L’immobilismo spesso dimostrato dall’Unione europea in tema di politiche migratorie ha recentemente lasciato spazio a una fase estremamente dinamica. Nel corso degli ultimi due anni, si sono susseguiti infatti vari passaggi fondamentali per la ridefinizione del quadro normativo comunitario. In questo contesto, le due istituzioni co-titolari del potere legislativo sembrano essersi mosse in maniera piuttosto diversa. Il Consiglio dell’Unione europea, espressione dei governi nazionali dei 27 stati membri, ha imboccato una strada sempre più chiaramente e marcatamente securitaria, nella quale il dinamismo legislativo è stato caratterizzato da un sostanziale inasprimento delle logiche restrittive e punitive già in atto. Il Parlamento europeo ha invece mostrato un approccio mutevole, a tratti imprevedibile, oscillando tra l’accettazione – e la conseguente perpetuazione, per quanto non necessariamente voluta – dell’esistente e una rinnovata capacità di promozione di approcci alternativi e più attenti ai diritti fondamentali delle persone in movimento.
Queste tendenze possono essere comprese più chiaramente osservando tre dei principali dossier che hanno interessato queste due istituzioni nel corso degli ultimi due anni, ovvero il Patto sulla migrazione e l’asilo, le violazioni commesse da Frontex e la risoluzione sulla ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Dalla comprensione di queste dinamiche possono emergere importanti spunti per le azioni e le mobilitazioni dal basso di chi si batte per la libertà di movimento e per la difesa dei diritti fondamentali.
Il Patto sulla migrazione e l’asilo
Il Patto sulla migrazione e l’asilo è un corpus di riforme legislative e non legislative, presentato dalla Commissione europea nel settembre 2020 e successivamente integrato, che si trova attualmente all’esame dei due organi legislativi dell’Unione. Gli obiettivi centrali di questa riforma – i cui atti centrali sono il Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione e il Regolamento sulla procedura di asilo – vertono intorno all’adeguamento e all’armonizzazione delle varie procedure connesse alle politiche di migrazione e asilo, in una direzione, però, essenzialmente più limitativa rispetto a quella attuale. Sebbene la riforma sia ancora in fase di definizione, le posizioni adottate dal Consiglio appaiono infatti marcatamente restrittive, specialmente per quel che riguarda la gestione delle frontiere esterne, le procedure di esame delle domande di asilo, i rimpatri e gli accordi con paesi terzi. Nemmeno la posizione del Parlamento sembra essere particolarmente promettente: nonostante su alcuni punti, specialmente in merito al Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, le proposte del Parlamento siano in aperto contrasto con quelle del Consiglio, e più attente a garantire il diritto di asilo e altri diritti fondamentali delle persone in movimento, permangono seri dubbi rispetto all’esistenza di una reale rottura con le politiche del passato, complice anche una non favorevole situazione nei rapporti di forza tra l’Europarlamento e i governi nazionali. Osservando la riforma nel suo insieme, è facile notare come le lezioni imparate nella gestione della crisi ucraina, con l’attivazione della Direttiva per la protezione temporanea e il dispiegamento di misure rapide ed efficaci per la gestione delle persone in transito, siano state presto dimenticate, lasciando che fossero i vecchi, soliti principi a orientare le nuove riforme legislative dell’Ue.
Il caso Frontex
Altro tema caldo, nel corso della seconda parte di questa legislatura, è stato quello di Frontex, l’agenzia europea di guardia di frontiera e costiera, al centro di accuse relative a violazioni dei diritti umani. La questione è stata attentamente seguita dal Parlamento europeo nel corso degli ultimi anni, portando a delle importanti prese di posizione. Nello specifico, il Parlamento ha anzitutto istituito un Gruppo di lavoro per il controllo di Frontex a gennaio 2021, il quale ha evidenziato, nel suo report finale, come Frontex non sia stata in grado né di prevenire né di sanzionare le violazioni di diritti umani di cui era venuta a conoscenza. Contemporaneamente, l’Eurocamera ha prima congelato (nel 2021) e poi respinto (nel 2022) la liquidazione del budget dell’agenzia, di fatto utilizzando il principale strumento di pressione politica a propria disposizione – ovvero il potere in materia di bilancio. Il lavoro portato avanti dal Parlamento, congiuntamente a organizzazioni della società civile (in particolare rilanciando alcuni dei temi e degli spunti provenienti proprio da un lavoro di inchiesta della società civile) ha consentito di ottenere importanti risultati. Primo fra tutti, vi è certamente il cambio al vertice di Frontex, con le dimissioni forzate di Fabrice Leggeri: un passaggio importante anche se, ovviamente, tutt’altro che risolutivo – restano infatti immutati gli obiettivi e le priorità strategiche dell’agenzia, tra le quali spicca il tema dei rimpatri, nonché la necessità di attuare una forte discontinuità nei fatti e chiarire le eventuali corresponsabilità di Frontex in occasione di alcuni naufragi, come quello recentemente avvenuto al largo di Pylos. In secondo luogo, tra i risultati conseguiti va certamente menzionata anche l’accresciuta attenzione dell’opinione pubblica, e di alcune sedi istituzionali, verso il lavoro dell’agenzia e verso la tutela (o meno) dei diritti umani e del diritto internazionale nello svolgimento dei propri compiti.
La ricerca e il soccorso in mare
Per quel che riguarda la ricerca e il soccorso in mare (Sar), punto di partenza delle recenti discussioni è il fatto che, ad oggi, continua a mancare un’operazione europea a ciò appositamente dedicata. Nel Mediterraneo sono infatti attive tre missioni Frontex (Themis, Poseidon e Indalo), in collaborazione con gli stati membri costieri, e una missione di politica di sicurezza e di difesa comune (Irini), tutte, però, con regole di ingaggio ben diverse da quelle delle operazioni di ricerca e soccorso: lotta al traffico di migranti nel caso delle operazioni Frontex, sorveglianza sull’embargo di armi in Libia nel caso di Irini. Capita, certo, che delle imbarcazioni delle missioni Frontex – così come delle guardie costiere e di frontiera degli stati membri – compiano salvataggi, ma sempre all’esterno di missioni sistematiche di ricerca e soccorso: ciò, pertanto, non impedisce che continuino a verificarsi naufragi e respingimenti, siano essi diretti o per procura, vale a dire tramite i pull-backs con cui le autorità dei paesi costieri nordafricani (e la cosiddetta guardia costiera libica in primis) intercettano e riportano sul proprio territorio imbarcazioni cariche di persone migranti.
Il Parlamento europeo ha sempre rappresentato una delle voci istituzionali più critiche dell’ignavia Ue in merito alla ricerca e soccorso in mare, già in varie sessioni parlamentari del 2015, nelle quali si deprecava il disinteresse e l’egoismo dei governi nazionali, e con delle prese di posizione molto chiare all’interno di una più ampia risoluzione sul fenomeno migratorio del 2016. In un clima di crescente disinteresse verso il Sar, e, al contempo, di criminalizzazione degli attori della società civile impegnati a salvare vite nel Mediterraneo, il Parlamento riuscì ad approvare una nuova, importante risoluzione nel 2018, finalizzata a «evitare la criminalizzazione dell’assistenza umanitaria», in un contesto in cui erano proprio gli attori della società civile a farsi carico di responsabilità che sarebbero invece spettate ai governi nazionali e all’Ue nel suo insieme.
Eppure, nel corso di quest’ultima legislatura, iniziata nel 2019, lo stesso Parlamento ha mostrato più di un tentennamento sul tema. Fino a qualche giorno fa, l’unico tentativo di prendere parola sull’argomento da parte dell’istituzione nel suo insieme, al di là del fondamentale lavoro individuale di alcune e alcuni parlamentari, era stato bocciato, pochi mesi dopo l’insediamento dell’Europarlamento, per una manciata di voti. Si trattava di una risoluzione contenente importanti prese di posizione sulle responsabilità istituzionali in merito al soccorso in mare, sulla situazione dei diritti umani in Libia e sulle politiche di intimidazione e criminalizzazione della società civile, tra le altre cose. Fino a qualche giorno fa, appunto, perché lo scorso 13 luglio il Parlamento ha infine approvato una nuova risoluzione «sulla necessità di un intervento dell’UE nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo», ricca di importanti prese di posizione e in diversi punti molto simile a quella bocciata nel 2019. Fondamentale, in quest’ottica, è stato il cambio di prospettiva del Partito popolare europeo, che nel 2019 aveva osteggiato la mozione, votando con gli ultraconservatori (decisiva, in quel caso, fu anche l’astensione degli e delle europarlamentari del Movimento 5 stelle), mentre in quest’ultimo caso è stato addirittura tra i promotori del testo in esame, insieme a socialisti, sinistra, verdi e liberali.
Alcuni spunti per le mobilitazioni
Se le tre questioni affrontate finora rivelano con estrema chiarezza l’approccio di politica migratoria delle due istituzioni legislative dell’Ue, un breve cenno a un altro tema particolarmente caldo, ovvero gli accordi con i paesi terzi, fornisce ulteriori spunti potenzialmente utili nell’ottica di una politica migratoria dal basso.
La discussione degli accordi di esternalizzazione delle frontiere si pone al di fuori dal quadro legislativo ordinario dell’Ue – e, quindi dalla competenza diretta di Consiglio dell’Ue e Parlamento. Qui i ruoli di primo piano sono invece quelli della Commissione europea (sulla quale, a onor del vero, tanto si potrebbe dire anche rispetto alle altre questioni affrontate finora) e, ancor di più, quello dei capi di governo degli stati membri, sia individualmente che nell’istituzione che li raggruppa, vale a dire il Consiglio europeo.
Se, da un lato, quella dell’esternalizzazione è una politica di lungo corso dell’Ue e dei suoi stati membri, dall’altro si è recentemente registrata un’importante intesa con il governo tunisino di Kaïs Saïed che desta particolare preoccupazione. Nonostante la situazione esplosiva nel paese, e le documentate violazioni di diritti umani (anche) delle persone migranti, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il presidente olandese Mark Rutte e la presidente italiana Giorgia Meloni hanno infatti trovato un accordo con il governo tunisino basato sulla solita logica dei finanziamenti in cambio di una intensificazione dei controlli alle frontiere. Sulla carta, la Tunisia dovrà impegnarsi al rispetto del diritto internazionale, ma resta da capire in che modo l’Ue potrà (e vorrà) vigilare sull’effettivo rispetto dei diritti umani delle persone migranti. I precedenti, in quest’ottica, non sono affatto incoraggianti, e non stupiscono, pertanto, le critiche arrivate da alcune e alcune e alcuni componenti del Parlamento europeo e dalla Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa.
Il caso degli accordi con i paesi terzi appare particolarmente illustrativo per almeno due importanti ragioni, che vale la pena tenere a mente, nella prospettiva di una discussione sulle strategie di mobilitazione di attiviste e attivisti. Anzitutto conferma ulteriormente il sostanziale allineamento tra esecutivi a trazione conservatrice (ma anche socialdemocratica, a dirla tutta) e di estrema destra su alcuni pilastri di politica migratoria, come, appunto, l’esternalizzazione delle frontiere. In secondo luogo, offre una chiara immagine della marginalizzazione di alcuni attori – il Parlamento europeo, in primis, ma potenzialmente e indirettamente anche la Corte di giustizia – e l’ostentata disinvoltura con cui si fa ricorso a metodi strettamente intergovernativi sui temi più sensibili, con la sorprendente complicità di una delle istituzioni sovranazionali par excellence, quale è la Commissione.
Uno sguardo d’insieme rivela che quell’Unione europea che spesso è apparsa – e nei fatti, talvolta, è stata – un monolite di politiche migratorie restrittive, vuoi per volontà politica, vuoi per mancanza di spazi di azione o di capacità, presenta delle sfaccettature che mai come in quest’ultimo anno di legislatura e di avvicinamento alle prossime elezioni europee del 2024 possono offrire validi spunti di riflessione e azione per la costruzione di una politica migratoria dal basso.
Va anzitutto compreso quale ruolo potrà e vorrà giocare il Parlamento europeo da qui a fine legislatura e, conseguentemente, se e in che misura potrà essere un valido alleato o, almeno, un interlocutore affidabile per le mobilitazioni che si stanno costruendo. Il tema riguarda tanto il posizionamento effettivo dell’Europarlamento su alcuni dei dossier aperti – primo fra tutti il Patto sulla migrazione e l’asilo: come si relazionerà al Consiglio nel negoziato alle porte? – quanto una strategia politico-elettorale di medio periodo, che guarda al 2024 e oltre. È innegabile che, specialmente nell’ultimo scorcio di legislatura, l’azione di alcuni gruppi parlamentari abbia rappresentato un pungolo per le altre istituzioni e sia stata decisiva su alcuni temi, quali lo scandalo Frontex. Altrettanto evidente è l’eterogeneità degli approcci al tema anche in gruppi parlamentari di maggioranza, quali popolari e socialisti: lo dimostrano le varie prese di posizione individuali, così come alcuni voti significativi, come quello sulla recente risoluzione sul soccorso in mare.
In sostanza, seppur lontano dall’approccio di una quindicina d’anni fa, molto più coraggioso e di rottura, probabilmente irripetibile nel breve termine a causa del mutato contesto istituzionale e politico, il Parlamento europeo sembra essere pienamente tornato a svolgere un ruolo di stimolo nella direzione di una politica migratoria più aperta e orientata verso i diritti umani, ravvivando alcune delle posizioni che lo avevano contraddistinto nella scorsa legislatura. Dalla comprensione della mutevole geografia politica dell’aula parlamentare passa la possibilità di portare dentro le istituzioni piattaforme radicali, attraverso alleanze ad hoc. Non è detto che questa sia la strada tatticamente e strategicamente più utile, anche alla luce dei tanti limiti dell’Europarlamento, spesso segnalati da attiviste e attivisti, ma è comunque importante considerare le opportunità offerte da un simile percorso.
A ciò si collega una seconda considerazione, rispetto ai temi sui quali può avere senso tentare la costruzione di un percorso di collaborazione con il Parlamento. Appare sempre più evidente – lo abbiamo visto parlando dell’esternalizzazione delle frontiere – come alcune questioni siano del tutto sottratte al dibattito parlamentare e all’occhio dell’opinione pubblica. Su questi temi, verosimilmente, si potrà trovare una sponda parlamentare per rafforzare campagne comunicative dal basso, ma difficilmente si potrà vedere un contributo significativo in termini di elaborazione di politiche pubbliche. Al contrario, appare molto più promettente l’unione di strategie di azione diretta quali l’uso dello strumento giurisdizionale e di canali istituzionali quali l’Iniziativa dei cittadini europei (come quella, attualmente in fase di raccolta firme, finalizzata a fermare «tortura e tratamenti disumani alle frontiere d’Europa», con mobilitazioni sempre più permeanti e con un protagonismo crescente delle persone migranti (si pensi all’esperienza di Refugees in Libya).
I nodi centrali recentemente affrontati in Ue, e il modo in cui vi si sono approcciate le varie istituzioni, Parlamento in primis, offrono insomma importanti spunti di riflessione sul modo in cui si possa provare efficacemente a costruire una politica migratoria dal basso all’interno dello spazio politico europeo.
*Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del diritto alla città e delle migrazioni, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso e di Mediterranea – Saving Humans ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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