Fortezza Coronavirus
Mentre il governo dichiara l'Italia «porto non sicuro» per l'emergenza Covid-19 e assistiamo all'ennesimo naufragio in mezzo al mare, l'Europa chiude la missione Sophia abbandonando anche il velo di ipocrisia della retorica umanitaria
La decisione del governo di dichiarare l’Italia «porto non sicuro» per tutta la durata dell’emergenza Covid-19 ha suscitato parecchie polemiche negli ultimi giorni, soprattutto legate all’interpretazione «ad navem» del decreto stesso, nelle ore in cui la nave Alan Kurdi era alla ricerca di un porto sicuro dove far sbarcare 149 migranti. Ma mentre questa vicenda sembra finalmente avviarsi verso una conclusione, per quanto emergenziale, è emersa la notizia dell’ennesimo naufragio di un gommone in mezzo al Mediterraneo, nel giorno di Pasqua. Naufragio che poteva essere evitato, se solo le ripetute richieste di aiuto inviate fossero state accolte dalle autorità maltesi, italiane ed europee. Il tutto mentre vengono ignorate nuove richieste di aiuto, provenienti da altre imbarcazioni, che continuano a essere in pericolo, in mezzo al mare, assistite per il momento solo dalla nave Aita Mari dell’Ong Salvamento Marítimo Humanitario.
Questi episodi, che lasciano sgomenti e rispetto ai quali si deve esigere un’azione immediata, nella loro tragicità ci dicono molto dell’approccio dell’Italia alla ricerca e soccorso (Sar), ovvero quell’insieme di attività, appositamente disciplinate dalla Convenzione di Amburgo del 1979, volte al salvataggio di chiunque – e andrebbe sottolineato: chiunque – si trovi in pericolo in mezzo al mare.
Ci confermano, in sostanza, che per quanto vi possano essere differenze tra un governo e un altro, la dinamica di fondo – indifferente verso i migranti, militarizzante nella gestione delle frontiere e repressiva verso chi i migranti li soccorre – è rimasta pressoché invariata nell’arco degli ultimi anni. In fondo, è il governo attualmente in carica, con Lamorgese al posto di Salvini o Minniti al Viminale, a essere responsabile della mancata abrogazione dei decreti sicurezza, del rinnovo del memorandum con la Libia, del mancato dissequestro delle imbarcazioni della piattaforma Mediterranea o della più recente quarantena selettiva per le sole navi delle Ong e non per quelle da crociera.
Al tempo stesso, però, quanto è accaduto in questi ultimi giorni non è che la punta dell’iceberg di una vicenda molto più complessa. Non ci si dovrebbe proprio porre il problema di chi mandare a salvare imbarcazioni in difficoltà in mezzo al mare, né di dove far sbarcare i migranti soccorsi da una nave Ong, per la semplice ragione che il compito di cercare e soccorrere migranti in difficoltà, in rotte che sono notoriamente interessate da intensi tentativi di attraversamento, dovrebbe spettare ai governi ed essere costantemente operativo, non delegato agli sforzi umanitari delle organizzazioni non governative.
Il problema di fondo non è il singolo decreto, né la già gravissima e abominevole indifferenza rispetto alla singola imbarcazione in difficoltà, bensì un approccio politico che coinvolge non solo l’Italia ma l’intera Unione europea e i suoi Stati membri. In altre parole, se ci troviamo in questa situazione è perché dalla fine di Mare Nostrum, nell’ottobre 2014, non esiste più un’operazione (almeno parzialmente) Sar italiana. Si è detto, allora, e in fondo anche giustamente, che doveva essere una missione Ue a garantire la ricerca e il soccorso nel Mediterraneo. E da quel momento, con un trasferimento, nei fatti, della questione a livello comunitario, si sono susseguite le alterne vicende di Frontex Plus-Triton-Themis, abbastanza inutili ai fini Sar, e quelle contraddittorie di Sophia – operazione militare marittima di contrasto al traffico di migranti – fino a quando è rimasta senza navi ad aprile dell’anno scorso.
È in questo scenario che vanno letti gli eventi di questi ultimi giorni. E se, da un lato, bisogna intervenire immediatamente per mettere in salvo chi è in difficoltà, dall’altro appare chiaro come si debba necessariamente cominciare ad affrontare il problema alla radice, comprendendone le logiche di fondo, che vanno oltre la singola nave e il singolo episodio. In quest’ottica, diventa centrale quel che è accaduto a Bruxelles appena qualche settimana fa, nell’indifferenza quasi generalizzata dell’opinione pubblica, qui come altrove, assorbita dalle drammatiche vicende dell’epidemia da Covid-19.
Lo scorso 31 marzo, dopo cinque anni, si è chiusa l’operazione navale Sophia – che da un anno era paradossalmente rimasta senza navi, come ricordato sopra – e ha preso il via, con una decisione del Consiglio dell’Unione europea, la nuova operazione militare marittima Irini.
Da subito, molti dei protagonisti si sono affrettati a chiarire, giustamente, come Irini non sia la prosecuzione naturale di Sophia, per quanto un certo collegamento tra le due appaia evidente. Irini è in effetti venuta fuori nel mezzo della discussione sul rinnovo di Sophia, o meglio, è la soluzione emersa di fronte al fallimento dei negoziati per il rinnovo di quest’ultima. E altri punti di contatto si trovano nel comune contesto normativo e giuridico (che taglia fuori il Parlamento europeo dal processo decisionale e la Corte di giustizia da ogni ruolo di controllo), nell’affidamento allo stesso comando e allo stesso comandante, nei riferimenti a Sophia nella Decisione istitutiva della nuova operazione, nella sovrapposizione di scadenze e, più in generale, nelle dichiarazioni rilasciate dai leader europei in questi ultimi mesi. La comunanza di fondo sta, in ultima analisi, nel loro essere due operazioni militari di tipo navale, senza soluzione di continuità, riferite al medesimo spazio geografico: il mar Mediterraneo.
Ma se Sophia era essenzialmente finalizzata a combattere il traffico di migranti e aveva avuto, pur con innumerevoli limiti e per quanto non fosse questo il suo obiettivo primario, il merito di salvare diverse vite umane, Irini è tutt’altra cosa. Qui la finalità principale è quella di assicurare l’embargo delle armi in Libia (il che è importantissimo, per carità), poi quella di impedire il traffico di petrolio, in terzo luogo fornire assistenza e formazione alla cosiddetta e così tanto controversa guardia costiera libica e infine, in maniera residuale, quella di fornire elementi per contribuire allo smantellamento delle reti del traffico di migranti. Ma, viene specificato all’articolo 5 della Decisione istitutiva, per mezzo di velivoli, non di imbarcazioni. E di ricerca e soccorso in mare nel resto del testo non se ne parla nemmeno.
In questo nuovo contesto, appare non più sostenibile, se mai lo fosse stata, la retorica di un presunto ruolo europeo di «potenza morale», talora addirittura riparatrice rispetto agli egoismi dei suoi Stati membri, fautrice di una migrazione ordinata, rigida ma attenta ai diritti umani, in prima linea contro i trafficanti e preoccupata di evitare nuove tragedie nel Mediterraneo. Tutti aspetti che l’Europa, nei fatti, aveva abbandonato da tempo, ma che almeno a parole restavano in piedi. Il frutto ultimo di questo stato di cose era appunto l’operazione Sophia, che prevedeva anche una funzione Sar, rivelatasi nei fatti molto importante per quanto fosse puramente residuale nella logica dell’operazione e nelle regole d’ingaggio.
Con Irini anche questo velo di ipocrisia viene meno: c’è un cambiamento definitivo di paradigma, e della presunta attenzione dell’Unione europea alla sorte di chi attraversa il Mediterraneo non è rimasto più nulla. Nemmeno le parole. Quindi no, Irini non è una Sophia-bis, come ha detto qualcuno, e il passaggio da Sophia a Irini ha rotto qualcosa in maniera definitiva. E se questo, almeno, ci consente di guardare in faccia il mostro, chiudendo l’ambiguità della stagione iniziata nel 2013 dall’Italia con Mare Nostrum, in termini concreti significa però abbandonare del tutto i migranti al loro destino, del quale oramai da tempo sono rimaste a preoccuparsi soltanto, appunto, le Ong (Covid-19 e azioni e inazioni dei nostri governi permettendo).
In sostanza, il dramma mediterraneo è destinato a durare ben oltre queste ore e questi giorni e, tragicamente, a ripetersi. La linea italiana, per una volta, ha trionfato a Bruxelles: il giustiziere di Sophia, insieme ad Austria e Ungheria, è stato il ministro degli esteri Luigi Di Maio, che ha completato l’opera iniziata dal suo ex collega di governo Matteo Salvini, artefice dell’eliminazione delle navi dalla missione.
E se, in fondo, è poco quel che ci si può aspettare dall’Europa intergovernativa, il cambio di paradigma al quale si sta assistendo a livello continentale non risparmia nemmeno quel Parlamento europeo tradizionalmente più aperto e sensibile quantomeno alla dimensione umanitaria delle politiche migratorie, operazioni di ricerca e soccorso incluse. È emblematico, in tal senso, che appena qualche mese fa la camera di Bruxelles/Strasburgo non sia riuscita ad approvare nemmeno una risoluzione non vincolante sulla Sar, sostenuta coraggiosamente da verdi, sinistra del gruppo Gue-Ngl, socialdemocratici e, in parte liberali, ma affondata da una maggioranza composta da popolari e conservatori.
Insomma, se le politiche nazionali non lasciano presagire nulla di buono rispetto a un impegno su questo fronte, e anzi indicano ogni giorno di più l’inclinazione ad appaltare all’esterno – si legga Ue, ma anche, drammaticamente, Libia – la gestione di quello che viene considerato il «problema» migratorio, lo sguardo d’insieme sul Vecchio Continente non risulta per nulla rassicurante.
*Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del municipalismo e del diritto alla città, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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